Costruttori di pace

Cantiere CIPAX 2003/2004
Incontro con David Gerbi


7 ottobre 2003


Giorgio Piacentini
È sempre un'emozione incominciare un nuovo ciclo di incontri, soprattutto questa sera con un pubblico bello, composito, internazionale, che ci dà molte sollecitazioni positive.
Dico solo brevemente l'idea: quest'anno non abbiamo scelto un programma con una tesi da dimostrare, una ricerca da fare, un percorso già individuato, come è stato l'anno scorso e com'è stato, tutto sommato, in tutti i precedenti incontri annuali del Cipax, che si ripetono ormai da 15 anni e forse più. Quest'anno non c'è un tema, ma c'è un'idea: che questa casa diventi un luogo di pace dove ascoltare racconti, scambiare esperienze e costruire il futuro. Non ci saranno persone che vengono a presentare problemi o teorie, ci saranno persone che vengono a raccontare esperienze significative, per loro e forse per tutti. Il nostro ascolto sarà particolarmente attento per cogliere, attraverso l'esperienza quotidiana di amici e amiche, il senso profondo delle loro storie.
Questa sera Roberto Mander intervisterà David Gerbi. Alla fine vorremmo tentare un piccolo esperimento, suggerito da un'esperienza di lavoro e di ascolto estremamente dolce e profondo che alcuni di noi da un po' di tempo stanno vivendo. Abbiamo messo appositamente due file di posti. Chi vuole partecipare in modo diretto può occupare i posti più interni, chi vuole semplicemente osservare può situarsi nel cerchio esterno, che assiste, ma dà anche forza a questo lavoro. Con estrema libertà.
Ora darei la parola a Roberto che conosce bene David, e ce lo può presentare, mentre aspettiamo il suo arrivo.


