La passione per lo spirito

Cantiere CIPAX 2003/2004
Incontro con Madre Michela Porcellato


27 giugno 2003


Giorgio Piacentini
Questa è la serata conclusiva del ciclo di incontri dedicati al confronto tra il nostro stile di vita quotidiano e i grandi valori della pace, della giustizia e della salvaguardia del creato. Dico solo due parole per far capire cosa è emerso nell'itinerario.
Il tema ha fatto emergere una linea di fondo molto concreta: la violenza. Giorgio Nebbia, parlando delle compatibilità ambientali, ci ha detto: "Potremmo intitolare tutto il nostro intervento Sulle origini della violenza". Una violenza che deriva dall'uso delle cose, perché noi siamo indotti, in questo momento storico a usare le cose, dominati dall'idea del possesso e da quella dell'accumulo. Chi ha parlato di sviluppo sostenibile ha detto: come facciamo a continuare con uno sviluppo solo quantitativo, pensare che si debba sempre procedere in avanti, sviluppando, aumentando le quantità, quando le risorse che abbiamo sono limitate? Questo porterà prima o poi a una situazione di guerra. E puntualmente la guerra c'è stata.
Le ricette sono state poche, ma molto precise, concentrate sulla capacità di dire no, di resistere a questo modello che ci è stato imposto e di preferire uno sviluppo di tipo qualitativo. E soprattutto di fare un'azione culturale per diffondere la consapevolezza dei limiti e della violenza del modello in cui viviamo, per far emergere la necessità di cambiare, di orientare i nostri comportamenti quotidiani secondo delle indicazioni precise che nei vari interventi sono state illustrate molto bene.
Quindi abbiamo parlato del problema molto grave dell'acqua, del problema della guerra e si è visto che in altri paesi (non nel nostro e non nella Chiesa cattolica) le Chiese avevano preso delle posizioni molto forti, quando ancora la guerra non era stata dichiarata. Poi anche Giovanni Paolo II ha gridato forte e c'è stata questa convergenza dal punto di vista religioso.
Gli ultimi due incontri hanno voluto aprire uno scenario diverso: l'incontro di questa sera e quello precedente sono dedicati ad aiutare noi ad affrontare questi problemi con uno spirito aperto, con uno spirito 'poetico'. Il tema dell'incontro precedente era: 'La poesia ci può salvare la vita?' ed è emerso che la poesia può salvare, ma può anche perdere le persone. La poesia è incantamento, la poesia è 'stregamento' e soprattutto la poesia presuppone comunque un atteggiamento di meraviglia e di stupore nei confronti delle situazioni della nostra vita. Questo atteggiamento di meraviglia ci porta molto vicino al tema di questa sera, 'La passione per lo Spirito', come qualcosa che ci possiamo scambiare per affrontare le incoerenze che abbiamo di fronte, perché in gioco è il futuro del nostro mondo.
A Madre Michela non chiediamo astrazioni, abbiamo sempre cercato di stare vicino alla realtà: le chiediamo una testimonianza sulla sua meraviglia nei confronti dello Spirito, sul 'stregamento' che il suo Signore ha manifestato nei suoi confronti, tanto da farle scegliere l'impegnativa via monastica nella famiglia camaldolese. Crediamo così di chiudere in bellezza questo nostro ciclo.

Madre Michela
Come diceva Giorgio, la mia sarà piuttosto una testimonianza, perché non sono capace di fare discorsi: alla monaca si confà il silenzio.
Innanzitutto voglio ringraziare per essere qui con voi. Non conoscevo la vostra realtà, quindi per me è anche una possibilità di nuove conoscenze e di nuove relazioni.
Una piccola premessa: quando parliamo del mondo monastico, del monachesimo, abbiamo i nostri pregiudizi: ciascuno di noi ha una sua prospettiva, o per letture che ha potuto fare o per incontri e anche noi abbiamo alle nostre spalle esperienze, alle volte di chiusura, alle volte di non comprensione della realtà del mondo. Non so se questa sera mi addentrerò in tutti i problemi che voi affrontate nella vostra attività o se invece sarò astratta. Io mi pongo sempre tanti interrogativi, cerco di vivere all'interno del monastero e della esperienza monastica quello che ogni uomo, ogni donna cerca di vivere nella sua realtà, nel mondo. Perché anche il monastero è appunto nel mondo.
La prima considerazione che farei è di non sentirmi diversa da voi. Questo lo dico con le parole dello starez Zosima nel bellissimo romanzo di Dostojevski 'I Fratelli Karamazov', che vi danno l'idea di cosa vuol dire essere una monaca, un monaco. Rivolgendosi ai suoi fratelli, a proposito della perfezione cristiana e monastica, lo starez dice così:
"Amate gli uomini, creature di Dio. Noi non siamo migliori della gente del mondo per il fatto che siamo venuti qui e ci siamo chiusi tra queste mura. Anzi, chiunque è venuto qui, proprio per il fatto di esserci venuto, ha riconosciuto di fronte a se stesso di essere peggiore della gente del mondo e di tutti gli uomini della terra. E quanto più un monaco vivrà tra le sue quattro mura, tanto più profondamente dovrà rendersene conto, perché in caso contrario non valeva nemmeno la pena che ci venisse. Quando poi riconoscerà non solo di essere peggiore di tutti gli altri, ma anche di essere colpevole di fronte a tutti gli uomini per tutti i peccati che si commettono sulla terra, quelli individuali e quelli universali, solo allora lo scopo della nostra unione sarà raggiunto. Sappiate infatti, miei cari, che ciascuno di noi è colpevole di tutto e per tutti sulla terra. Questo è certo. E non soltanto a causa della colpa comune, ma ciascuno individualmente per tutti gli uomini e per ogni uomo sulla terra. Questa consapevolezza è il coronamento della nostra vita di monaci e anche della vita di ogni uomo."
Vorrei partire da questo per dire che in realtà questa è stata anche l'esigenza che mi ha spinto a cercare Dio in una forma concreta, che poi è quella del monastero, della comunità monastica.
Un interrogativo che mi accompagnava da giovane, durante la mia ricerca vocazionale (avevo 24-25 anni), era quello della pace. Ero una persona impegnata nelle problematiche sociali: ero insegnante, appartenevo al sindacato, mi impegnavo in politica per quanto era possibile in un paese piccolo, facendo quello che fanno tutti alla ricerca del bene comune e del bene sociale; i miei genitori infatti mi avevano educato, benché vivessi in una famiglia numerosa, a occuparmi anche degli altri, come si fa nei piccoli paesi di campagna del Veneto, dove i problemi propri sono problemi di tutti e i problemi di tutti sono anche di ciascuno. Una dimensione fondamentale che ricordo in quegli anni era proprio la ricerca della pace dentro di me: ero una persona impulsiva, turbolenta, quindi questo era qualcosa che mi toccava profondamente. In fondo mi impegnavo, cercavo, lavoravo, riflettevo, ma mi sembrava che mi mancasse la pace, che ritenevo essere il bene supremo.
Ho impiegato diverso tempo e piano piano, quasi casualmente, ho fatto un'esperienza, ho conosciuto una realtà molto concreta e ho fatto la mia scelta, con tutte le fatiche di una scelta. E mi sono accorta che la pace coinvolge un aspetto profondo di se stessi, cioè che la ricerca della pace vera va insieme alla ricerca dell'interiorità. Oggi non abbiamo pace nel nostro modo e se andiamo bene a guardare vediamo che si è ristretto lo spazio dell'interiorità, in senso individuale e anche in senso collettivo. E dico proprio lo spazio dell'interiorità come lo spazio più bello della persona umana, senza del quale la persona non è più una persona. Ci sono dei filosofi oggi, degli psicologi, che si domandano: Ma esiste ancora un piccolo spazio dove c'è un 'dentro'? Non è che siamo tutti riversati fuori? Esiste questo piccolo spazio? Perché questo è fondamentale per chi poi cerca dentro di sé questo spazio di pace che poi identifica con Dio o con altri valori.
Vedevo dunque che la pace andava insieme a un aspetto del profondo di sé, quello che noi potremmo dire 'il di dentro' o 'il cuore'.