Roberto Mander
Certo è un po' imbarazzante iniziare senza David, ma possiamo dire che stasera si è aggiunto un altro capitolo straordinario alla vicenda che David racconta nel suo libro 'Costruttori di Pace', uscito pochi mesi fa presso l'editore 'Appunti di Viaggio'. Adesso non vorrei farvi un riassunto biografico, perché sarebbe freddo e perderebbe quei significati che invece - credo - nella vicenda di David tutti noi possiamo ritrovare. Dirò solo qualcosa per farvi capire l'importanza di quello che è successo oggi.
David insieme alla sua famiglia viene cacciato, è vittima di un pogrom che si sviluppa in Libia nel '67. L'Egitto, in seguito alla Guerra dei Sei Giorni, fomenta le popolazioni arabe del Nord Africa, in particolare della Libia, contro gli ebrei residenti. Ci sono degli eccidi, c'è molta violenza, si vive chiusi in casa perché si ha paura di uscire per strada. Alla fine chi non è stato ucciso viene imbarcato su delle navi e molti decidono di venire in Italia. Questa è la sorte della famiglia di David e di molte altre, per cui a Roma c'è una comunità abbastanza numerosa di ebrei di Libia. Altri decideranno di andare in Israele, altri in altri paesi ancora.
David nel '67 ha 12 anni. Arriva in Italia dove viene accolto, sostenuto, ma gli rimane la ferita aperta per aver perso questa radice così profonda. Racconta che nella sua famiglia si continua a cucinare quel tipo di cucina, si sente quella musica, si parla quella lingua; e anche il rito religioso avviene secondo le modalità che sono sopravvissute in Libia. Tra l'altro è interessante notare che la comunità ebraica di Libia è antichissima: ufficialmente risale alla cacciata degli ebrei dalla cattolica Spagna nel 1492, ma ci sono tracce (come qui a Roma) di insediamenti ebraici ben più antichi.
Quindi uno strappo violento: una convivenza durata secoli viene troncata in modo brutale nel '67. Ovviamente gli ebrei perdono tutti i loro averi. Quella di David era una famiglia benestante, il padre aveva un negozio di gioielleria: tutto viene confiscato e quindi si trovano a ricominciare da capo qui in Italia.
Questa ferita rimane. In David c'è nostalgia per la Libia, c'è il ricordo della malinconia del padre, che non si riprenderà mai: riescono a rimettersi in piedi, questa famiglia va avanti, ma rimane una cicatrice molto profonda.
David comincia a pensare alla sua vicenda e a scrivere il libro. Ed è interessante che il primo titolo che gli viene in mente sia: "La Ferita del Rifugiato", proprio perché è importante riconoscere la profondità dei traumi subiti in fasi precedenti della vita: prigionia, pogrom, esilio ecc. Però poi, man mano che il progetto dentro di lui prende corpo - anche con l'aiuto dei sogni, che hanno un ruolo molto importante in questa vicenda - alla fine il libro si chiamerà: "I costruttori di pace".
Come dire: rimanere ancorati alla ferita del rifugiato, in qualche modo significa rimanere ancorati al passato. Invece il costruttore di pace è colui che guarda avanti, che fa i conti fino in fondo con quello che è successo; non getta dietro le spalle, ma riattraversa, rivive nei minimi dettagli quello che gli è capitato, per poter diventare quello che, in alcune tradizioni, viene definito il 'guaritore ferito'. Proprio chi ha subito certe ferite è la persona più adatta per aiutare gli altri o comunque per promuovere processi di amicizia e di pace.
Quindi un anno e mezzo fa circa David matura il bisogno di tornare in Libia e di fare i conti con la sua parte libica, con la sua parte araba. Siamo negli anni durissimi della seconda intifada, quindi degli scontri quotidiani tra palestinesi e israeliani.
L'11 settembre. C'è un episodio chiave di David: l'11 settembre David sta uscendo da una visita dal gastroenterologo perché sta male, ha delle somatizzazioni. Si ferma in un bar vicino Piazza Cipro, qui a Roma, e la televisione trasmette le scene dell'11 settembre. Questa cosa lo colpisce, perché gli tornano in mente i rumori della folla che dava la caccia all'ebreo, le grida che ha sentito da bambino: "Uccidete l'ebreo! Uccidete l'ebreo!". Rivive sulla scena che la televisione trasmette da New York il suo ricordo, l'imprinting profondo della violenza subita. Ebbene, questo diventa un ulteriore elemento per cercare in qualche modo un percorso di pacificazione. Alla domanda che anch'io gli ho fatto: "Ma a che cosa serve questo tuo progetto?", David risponde: "In primo luogo serve per guarire, perché io voglio guarire".
E a questo punto succede un'altra di quelle strane coincidenze, come quella di oggi: in una festa di matrimonio di un parente, David in maniera abbastanza casuale viene a sapere che una sua lontana parente, Rina Debach, una prozia, è ancora viva in Libia. È una donna molto anziana che tutta la famiglia che è riuscita a fuggire qui in Italia, così come l'altro ramo che si è rifugiato in Israele, pensavano morta. Invece questa donna è viva.
A questo punto ecco che il desiderio, il sogno di David di tornare in Libia, prende un aspetto estremamente concreto: riportare la zia in Italia, questa zia che è chiusa in un istituto per anziani, che non parla più, che sembra venga assistita in maniera più che buona dalle competenti autorità sanitarie libiche, ma che è lì sola. Inizia un lavoro certosino di David. Siamo nell'estate scorsa, il periodo in cui ci incontriamo. Una sera d'agosto gli dico: "Mi sembri una trivella"; non dava pace ai funzionari dell'ambasciata italiana a Tripoli e dell'ambasciata libica in Italia. Alla fine, a settembre dell'anno scorso, David riesce ad avere il biglietto aereo per andare a Tripoli. Tranne pochissimi casi per motivi esclusivamente commerciali, è il primo ebreo a tornare in Libia dal 1967.
Torna in Libia, visita la zia - è una pagina molto commovente del libro - visita i luoghi della sua infanzia, torna nel negozio del papà e nella casa dove è nato e ha vissuto per 12 anni. E lì matura la decisione di non chiedere la restituzione di quello che gli è stato tolto. Pensa che sia un vero gesto di pace e che possa essere un invito a tutti i profughi di qualsiasi parte: rinunciare a chiedere quello che gli spetterebbe per diritto.