Dopo tanti anni (ormai sono 22 anni che sono in monastero) ho capito che questo è veramente radicale, ne sono più convinta adesso che all'inizio. Mi ricordo sempre di un apoftegma di un Padre, mi sembra Serafino di Sarof, che diceva: "Trova la pace dentro di te e il mondo intero sarà ai tuoi piedi, ti cercherà, ti inseguirà." Per dire appunto che la pace iniziava dal di dentro di sé.
Nel monastero ci sono degli strumenti che descrive San Benedetto nella Regola: la pace si trova in tante piccole cose che fanno poi la vita quotidiana. Ma innanzitutto per Benedetto c'è un grande cammino. All'inizio della Regola di San Benedetto c'è un lunghissimo capitolo appunto su tutti i gradini per fare un cammino di ricerca della pace che inizia con un percorso di umiltà. Tutti termini che magari possono anche far sorridere, ma che in realtà sono fondamentali proprio per conseguire questo bene.
In fondo la vocazione alla pace nasce dal cominciare a capire tutto ciò che ci ostacola - le divisioni, le contraddizioni, le paure, le angosce, il peccato radicato profondamente dentro di noi - senza avere la pretesa (dice così San Benedetto nella Regola) di risolverli profondamente. Io amo dire che la pace monastica è credere alla pace e nello stesso tempo portare dentro tutto questo travaglio, sapendo che l'unificazione in Cristo sarà possibile per grazia quando Dio lo vorrà, ma certamente, per quanto l'uomo voglia lavorare, impegnarsi, trasformarsi, non è qualcosa che dipende totalmente dalla sua volontà.
Allora la prima cosa che ho imparato è essere consapevoli del proprio limite e accoglierlo come una possibilità dell'esercizio della misericordia di Dio su di sé. Questa accoglienza piena della compassione di Dio per se stessi ci fa poi allargare lo spazio dentro per avere questa compassione per tutta la realtà.
In un testo molto bello Isacco di Ninive dice che lo sguardo di compassione è uno sguardo universale, perché compassione per uno è compassione per tutto, perfino, arriva a dire con un'espressione un po' paradossale, per il Demonio. Dio è così. Allora certamente se non si allarga lo spazio dentro di noi a questa compassione, mai raggiungeremo con il pensiero il mondo intero.
Perché io credo una cosa profonda, importante: quanto più noi siamo centrati su noi stessi, autoreferenziali - anche inseguendo cose belle, anche parlando della pace - tanto meno riusciremo ad abbracciare l'universo intero. Allora per i Padri la prima cosa che si impara nel monastero con difficoltà è proprio l'abbattimento delle barriere dell'ego per allargare lo spazio interiore. È una distruzione positiva, Paolo direbbe che si tratta di dare morte all'uomo vecchio. In una sua bellissima lettera, quella ai Filippesi, dice molto bene questo: Assumete in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù.
Oggi è la festa del Sacro Cuore e possiamo anche parlare del 'sentire di Dio'. Sentire non nel senso del sentimentalismo o del sentire razionalistico; Paolo usa un termine che vuol dire conoscenza globale, che non è solo il sentimento del cuore, ma che è anche una perspicacia che permette di capire le cose in una maniera nuova.
E quali sono questi sentimenti che sono stati propri del Dio fatto uomo, di Gesù? Appunto che, pur essendo Dio, non considerò come un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma si spogliò assumendo la condizione di servo. Anche qui siamo di fronte ad una contrapposizione, perché si dice: assumendo qualcosa (un'altra modalità di essere, un altro sentire, il sentire umano) si spogliò. Siamo abituati generalmente a capire che bisogna spogliarsi di qualcosa per poi rivestirsi. No, è assumendo l'altro che mi spoglio di me. È la stessa ottica con cui Paolo dice che Dio, assumendo l'umanità o il sentire umano, in certo qual modo si è quasi spogliato e ha messo un vestito altro, che lo fa davvero in tutto e per tutto uomo, con un percepire, un sentire, un cuore, un'intelligenza, una volontà profondamente, radicalmente umane.
Allora si può dire che nello stesso modo con cui Dio si spoglia assumendo la condizione di servo, anche ciascuno di noi, se assume davvero l'altro, in certo modo viene spogliato di una forma troppo egocentrica o troppo vanagloriosa. Fare spazio all'altro è sempre, in certo modo, collegato col morire a una parte piccola di sé. Questo crea poi quella libertà che si configurerà come amore pieno: l'amore ha a che fare con la libertà, altrimenti è negato.
Allora questa ricerca della pace nel monastero non è una ricerca di separazione, di tenere lontani i problemi, di una certa indifferenza all'altro; non è neppure una pace psicologica fatta dell'esercizio della volontà,del pensiero (tutte cose molto importanti, che possono servire). No, quella che si chiama 'pace monastica' innanzitutto consiste nell'assumere una mentalità, un sentire che chiamiamo 'essere un tutt'uno con Cristo' e cioè lavorare per fare in modo che la grazia ci porti al suo livello, il livello della libertà che ci viene donata. Per far questo San Benedetto parla della continua conversione del monaco. Ecco perché non può essere una pace dei sensi, una pace psicologica piacevole: perché è un continuo lottare. Si chiama 'combattimento spirituale quotidiano', che ci fa esercitare continuamente in questo nuovo modo di essere, che non viene da noi, non viene dal nostro sapere, non viene dal nostro credere, ma ci viene donato dalla rivelazione, dall'apertura del cuore che viene attraverso le Scritture e in modo particolare dall'opera di Cristo stesso attraverso il suo Spirito.
Ecco, io credo che questo sia davvero fondamentale per capire che la pace del monaco e della monaca: non è una pace di persone tranquille, ma è questo continuo combattere dentro di noi che diventa poi capacità di apertura all'altro, diventa spazio per l'altro, diventa luogo dell'accoglienza piena dell'altro - e non solo dell'altro sorella o fratello che ci abita vicino.
Del resto accogliere l'altro che ci abita vicino è la cosa abbastanza difficile, perché, diceva San Basilio, 'vita comune massima penitenza', cioè quando si vive tante ore insieme per tanti anni diventa veramente difficile accogliere l'altro a questo livello elevato, cioè avendo lo stesso sentire di Cristo. Anche perché una comunità concreta siamo fatte di tante persone diverse per età, per cultura, per nazionalità, per carattere, per spiritualità e così via. Anche San Benedetto ha dovuto lottare con questa uguaglianza che si vive nel monastero: ai suoi tempi entravano nei monasteri tante persone, da barbari a senatori romani, e dovevano essere insieme e ciascuno era posto secondo il suo ordine di entrata, non c'erano privilegi. L'uguaglianza che si vive in monastero non è un'uguaglianza che non mantiene le differenze, ma è proprio questo essere ciascuno importante, perché ciascuno è immagine di Dio. Ecco, condurre una vita comune è un'esperienza difficile, che ci fa sentire sempre tanto umiliati e tanto incapaci. In questo senso allora si ricorre a Dio attraverso la preghiera e soprattutto l'esercizio del perdono reciproco.
Se ciascuno non cerca Dio attraverso l'immagine di Gesù che ciascuno rappresenta, il monastero diventa qualcosa di invivibile, qualcosa di impossibile, dal punto di vista umano: ci sarebbe da fare la guerra tutti i giorni per tante piccole cose (e di guerre se ne fanno). Dall'altra parte siamo sempre riportati a questa tensione del rivestirci di Cristo, come dice il Prologo di San Benedetto. E allora diventa facile, come dice anche la lettera di San Paolo ai Galati, perché non c'è più greco né giudeo, non c'è più uomo né donna, non c'è più schiavo né libero, ma ormai siamo tutti uno in Cristo Gesù.
Che vuol dire questo? Non significa che sono abrogate le differenze, ma che c'è un livello a cui siamo chiamati che è il livello dell'uno, dell'armonia in Cristo, dove Cristo ha abbattuto tutte le differenze.
Per me questo è veramente fondamentale, perché se la comunità monastica si appiattisce sul livello umano, antropologico, certamente è un fallimento. Invece c'è questa tensione cristocentrica che San Benedetto propone, e l'unità si ritrova a quel livello.