Adesso io non voglio entrare ulteriormente nei dettagli, ma oggi 7 ottobre - ed è anche questa una coincidenza, visto che questa nostra data è stata decisa per rispettare lo shabat, mentre di solito gli incontri del Cipax sono il venerdì sera - alle 16, Rina Debach, la prozia, ultima ebrea vivente in Libia, è sbarcata all'aeroporto di Fiumicino. Poche ore fa. C'era la stampa, la televisione e i parenti che l'hanno accompagnata e la ospiteranno nella loro casa. David un'oretta fa era in albergo dove alloggiano il personale sanitario e i due funzionari libici che hanno accompagnato l'anziana donna.
Oggi pomeriggio, riflettendo su questo incontro, pensavo a una storia a noi di One by One molto cara, che molti di voi conosceranno: quella del raccoglitore di stelle marine. C'è un uomo che guarda un altro uomo che sulla spiaggia si alza, si china e si rialza. Gli chiede: "Scusi, ma lei che cosa fa?". Quello risponde: "Vede, ogni volta che c'è la bassa marea anche le stelle marine rimangono all'asciutto: io le prendo e le riporto in mare, in modo che non muoiano". E l'altro: "Ma lei è pazzo, non riuscirà a mai a salvarle tutte". "Sì, lei ha ragione, però vede, per questa stella marina una differenza c'è".
Abbiamo organizzato questo incontro proprio per parlare di questa esperienza di costruttore di pace, essa ha alimentato e fatto crescere una rete di persone diverse, di incontri casuali (ma qui il caso sembra che c'entri sempre meno), che ha prodotto dei risultati molto concreti: il ritorno della zia Rina è qualcosa di estremamente concreto che riempie a noi tutti il cuore di gioia.
Intorno a questa vicenda di David sono cresciute diecimila altre cose. Ovviamente non è stata fatta la pace con la Libia. È vero che è un momento particolare. Gheddafi già da alcuni anni si era defilato rispetto alla sua posizione del passato nel Fronte della Fermezza, insieme all'Iraq, insieme alla Siria, c'è stato l'incontro di due anni fa con Mandela. Ricordo che nell'agosto dell'anno scorso con David abbiamo visto la partita Parma-Juventus, con Cuccureddu, il famoso giocatore titolare di una maglia juventina, che attualmente è l'allenatore della nazionale libica; credo fosse una partita della Coppa Italia, giocata a Tripoli. Chiaramente una questione tutta politica: forse i più anziani di noi ricordano le partite di ping-pong in Cina ai tempi dell'incontro tra Nixon e Mao Tse Tung. Quindi c'è chiaramente un clima diverso, in cui il colonnello Gheddafi tenta una politica estera diversa da quella del passato; quindi la vicenda della prozia di David in qualche modo rientra in questo quadro più generale.
Che cosa significa? Io credo che questo sia stato il lavoro fondamentale: lavorare per aprire delle porte, cioé creare dei legami reali, intrecciare dei fili, un ordito tra persone diverse. Per esempio funzionari anche di alto livello del governo libico, che hanno ricevuto David quando era a Tripoli, che non solo l'hanno ospitato in un albergo a loro spese, ma gli hanno permesso di girare liberamente la città - chiaramente aveva un accompagnatore. David aveva avuto un sogno - anche qui un'altra cosa interessante - e quando parla col rabbino capo Elio Toaff del suo desiderio di tornare in Libia e della sua aspirazione di restaurare il cimitero ebraico di Tripoli, Toaff gli dice che anche lui aveva avuto in passato lo stesso sogno e si era occupato di restaurare un cimitero in una città d'Italia di cui ora non ricordo il nome.
Quindi David va a Tripoli. Non c'è più il cimitero, su di esso è stata costruita una larga strada. Così David in Libia si fa portatore anche di questa esigenza, perché gli ebrei libici possano tornare a onorare la memoria dei loro cari che sono stati sepolti lì per secoli e secoli. Anche le importanti sinagoghe sono state chiuse e non sono più agibili. È chiaro che questi risultati non si possono ottenere da un giorno all'altro. David non si aspettava certo questo, quando nel settembre scorso è andato giù, ma è riuscito ad avere sul posto tutta una serie di relazione e di incontri: quelli diretti, faccia a faccia, con gli attuali abitanti della casa dove lui era nato; quelli con coloro che hanno installato una loro attività commerciale nel negozio che un tempo era del padre; quelli con i funzionari… Insomma, in un modo veramente incredibile, tutta una serie di persone in qualche modo sono entrate in questa storia. Ogni volta che incontravo David era una sfilza di nomi di persone: chi poteva far quello, chi poteva fare quell'altro… Insomma s'è creato proprio un circolo virtuoso di sinergie in questo processo di dialogo, d'incontro, nel quale non si vuole assolutamente dimenticare quello che è successo, ma si guardare in avanti.
Nel libro, oltre alla prefazione del Dalai Lama, un celebre profugo dei nostri giorni (il Tibet è invaso dalla Repubblica Popolare Cinese e il Dalai Lama e il suo popolo sono in esilio ormai da vari decenni), c'è la prefazione di Elio Toaff, l'ex rabbino capo, e c'è anche un intervento della portavoce della Associazione per la Tutela dei Rifugiati.
Il tema dell'essere profugo, dell'essere esiliato è uno dei vari fili conduttori di questo libro.
La presentazione ufficiale del libro è stata fatta in Campidoglio alla presenza di Veltroni, con una serie di personaggi di spicco.
Noi stasera non vorremmo fare la presentazione, cioè raccontarvi in dettaglio il libro, anche se ci sono alcuni temi che ci sembrano importanti. Uno per esempio ripreso dalla pagina del libro dove si dice: "Pregare per la pace, ma c'è anche il sognare per la pace". David si occupa da parecchi anni di sogni. Questa cosa tra l'altro nasce nella città vecchia di Gerusalemme, dove David è invitato a fare delle conferenze, a iniziare un lavoro, proprio dove aveva passato una parte della sua vita. Sono presenti dunque vari i filoni. C'è poi una rete straordinaria che continua ad ampliarsi. Il centro propulsore è rappresentato proprio da David, quindi senza di lui mi sembra veramente di appiattire tutto.
Ma ecco che arriva David….