Una delle attività che la monaca fa tutti i giorni, per assumere quest'altro modo di pensare, questa nuova mentalità, è quella di leggere la Scrittura, di riportarsi continuamente allo stesso sentire di Dio, attraverso la parola viva, efficace, che è la parola di Dio dell'Antico e del Nuovo Testamento. È uscire dalla lettura della Bibbia e rimanere all'altezza della comprensione di quella pagina che significa concretamente lavorare in ogni piccola cosa.
Così, come dicevo all'inizio, per poter abbracciare il mondo intero è importante che noi lasciamo il nostro io perfino per quanto riguarda il nostro modo di pensare la spiritualità, la vita spirituale o la vita di fede. Perché in fondo è sempre la nostra idea di grandezza che ritorna. Una delle maggiori difficoltà della vita concreta delle persone è realmente quella di abbandonare le proprie piccole o grandi idee, il proprio io, le proprie onnipotenze, le proprie grandezze, anche nella ricerca spirituale. È una via che richiede un grande discernimento, perché diventa anche rischioso analizzarsi su tutte queste realtà. È per questo che Paolo e anche Benedetto ci invitano a non giudicarci e a non giudicare: non si fanno verifiche per dire se siamo cresciuti nella santità o se siamo diminuiti, perché anche questa potrebbe essere una presunzione, dietro la quale si può nascondere un'idea di grandezza.
La vita monastica è anche una vita molto semplice, in cui siamo aiutati non solo dalla parola di Dio, ma anche dalla liturgia, che ci dà una dimensione del tempo. Penso che conosciate il ritmo monastico: dall'inizio della giornata, come ci si alza, fino alla sera quando si chiudono gli occhi, ci sono delle ore particolari, delle ore liturgiche che segnano il tempo. È qualcosa di bello, letto anche dentro una realtà come quella di oggi.
Possiamo dire che il monastero ancora conserva il tempo, ancora si può appropriare del tempo. Ma c'è di più, perché la liturgia ci indica un tempo altro: non si tratta solo del tempo cronologico, ma facciamo esperienza di un tempo anticipato, di un tempo escatologico. Ciascuno di noi, in una celebrazione eucaristica, in una preghiera liturgica comunitaria delle lodi o dei vespri, fa esperienza di questo. È come se entrasse, in quel tempo cronologico, in un altro tempo, che è appunto l'ultimo tempo. A me piace sempre vedere la liturgia come un anticipo del tempo di Dio; cioè attraverso la liturgia il tempo di Dio è proprio qui, c'è come un'assimilazione, un essere già dentro l'ultimo tempo. E questo è molto bello, perché in fondo è la speranza già realizzata.
Questo che si vive nella giornata monastica davvero è una grazia e credo sia importante che ciascun cristiano poi se ne appropri; non perché nella liturgia si viva altro, perché siamo sempre noi, ma è come mettere in relazione, far comunione della realtà divina e di quella umana. È proprio questo continuo vivere la liturgia e dalla liturgia ritornare alla realtà che lentamente trasforma noi stessi, trasforma la nostra storia, trasforma la storia dell'umanità.
Forse noi occidentali abbiamo perso il grande senso della liturgia; lo si può capire maggiormente nella liturgia orientale, perché gli orientali vivono il tempo liturgico proprio come il tempo dello Spirito. Per noi invece la liturgia tante volte è piuttosto una elaborazione nostra, sentiamo meno il mistero. Ciò non toglie che la liturgia sia il tempo di Dio, l'Eterno che viene assunto e in certo qual modo ci trasforma.
(...) Un'altra realtà molto bella è la vita fraterna, come vita delle relazioni libere. Il monastero è anche il luogo dove si va imparando la libertà, proprio perché si passa da liberazione a liberazione. Io amo vedere sempre come la Regola in fondo contiene la libertà, così come ogni libertà vera contiene una regola. All'inizio trovavo un po' duro il fatto che ci siano delle regole nel monastero: la regola per l'alzata, la regola nel refettorio ecc.. Poi ho capito che tutto questo porta a una libertà vera, profonda dentro.