arrivo della zia di Gerbi


David Gerbi
Comincio dalla fine, dal motivo per cui sono in ritardo. Un periodo di 2175 anni si conclude proprio oggi, perché mia zia, l'ultima ebrea che viveva in Libia, è arrivata finalmente qua e si è ricongiunta con tutti i familiari. È stata accompagnata con cura e dedizione da due funzionari libici. È venuta la televisione e i giornali, l'hanno accolta la mia famiglia e i miei parenti.
Quando ho visto questa scena ho sentito subito una grande speranza, perché non si è trattato soltanto dell'ospitalità che le hanno dato in questi 36 anni in cui è stata da sola, ma anche la cura con cui l'hanno accompagnata e ho visto che questa speranza si è espansa nel cuore di mia madre, di mia zia, dei miei cugini. Poi c'erano i libici che guardavano i miei parenti, si complimentavano, si salutavano… Alla fine tutta questa grande distanza là concretamente non c'era. Ecco il il biglietto Tripoli-Roma di mia zia: con questo biglietto si chiudono più di 2000 anni di storia.
I problemi relativi a mia zia erano legati a una documentazione ignota, fu trovata per strada priva di sensi, trascurata, e venne portata in un ospedale. Da lì l'hanno portata poi in una casa di riposo della famiglia Gheddafi dove è rimasta dalla fine degli anni '80. Lei aveva perso conoscenza, era entrata in uno stato di letargia psichica. Prima c'erano con lei due sorelle e due fratelli, ma sono morti e c'era a Roma uno zio che si prendeva cura dei contatti. Questo zio però è morto e una volta morto lui si sono persi tutti i contatti.
Abbiamo scoperto casualmente che mia zia esisteva ancora perché mia madre l'anno scorso doveva rinnovare la carta d'identità italiana. Serviva il certificato di nascita, che si trovava all'anagrafe di Tripoli, che con il pogrom del 67 era stato incendiato; quindi non si poteva avere questo certificato di nascita e mia madre non poteva avere la carta d'identità italiana rinnovata e quindi il passaporto.
Mio zio, che è uno abbastanza sveglio in queste cose, si è dato da fare e alla fine ha scoperto che esiste una nuova legge secondo la quale si può fare la richiesta di un certificato sostitutivo al consolato italiano di Tripoli. Mio zio ha fatto questa richiesta. Vedendo il cognome, il responsabile dell'Archivio ha detto a mio zio: "Questo cognome Debach non mi è nuovo, qui abbiamo una Debach che sta in un ospizio da parecchi anni, però non so se è una vostra parente". Mio zio gli ha chiesto: "Ma come si chiama?". "Si chiama Rina". "Come, è ancora viva?". "Sì, sta in un ospizio lontano, fuori Tripoli". Così abbiamo scoperto la sua esistenza. In seguiro a questo ho scritto una lettera al colonnello Gheddafi e ho chiesto di rientrare a Tripoli per motivi umanitari. Essendo psicologo, avendo lavorato con gli anziani ed essendo il nipote, ho sperato che ci fosse qualche possibilità di rientrare, cosa vietata dalla legge libica agli ebrei. Mi hanno dato un visto speciale. Sono andato là, ho visitato mia zia e ho fatto richiesta di farla ricongiungere ai familiari. Mi hanno detto che sarebbe stato possibile, che era necessaria una documentazione da richiedere al Ministero degli Esteri. Io l'ho lasciata il 12 settembre dell'anno scorso e oggi, grazie a Dio, lei è arrivata a Roma. C'è voluto un anno e un mese. Questo documento ha fatto sì che potesse rientrare. Così alla fine mia zia, che prima era di documentazione ignota, si ritrova con un passaporto libico e uno italiano. Da niente a tutto!
La cosa che più mi ha colpito in questo incontro, sia a Tripoli che adesso qui all'aeroporto, è che prima di partire per Tripoli mi sono detto: "Voglio portare con me un ciondolino". È un simbolo ebraico, un ciondolino che viene sempre dato alla nascita dei bambini o delle bambine, su cui è scritto: 'Shaddai', che è uno dei tanti nomi di Dio (significa 'custode', sottinteso 'delle porte di Israele'), e c'è anche la stella ebraica. Però al tempo in cui vivevo a Tripoli era pericoloso avere dei simboli ebraici o dei nomi con delle lettere in ebraico. L'ho portato sapendo che rischiavo. Non ho detto niente a nessuno dei parenti, perché l'avrebbero presa per una provocazione. L'ho messo in tasca e ho pensato: "Chissà che succederà".
A Tripoli - da cui eravamo andati via da profughi, con valigie di cartone legate con lo spago, senza una lira - mi hanno accolto con una macchina da corpo diplomatico, suite in albergo… Ho accettato tutto questo qualsiasi fosse la loro ragione: per farsi perdonare, oppure affinché raccontassi la storia e li aiutassi a cambiare l'immagine, a riabilitarli, oppure perché volevano riaprire un varco, perché potevo essere un utile idiota pacifista che poteva essere sfruttato… Qualsiasi ipotesi, ho detto, mi stava bene, perché mi stavano proponendo qualcosa che andava nella direzione che io cerco, quella della pace.
Era il capodanno ebraico. Vado alla casa di riposo e porto con me dolci, profumi, saponette, cioccolato. Mi presentano mia zia, lei sta così….
La saluto e le dico: "Ciao zia, io sono David, il figlio di Dina". Niente, non mi riconosce. Lo psicologo mi dice che si trova in questo stato di letargia psichica da parecchio tempo: non comunica, a volte ha degli scatti di aggressività. Ho parlato, parlato, parlato ma non succedeva niente. È il mio mestiere, quindi ho capito che non c'era possibilità di collegamento.
A un certo punto sono usciti tutti: l'assistente sociale, la guardia del corpo, l'autista, il direttore della clinica, lo psicologo. È rimasta solo l'infermiera. Allora ho preso questo ciondolino e glielo ho messo al collo. E lei in quel momento alza la testa e mi dice in arabo: "Che cosa mi hai messo al collo?". Le ho detto: "Ti ho messo un ciondolino. Questo è il nome di Dio. Questa sera è il capodanno ebraico": Lei mi guarda e mi fa: "La potenza di Dio! A chi sei figlio?". E mi ha guardato negli occhi. "Ad Aldina Vetrina" - mia madre la chiamano così perché mio padre aveva un negozio di gioielleria e mia madre si metteva addosso tanti gioielli; insomma ogni soprannome ha una storia.
"Ah, io conosco tua madre. È quella che ha il naso schiacciato!". E piano piano si è riattivato il dialogo e mi ha chiesto notizie dei parenti. Si è svegliata. Lo psicologo è rimasto scioccato: "Ma che è successo? Non l'abbiamo mai sentita parlare o ridere, non le abbiamo visto mai questi occhi così vivaci". E là abbiamo capito che era un problema proprio di natura psicologica, perché era tanto tempo che non aveva un contatto affettivo. Era rimasta isolata e non aveva un dialogo con nessuno con cui si potesse riconoscere.
La cosa che mi ha più impressionato è che poi la guardia del corpo, quando ci siamo salutati, mi ha chiesto: "Scusa, che cos'è che le hai messo al collo?". Non me l'ha detto subito, me l'ha detto uno-due giorni dopo. L'ho guardato proprio bene negli occhi, perché è gente sveglissima, non puoi tentare di essere disonesto, perché sono onesti e disponibili, però bisogna stare attenti a non fare i furbi nel dire mezza verità, bisogna dirla tutta. Gli ho detto: "Guardi, le ho messo al collo il nome di Dio in ebraico". M'ha guardato e ha detto: "Ah, va bene". E la situazione si è acquietata. Poi siamo andati avanti e il rapporto è migliorato.
La cosa che mi ha colpito è che adesso all'aeroporto i due accompagnatori che sono arrivati non soltanto mi hanno fatto riabbracciare mia zia e ricollegarmi con lei, ma in più mi hanno restituito il ciondolo. Questa è una cosa che ha fatto commuovere tutti: mia madre, mia zia… È stato un momento in cui hanno detto parole di pace. Mi vengono di nuovo i brividi, perché è un gesto che m'ha riempito nuovamente di speranza. Passo periodi di pessimismo, in cui mi sento scoraggiato, riluttante, frustrato, deluso… poi ci sono delle piccole cose che improvvisamente mi ridanno speranza. Quando un tentativo di riconciliazione avviene a livello di scambio autentico e produce dei risultati. Devo anche ammettere che all'interno di questo scambio umano ci deve essere comunque lo scambio di tipo diplomatico. Io non sono né un politico né un diplomatico, però usando la parte umana, psicologica nel rapporto con questi pezzi da novanta succede qualche cosa. È venuto anche il console generale d'Italia a Tripoli ad accogliere mia zia all'aeroporto con la moglie, che ha portato dei fiori ed era emozionata. I rappresentanti all'ambasciata libica erano emozionati per questo ricongiungimento, perché non vedevano insieme ebrei e libici da 36 anni, era la prima volta che all'aeroporto si incontravano. L'ambasciata libica, i due rappresentanti libici, i miei parenti si sono incontrati proprio là all'aeroporto. Quindi in quel momento è come se il tempo si fosse fermato. Il rappresentante mi ha detto: "Siamo tutti libici, ci conosciamo". Ho sentito una ricerca di affinità, più che di diversità.
Questo è il motivo del mio ritardo. La data che abbiamo cercato con Roberto - io ero al nord, parlavo al cellulare - non si trovava. Lui diceva: "Siamo abituati a farlo sempre il venerdì sera, però naturalmente si deve fare un martedì. E ha scelto proprio questa data. Spesso con Roberto succedono cose un po' magiche!
Il console mi ha detto: "Si è chiusa una fase importantissima. Adesso bisogna fare in modo che lei torni a Tripoli con tutta la famiglia". Cioè, anziché considerare chiuso il capitolo, ha detto che adesso si può riaprire in un altro modo. C'è disponibilità da parte loro ad un contatto. È come se ci fosse proprio un bisogno di dialogo autentico.