Io ho un po' di esperienza di formazione e vedo il primo grande rischio nel monastero può essere quello di svendere la propria libertà, di appiattirsi su un già fatto. C'è quindi il rischio della deresponsabilizzazione, perché ciascuno di noi in realtà ha paura della propria libertà, così come ha paura della propria responsabilità. Non è vero che amiamo la libertà, perché la libertà è responsabilità. Vedo che certe volte le giovani preferiscono avere delle regole chiare, che da certi punti di vista deresponsabilizzano.
Invece il monastero è proprio il luogo dove ci esercitiamo nella libertà. Altrimenti sarebbe il luogo del non amore. Perché in fondo l'obiettivo della comunità monastica è quello dell'amarci reciprocamente: dalla testimonianza dell'amore reciproco, come dice Gesù, "capiranno che siete miei discepoli". E l'amore si impara esercitandosi nell'amore.
Se tutto è finalizzato all'amore e alla costruzione della comunità nell'amore, certamente la libertà è il fondamento, il presupposto, e anche il metodo con cui si arrivano a vivere anche le regole. Io amo sempre dire alle giovani: "Se questa cosa non la fai liberamente, non farla, è preferibile". Così è anche un esercizio, un'educazione a leggere le piccole cose con altra ottica.
Io amo vedere il monastero come un microcosmo del grande cosmo. C'è tutto nel monastero, tutto il bene e il male che si trovano nel mondo: niente di diverso, niente di più, niente di meno. Così come in ogni persona c'è tutto il bene e il male che sta al di fuori. In questo piccolo microcosmo penso sempre alla parola di Gesù che dice: "Se non sei fedele nel poco, non lo sarai nemmeno nel molto". E cioè: se davvero tu non cerchi la pace nelle piccole cose, nei piccoli conflitti, non si può pretendere che poi questa pace sia vissuta all'esterno. Allora l'esercizio difficile, la passione dello Spirito che si può vivere in un monastero, non è tanto impegnarsi sui grandi problemi, ma capire e vivere le piccole cose quotidiane, il che alle volte richiede uno sguardo di fede molto più grande di quello che potremmo pensare.
Voglio leggervi un testo di una nostra monaca, che porto sempre come testimonianza. È una americana che è arrivata da noi nel dopoguerra. Cercava il deserto, il deserto vero. Poi per una serie di evenienze si è fermata nella nostra comunità monastica e si è reclusa per 44 anni. La sua vita si svolgeva solo in una piccola cella, aperta sulla strada (quindi con rumori, non è che godesse di un silenzio bello idilliaco) ed era costituita di preghiera e lavoro, secondo la modalità vissuta dagli antichi Padri nel deserto. Questa donna è stata davvero una grande combattente per tante sue esigenze interiori, perché era una donna molto capace, molto loquace, molto bella anche dal punto di vista umano. Ha lasciato molti scritti e molte lettere.
Benché vivesse all'interno del monastero, ha vissuto momenti di disperazione in cui si è sentita abbandonata da tutti, anche dalle sorelle e perfino da Dio. Ha delle belle lettere in cui si descrive sempre come una che combatte con le armi in pugno, ma anche con il canto sempre nella bocca. Quindi un combattimento bello, che in fondo crea la gioia, che apre le dimensioni dell'interiorità.