Domanda

Chi comandava a quei tempi in Libia e come mai vi siete salvati?
David Gerbi
All'epoca c'era il Re Idris, ma non è stato lui la causa del pogrom, sono stati i filonasseriani che nel '67, attraverso la loro radio, hanno incitato i libici ad ucciderci. C'era la guerra dei sei giorni e dicevano che Israele era stata distrutta. Allora sono scesi tutti per le strade e ci volevano distruggere. In realtà Re Idris, in piedi sulla macchina, diceva agli arabi: "Fratelli, non sporcate la nostra reputazione". Questo era il Re Idris, che aveva sempre trattato bene gli ebrei e le minoranze. Infatti con lui si stava bene. Ogni tanto avvenivano dei pogrom, ma non per sua responsabilità, ma da parte dei filonasseriani. Là arabi, ebrei, cristiani hanno convissuto per parecchi anni in pace.


Roberto Mander
Prima, mentre ti stavamo aspettando, riprendevo una considerazione dal tuo libro: quando racconti del progetto originario di scrivere la tua vicenda con il titolo provvisorio 'La ferita del rifugiato', che poi diventato 'Costruttori di pace'. Mi sembra che quest'ultimo episodio di poche ore fa dimostri come ogni volta succedono avvenimenti, incontri, circostanze per cui vieni sempre proiettato in avanti piuttosto che richiuderti nel passato. Questo mi sembra in qualche modo la parte più affascinante del libro, perché è una continua evoluzione, su linee e aspetti diversi. Nel libro si parla di nuvole, si parla di sogni, insomma c'è sempre un qualcosa o più cose o persone che portano messaggi su come andare avanti o perché andare avanti.
David Gerbi
Sì, non so se chiamarlo col termine junghiano di 'sincronicità' o ammettere più sfacciatamente che sento la presenza di Dio, anche se è difficile dirlo. Sento che Dio mi fa incontrare le persone giuste al momento giusto al posto giusto, sia per darmi una bastonata, nel senso di dirmi: "No, quella strada non funziona" (quando io magari insisto insisto, perché devo ottenere quella cosa in quel modo), sia invece per trovare delle strade che mi facilitano la possibilità di raggiungere un risultato. Roberto sa quanto ottusamente volevo a tutti i costi andare io a Tripoli a prendere mia zia. Ci ho messo tantissimo ad arrendermi al fatto che questa non era la loro volontà, volevano portarla loro. Quindi, finché io ho insistito la situazione è rimasta impaludata; nel momento in cui ho accettato che forse non doveva andare come volevo io, ma doveva andare in un altro modo, le cose si sono sbloccate. Alcune volte è difficile capire quando è il momento della volontà e quando è il momento dell'abbandono. C'è una tecnica di danza-terapia in cui si parla di 'willing' e di 'surrender'. In alcuni momenti è difficile distinguere. "Adesso faccio questo…". "No, adesso accetta". Se ci azzecco succede quello che dici tu, se non ci azzecco si rimanda, ci metto più tempo.
Comunque se sono completamente nella mia integrità capitano gli aiuti giusti, perché non è che sia io a far questo. Devo stare attento a quello che diceva la buonanima del mio professore Gianfranco Tedeschi, che è stato un mio maestro importantissimo: "David, sta' attento all'egolatria (espressione che ha creato lui), a non lasciarti sedurre da questo aspetto che magari ti inflaziona e ti porta in un'altra direzione". Mantenere il contatto con l'integrità mi ha permesso di trovare spesso gli aiuti necessari.
Un altro aspetto è che quando ero giovane volevo tutta la gloria per me, quindi tendevo ad escludere il più possibile le persone, così poi ero io al centro. Invece adesso sono cambiato, cerco di includere sempre di più. Ma non lo faccio per un tornaconto, so che in realtà siamo tutti collegati e tutti in qualche modo possono contribuire a questo processo, in una maniera invisibile, ma che sento molto presente.

Roberto Mander
Spesso davanti a vicende biografiche così forti si ha la sensazione che soltanto in situazioni così estreme sia possibile fare questi passaggi molto belli di amore, di apertura, di solidarietà, di crescita. Noi spesso pensiamo che se non succedono nella nostra vita cose così, non possiamo far nulla. Invece la cosa che mi ha colpito molto è il candore - tu lo chiami integrità - che attraversa le pagine del tuo libro: c'è la possibilità nella vita di ciascuno di noi di restituire quello che riceviamo, di aprirsi verso l'altro, aldilà del dolore sofferto. Ecco, non c'è solo la grande tragedia del profugo, la grande tragedia del sopravvissuto, ma ci sono le diecimila tragedie quotidiane di cui possiamo farci una ragione. Tu nel libro racconti di una trasmissione televisiva, Sorgenti di Vita, in cui molti esponenti ebraici della comunità libica dicevano: "Noi a Tripoli mai più, abbiamo chiuso". Tu invece, davanti allo stesso fenomeno hai avuto una reazione diversa, che ha portato oggi a quest' ultimo capitolo della storia.
David Gerbi
Nell'ebraismo si dice che quando si riconosce il merito della persona che ha insegnato qualche cosa, questo fa avvicinare il Messia. Penso alla mia analista personale, la dottoressa Termoli, con cui ho lavorato parecchi anni sul tema della vittima e del persecutore. Io continuamente mi identificavo nel ruolo di vittima, sia a livello individuale per quello che mi era successo, sia a livello collettivo per la mia comunità, sia a livello ebraico, per tutte le persecuzioni che ci sono state; si fa presto a dire che è un popolo perseguitato. Ad un certo punto ho visto che più andavo in quella direzione più vedevo che la gente, ogni volta che raccontavo la mia storia, si sentiva sì inizialmente addolorata, solidale, ma poi appesantita, scocciata, e diceva: "Va bene, ti è successo questo. Che altro si può fare?". Io continuavo a ripetere che era successo questo e quello. Un bel giorno ho detto basta e ho capito finalmente il meccanismo dentro di me, ho capito il persecutore dove stava: era quella parte di me che mi costringeva a ripetere sempre quel nastro. Era quello il persecutore. Allora ho detto: finora ho dato potere a questa parte, adesso non le voglio dare più potere. Come? Mi sono chiesto cosa sarebbe successo se, anziché focalizzare sempre le vecchie difficoltà, mi aprivo a nuove possibilità. Ho cambiato prospettiva, perché ero ormai ipnotizzato dal ruolo di vittima. Mi sono messo in un'altra zona e s'è aperto tutto un mondo, ho ricevuto tanti aiuti.
Ho detto: che cosa posso fare con questa ferita del profugo? La posso rivivere in qualche modo costruttivo? Ho tentato di impegnarmi per rientrare a Tripoli - è stato anche molto grazie alla preghiera - e alla fine ho scoperto casualmente l'esistenza di questa zia.

Intervento
Ho letto il libro e mi è sembrato molto delicato, delicato nelle memorie, per questo senso di attaccamento verso le piccole cose che costituiscono il nostro passato. Però anche commovente, quando per esempio tu parli delle polpette di sabbia, del sorriso di tua madre, oppure di tuo nonno che ti dava delle piccole somme di denaro, e quando una volta se n'è dimenticato, tu hai supplito a questa dimenticanza prendendole da solo. È veramente una ricchezza, come lo è anche il titolo che hai dato, questo 'Costruttori di pace': ecco, sarebbe un patrimonio per tutta l'umanità, se veramente tutti accettassimo di costruire la pace. Speriamo che prima o dopo anche questo senso di amore verso il prossimo si allarghi verso tutti.

Sidney (cugino di David)
Io ho letto il libro e mi ci sono riconosciuto, in particolare nella prima parte, che può essere letta da diverse angolazioni. Lì ci sono sensazioni ed emozioni. Normalmente la pace la si trasforma in qualcosa di etereo, di astratto, in un'idea. Ma qui c'è la descrizione della materialità quotidiana, fatta di piccole cose, di rapporti tra le persone, a prescindere dalle idee che professavano. A Tripoli c'erano tre grandi filoni: l'Islam, la religione ebraica e il cristianesimo; la differenza però non ledeva (almeno umanamente) la comunanza più profonda, di specie come esseri umani. E questa è resa nel libro dai sapori, dai colori, dai rapporti quotidiani. La cultura ebraica si veste delle culture del luogo: un ebreo polacco mangia le cose polacche e fa musica polacca, anche se ci mette un pochino di ebraico, a un matrimonio tripolino, si veste della cultura nordafricana araba: con l'hennè e tutta una serie di cose che sembrano strane, al confine tra ebreo e musulmano. Per esempio si fanno delle grida terribili, molto stridule, che assomigliano a quelle che fanno in Marocco e in Nord Africa. Allora uno dice: ma possibile che facciano queste grida e siano ebrei? Culture e tradizioni si mischiano. La prima parte del libro descrive la pace, intesa come possibile comunanza di etnie, culture, storie diverse che hanno alla base stili di vita che si mischiano e convivono. A casa mia, dopo 35 anni in Italia, non si parla italiano, ma quell'arabo urlato, che è il suono di quella lingua. Io ce l'ho nell'orecchio tutti i giorni, tra mia madre, mia nonna e mia zia.

Domanda
Una curiosità: come ti è venuto in mente di portare con te quel ciondolino che mi è sembrato molto significativo in tutta la vicenda?
David Gerbi
C'è una parte di me che mi spiazza sempre, non so come chiamarla, improvvisamente viene: "E se prendessi questo?". Io invece vorrei andare dritto: "Non si può". Invece questa parte insiste, una parte se vuoi trasgressiva, una parte che osa, che rischia, che cammina proprio sul precipizio. Perché sapevo che quello era un simbolo che poteva provocare il caos, però era anche un simbolo che mi fa sentire vicino a Dio, perché è il simbolo che viene appuntato vicino al cuore con una spilla da balia appena nasce un bambino o una bambina. C'è gente che poi lo porta al collo. E mi sono detto: "Quale miglior regalo posso farle?". Era mio quel ciondolo, ho pensato: "Io glielo regalo". Quando mia madre l'ha saputo mi ha chiesto. "Ma era quello che ti ho regalato io?". Le ho detto: "No, è un altro". Me l'ha richiesto oggi nel taxi. La cosa interessante è che alla fine è tornato a me.
La tua è una domanda molto profonda. Forse sarà capitato a tutti: ci sono momenti in cui viene un'intuizione che non dovrebbe venire; dipende se uno l'ascolta o meno. Sapevo che avrei avuto tutti contro. Come erano tutti contrari quando sono andato a Tripoli. La fantasia era: adesso vai là, ti tagliano la gola, ti ammazzano, come hanno fatto agli altri durante il pogrom e non torni più. Ho dovuto fare tutto un lavoro di diplomazia all'interno della mia famiglia, dei miei parenti, anche della gente della mia comunità, per dire: "No guarda, io vado attraverso il consolato, attraverso l'ambasciata, ci sono delle lettere, ho scritto una lettera al Colonnello, tutto è regolare. Vado come psicologo a visitare la zia. Il medico me l'ha permesso".
Inviterei tutti voi a prendere al volo questi momenti quando vengono. Possono venire nei sogni, o in un attimo di distrazione. Come fosse un folletto. È la parte imprevedibile, invisibile, non sai quando viene, quando se ne va. Comunque se la si prende al volo vi garantisco che fa cambiare tante cose.