Mi è piaciuta una piccola lettera che lei scrisse nel '47 al cardinale Mayer, dove dice come bisogna vivere in ogni situazione quotidiana. Ma quello che mi piace più di tutto è che dice: in fondo ciascuno di noi è preso da grandi cose e non dà peso alle piccole cose, che prendono tanto spazio della nostra vita. Se noi imparassimo a vedere diversamente la realtà del mondo, forse tante situazioni cambierebbero. E usa una bella immagine. Dice così:
"Un sinonimo per 'spirito di fede' mi sembra che sia 'un buon paio di occhiali divini': vedere tutto, assolutamente tutto, attraverso gli occhiali divini. Allora tutto ci parla del mondo divino, le più piccole cose lette, viste, udite, ci sollevano al mondo da dove è venuto, il mondo divino. La stessa cosa vale per tutti gli avvenimenti, per tutte le vicissitudini, gioie, dolori: tutto è messaggio, soffio del mondo divino. Questo vedere, leggere, accettare tutto dal mondo divino, dà una tinta soprannaturale a tutta la nostra esistenza, ci fa vivere in un'atmosfera totalmente penetrata dal divino. Contemporaneamente ci tiene uniti a questo mondo, ci fa agire in tutto, per tutto, con tutto e con tutti in maniera divina. Nulla è escluso, quantunque banale o di poco valore materialmente o spiritualmente. E in più bisogna fare attenzione, grande attenzione: quando si tratta di cose di ogni giorno, di cose che si fanno sempre, di cose banali e facili ecc. siamo portati a non penetrare queste cose col divino, a non unirle al divino. Ci sembrano cose di troppo poca importanza e non ci facciamo molta attenzione; agiamo verso di esse come macchine, lasciando l'io occuparsi principalmente con cose che ci sembrano più degne della nostra attenzione, del nostro amore, della nostra assiduità ecc.. E quando ci si pensa bene, la gran parte della nostra vita, delle nostre attività, è dedicata a compiere queste azioni di poca importanza, o comunque di un'importanza più grande ma ridotta da noi, a causa magari dell'abitudine o di un'importanza meno verace. Al contrario, un'anima che dirige la sua più assidua attenzione alle cose banali, alle cose che si fanno tutti i giorni, alle cose che siamo portati a trascurare, e che si sforza di vedere tutte queste cose attraverso gli occhiali divini, farà grandissimi progressi in poco tempo, perché, siccome queste cose occupano la grande parte della giornata e della nostra vita, allora la grande parte della nostra vita sarà occupata divinamente, sarà vissuta nell'atmosfera divina. Di più, sorpassando, trionfando dell'abitudine, del meccanicismo, della pigrizia e così via, nelle cose di poca importanza che occupano la maggior parte della sua vita, certamente quest'anima non dimenticherà o trascurerà di farlo nelle cose di maggiore importanza. Così, umanamente parlando,ci sono cose a cui noi diamo poca importanza, ma tutto ha un valore eterno. Se si guardasse tutto ciò gli occhiali divini che ci parlano sempre del valore eterno, la nostra accettazione, la nostra condotta, la nostra attitudine verso tutto ben presto subirebbe una trasformazione: in vista del divino, dell'eterno, la gioia, per esempio, i successi, sarebbero accettati divinamente ed eternamente, con dolce calma, pace, riconoscenza, santo distacco, pronti a rinunciarvi ad ogni momento quando un messaggio dall'alto ci darebbe una tale notizia.
Alle volte però è ben difficile servirsi bene di questi occhiali, specialmente quando piace al Re divino di nascondere i suoi splendori sotto sembianze dolorose, ributtanti, ripugnanti. Ma è proprio in tali occasioni che se l'anima è coraggiosa, risoluta, generosa, se nonostante la fatica implicata dalla continua escavazione e spogliamento fintantoché non arrivi a scoprire gli splendori divini, ebbene, è proprio in tali occasioni che il Dio di bontà infinita coronerà i suoi umili, coraggiosi, perseveranti sforzi da nulla, per darle una visione più intima, più abbagliante, delle bellezze divine. Sì, scaviamo sempre nel mondo divino, cerchiamo sempre ed in tutto la sua faccia, il volto di Dio. Teniamo con tenacità questi occhiali di valore eterno nelle occasioni quando c'è tanto pericolo, così da non lasciare bruciare dalla falsa fiamma dei successi mondani."
È un modo di parlare un po' faticoso, anche perché era americana e non conosceva molto bene l'italiano, ma quello che mi sembra importante di questa sua riflessione (perché questa è stata poi anche la sua vita) è proprio questo penetrare con sguardo diverso il tutto. Ed è quello che Isacco di Ninive dice. Lei parla di 'spirito di fede', Isacco di Ninive di 'compassione verso tutto', questo sguardo di compassione che è proprio lo sguardo di Dio, verso tutto. Questo dà anche un altro modo di percepire poi la storia, il mondo.