Domanda
Mi chiedo il motivo di questo totale rifiuto di tua zia a comunicare, visto che lì il personale era gentile, e non l'hanno maltrattata. Perché era l'unica ebrea e non si fidava dei non ebrei? Questo mi impressiona. Lì tutti gli arabi erano nemici?
David Gerbi
No, non nemici. Non so se si trattasse soltanto di diffidenza verso gli arabi o anche di un problema proprio psicologico, dato che non aveva più comunicato con la mia famiglia per tanto tempo.
Forse per rispondere potrei raccontare una scena triste a cui ho assistito. Quando l'ho vista, prima del fatto dello Shaddai, lei a un certo punto ha cominciato a parlare da sola, faceva così: chiudeva gli occhi e faceva dei gesti, poi apriva gli occhi e diceva: "Basta, io non voglio mangiare, lasciami in pace". Poi richiudeva gli occhi, faceva un dialogo interno e poi rispondeva all'esterno. Ogni volta parlava o con la madre, o con la sorella o con la zia. È come se si fosse creata dentro una sorta di palcoscenico dove metteva in scena dei personaggi. Non avendo più la famiglia, s'era creata un entourage familiare interno con cui dialogava.
In più c'era il fatto che naturalmente era consapevole di quello che era successo in passato. Quindi la diffidenza di cui parli probabilmente c'era, impastata comunque con la consapevolezza di essere l'unica ebrea in tutta la casa di riposo. I due fratelli e le due sorelle erano morti… Poi dopo che si è risvegliata con lo Shaddai ha potuto avere un contatto con me.
Ci sono delle fotografie bellissime di lei con il medico e poi col medico insieme alla guardia del corpo. Due bei colossi, lei è una vecchietta di 80 anni. A un certo punto ha cominciato a ridere sotto i baffi. Le ho detto in arabo: "Perché stai ridendo?". E lei: "No, niente, niente". Io insisto e a un certo punto cede e dice: "Ma come? Da niente adesso ne ho due!". Non s'è sposata e non ha avuto uomini, quindi c'era anche il discorso di avere un compagno. Aveva l'espressione di una che non ha paura di niente.

Roberto Mander
Questo è il primo incontro del Cipax, che quest'anno è dedicato a raccontare e ascoltare le storie. Volevamo chiudere con un momento di condivisione, per scoprire come la storia di David risuona in ciascuno di noi. Però, prima di questo, c'è un ultimo tema, che anche a me sta a cuore: non solo pregare per la pace, ma anche sognare per la pace. Il tema del sogno.
David Gerbi
Sì, anche questo per me è stato molto importante, specialmente il sogno che ho fatto legato a Gheddafi. Ci sono dei sogni che si manifestano attraverso dei simboli reali. C'è un sogno interpretato a livello dell'oggetto e del soggetto, che è legato veramente alla persona oppure semplicemente è simbolico di qualcos'altro. Ci sono stati spesso dei sogni che mi hanno guidato in vari posti, che mi hanno fatto incontrare parecchie persone. Il lavoro che faccio sui sogni, sia su me stesso sia durante il lavoro analitico, ma anche con un gruppo con cui lavoro da parecchi anni, mi aiuta spesso a trovare la strada. Per me il sogno ha quasi superato il rapporto con la preghiera. Ho smesso anche di utilizzare il libro di preghiere che ho ricevuto come tradizione ebraica e mi dedico in maniera veramente religiosa e spirituale a esaminare i sogni, specialmente quelli del mattino presto, non quelli diurni o i pensieri rimuginati prima di andare a dormire.
Per me c'è un cammino di tipo spirituale attraverso il sogno. Il lavoro sul sogno mi ha poi guidato e continua a guidarmi nel prendere delle decisioni. Un po' il sogno mi autorizza ad azzardare, mi dice delle cose e dato che, come mi ha insegnato il mio maestro, il rabbino Toaff, quando senti l'emozione del sogno vuol dire che il sogno è vero, allora non ho paura, non rinuncio, vado avanti.

La notte del 20 novembre, Rina Debach è morta a Roma.
Ci piace pensare che dopo tanti anni di sofferenze e solitudine, abbia aspettato di rivedere i suoi cari prima di lasciare questo mondo. Aveva ancora con sé lo shaddai del nipote David.