Se riusciamo a penetrare ogni realtà con questo che si può dire lo spirito stesso di Dio, ciascuno di noi acquista quella trasparenza che diventa quasi una possibilità che la grazia di Dio si comunichi attraverso di lui. Io penso sempre che la grazia di Dio è sempre tanto grande, non manca oggi come mai è mancata, perché Dio è veramente la misericordia; soltanto che trova, possiamo dire con tanti mistici, delle barriere in noi. Allora è come se trovasse un cuore opaco, un muro e questa grazia non può passare attraverso di noi e comunicarsi a un'altra persona. La grazia non può agire da se stessa, senza che noi lo vogliamo, perché ci rispetta. Allora entrare dentro la realtà di Dio, cioè assumere quest'altra mentalità, questo altro modo di sentire, che è quello divino, che qui si chiama occhiali, che si chiama compassione di Dio, vuol dire che tutto questo ci permette di essere come trasparenti, di cristallo. Quanto più ognuno fa spazio dentro di sé a questa nuova realtà, che è la compassione stessa di Dio, tanto più diventa vaso di comunicazione.
La pace non si aggiunge se non per contagio personale. A me per esempio ha sempre fatto impressione quando ho incontrato degli anziani (si può anche vedere questo nel monastero) attraverso i quali ho avuto l'impressione che si comunicasse senza barriere direttamente Dio. Erano questi i grandi starez a cui andava la gente, i grandi guru della religione indù, queste persone dove davvero non c'è più barriera, perché si sono fatti talmente tutt'uno con Dio e con la sua compassione, con la sua misericordia, che tutto come loro guardano è trasformato. Ma anche la gente che li guarda assorbe questa trasformazione o è incitata a questa trasformazione.
Io mi auguro che il terzo millennio sarà un millennio dove tutti saranno 'monaci segreti', come diceva Olivier Clément nel suo libro 'Solchi di luce. La fede e la bellezza', a proposito della situazione nei paesi dell'Est durante il comunismo. Ve ne leggo un brano:
Un grande spirituale di Patmos, padre Anfilochio, ha avuto l'idea di fondare (poco più di 50 anni fa) nelle isole vicine delle piccole comunità femminili che, pur recitando l'ufficio quattro volte al giorno e praticando lunghi momenti di preghiera silenziosa, si occupano anche di catechesi e tentano di migliorare concretamente intorno a loro la condizione delle donne. In Romania la riforma monastica realizzata dal Patriarca Giustiniano e che ha portato i suoi frutti tra il 1950 e il '58, imponeva allo stesso tempo ai monaci il servizio divino e quello del prossimo: da una parte c'era la fonte feconda dell'esicasmo, dall'altra lo sforzo di trasformare i monasteri in centri di lavoro intellettuale e manuale, centri di servizio sociale, integrandoli addirittura nel sindacato delle cooperative collettiviste. Si trattava in fondo di assumere nella preghiera le anime opache o ribelli e nello stesso tempo di assumere anche il culto marxista del lavoro, dandogli il carattere di una trasformazione mistica della natura e di deificazione. Questo rinnovamento è stato limitato dalle forti pressioni governative negli anni '58-'60, quando molti monaci sono stati messi in prigione e altri inseriti nella produzione. Fatti analoghi sono accaduti in Russia. Così si sono moltiplicati i monaci segreti, che compivano in Cristo la discesa agli inferi.
È profetica perciò l'intuizione di Dostojevski che ci mostra lo starez Zosima rimandare nel mondo Alioscia Karamazov che vuole farsi monaco, perché gli dice: "No, diventa monaco segreto".
Ecco, mi sembra che non dobbiamo relegare il monachesimo, la vita interiore, la vita dello spirito, ai monasteri come si poteva fare una volta: voi pregate, noi lavoriamo. No, io credo che il monastero sia importantissimo come realtà profetica: è necessario che ci siano sempre delle persone che si dedicano a Dio. Ma credo che monaci dobbiamo esserlo tutti, credo che liberare lo spirito e ampliare lo spazio dell'io come realtà di Dio sia la vocazione di ogni persona.
Il monachesimo ha avuto un suo tempo e subisce continue trasformazioni. Io sono convinta che il monachesimo cambierà ancora, appunto nel senso di liberare lo spirito in ciascuno, di far emergere la dimensione profonda di ogni persona per poterla concretamente vivere.

Madre Michela Porcellato è abbadessa delle monache camaldolesi del monastero di S. Antonio All'Aventino di Roma.