Costruttori
di pace
Cantiere CIPAX 2003/2004
Incontro con David Gerbi
7 ottobre 2003
Giorgio Piacentini
È sempre un'emozione incominciare un nuovo ciclo di incontri, soprattutto
questa sera con un pubblico bello, composito, internazionale, che ci dà
molte sollecitazioni positive.
Dico solo brevemente l'idea: quest'anno non abbiamo scelto un programma con
una tesi da dimostrare, una ricerca da fare, un percorso già individuato,
come è stato l'anno scorso e com'è stato, tutto sommato, in tutti
i precedenti incontri annuali del Cipax, che si ripetono ormai da 15 anni e
forse più. Quest'anno non c'è un tema, ma c'è un'idea:
che questa casa diventi un luogo di pace dove ascoltare racconti, scambiare
esperienze e costruire il futuro. Non ci saranno persone che vengono a presentare
problemi o teorie, ci saranno persone che vengono a raccontare esperienze significative,
per loro e forse per tutti. Il nostro ascolto sarà particolarmente attento
per cogliere, attraverso l'esperienza quotidiana di amici e amiche, il senso
profondo delle loro storie.
Questa sera Roberto Mander intervisterà David Gerbi. Alla fine vorremmo
tentare un piccolo esperimento, suggerito da un'esperienza di lavoro e di ascolto
estremamente dolce e profondo che alcuni di noi da un po' di tempo stanno vivendo.
Abbiamo messo appositamente due file di posti. Chi vuole partecipare in modo
diretto può occupare i posti più interni, chi vuole semplicemente
osservare può situarsi nel cerchio esterno, che assiste, ma dà
anche forza a questo lavoro. Con estrema libertà.
Ora darei la parola a Roberto che conosce bene David, e ce lo può presentare,
mentre aspettiamo il suo arrivo.
Roberto Mander
Certo è un po' imbarazzante iniziare senza David, ma possiamo dire che
stasera si è aggiunto un altro capitolo straordinario alla vicenda che
David racconta nel suo libro 'Costruttori di Pace', uscito pochi mesi fa presso
l'editore 'Appunti di Viaggio'. Adesso non vorrei farvi un riassunto biografico,
perché sarebbe freddo e perderebbe quei significati che invece - credo
- nella vicenda di David tutti noi possiamo ritrovare. Dirò solo qualcosa
per farvi capire l'importanza di quello che è successo oggi.
David insieme alla sua famiglia viene cacciato, è vittima di un pogrom
che si sviluppa in Libia nel '67. L'Egitto, in seguito alla Guerra dei Sei Giorni,
fomenta le popolazioni arabe del Nord Africa, in particolare della Libia, contro
gli ebrei residenti. Ci sono degli eccidi, c'è molta violenza, si vive
chiusi in casa perché si ha paura di uscire per strada. Alla fine chi
non è stato ucciso viene imbarcato su delle navi e molti decidono di
venire in Italia. Questa è la sorte della famiglia di David e di molte
altre, per cui a Roma c'è una comunità abbastanza numerosa di
ebrei di Libia. Altri decideranno di andare in Israele, altri in altri paesi
ancora.
David nel '67 ha 12 anni. Arriva in Italia dove viene accolto, sostenuto, ma
gli rimane la ferita aperta per aver perso questa radice così profonda.
Racconta che nella sua famiglia si continua a cucinare quel tipo di cucina,
si sente quella musica, si parla quella lingua; e anche il rito religioso avviene
secondo le modalità che sono sopravvissute in Libia. Tra l'altro è
interessante notare che la comunità ebraica di Libia è antichissima:
ufficialmente risale alla cacciata degli ebrei dalla cattolica Spagna nel 1492,
ma ci sono tracce (come qui a Roma) di insediamenti ebraici ben più antichi.
Quindi uno strappo violento: una convivenza durata secoli viene troncata in
modo brutale nel '67. Ovviamente gli ebrei perdono tutti i loro averi. Quella
di David era una famiglia benestante, il padre aveva un negozio di gioielleria:
tutto viene confiscato e quindi si trovano a ricominciare da capo qui in Italia.
Questa ferita rimane. In David c'è nostalgia per la Libia, c'è
il ricordo della malinconia del padre, che non si riprenderà mai: riescono
a rimettersi in piedi, questa famiglia va avanti, ma rimane una cicatrice molto
profonda.
David comincia a pensare alla sua vicenda e a scrivere il libro. Ed è
interessante che il primo titolo che gli viene in mente sia: "La Ferita
del Rifugiato", proprio perché è importante riconoscere la
profondità dei traumi subiti in fasi precedenti della vita: prigionia,
pogrom, esilio ecc. Però poi, man mano che il progetto dentro di lui
prende corpo - anche con l'aiuto dei sogni, che hanno un ruolo molto importante
in questa vicenda - alla fine il libro si chiamerà: "I costruttori
di pace".
Come dire: rimanere ancorati alla ferita del rifugiato, in qualche modo significa
rimanere ancorati al passato. Invece il costruttore di pace è colui che
guarda avanti, che fa i conti fino in fondo con quello che è successo;
non getta dietro le spalle, ma riattraversa, rivive nei minimi dettagli quello
che gli è capitato, per poter diventare quello che, in alcune tradizioni,
viene definito il 'guaritore ferito'. Proprio chi ha subito certe ferite è
la persona più adatta per aiutare gli altri o comunque per promuovere
processi di amicizia e di pace.
Quindi un anno e mezzo fa circa David matura il bisogno di tornare in Libia
e di fare i conti con la sua parte libica, con la sua parte araba. Siamo negli
anni durissimi della seconda intifada, quindi degli scontri quotidiani tra palestinesi
e israeliani.
L'11 settembre. C'è un episodio chiave di David: l'11 settembre David
sta uscendo da una visita dal gastroenterologo perché sta male, ha delle
somatizzazioni. Si ferma in un bar vicino Piazza Cipro, qui a Roma, e la televisione
trasmette le scene dell'11 settembre. Questa cosa lo colpisce, perché
gli tornano in mente i rumori della folla che dava la caccia all'ebreo, le grida
che ha sentito da bambino: "Uccidete l'ebreo! Uccidete l'ebreo!".
Rivive sulla scena che la televisione trasmette da New York il suo ricordo,
l'imprinting profondo della violenza subita. Ebbene, questo diventa un ulteriore
elemento per cercare in qualche modo un percorso di pacificazione. Alla domanda
che anch'io gli ho fatto: "Ma a che cosa serve questo tuo progetto?",
David risponde: "In primo luogo serve per guarire, perché io voglio
guarire".
E a questo punto succede un'altra di quelle strane coincidenze, come quella
di oggi: in una festa di matrimonio di un parente, David in maniera abbastanza
casuale viene a sapere che una sua lontana parente, Rina Debach, una prozia,
è ancora viva in Libia. È una donna molto anziana che tutta la
famiglia che è riuscita a fuggire qui in Italia, così come l'altro
ramo che si è rifugiato in Israele, pensavano morta. Invece questa donna
è viva.
A questo punto ecco che il desiderio, il sogno di David di tornare in Libia,
prende un aspetto estremamente concreto: riportare la zia in Italia, questa
zia che è chiusa in un istituto per anziani, che non parla più,
che sembra venga assistita in maniera più che buona dalle competenti
autorità sanitarie libiche, ma che è lì sola. Inizia un
lavoro certosino di David. Siamo nell'estate scorsa, il periodo in cui ci incontriamo.
Una sera d'agosto gli dico: "Mi sembri una trivella"; non dava pace
ai funzionari dell'ambasciata italiana a Tripoli e dell'ambasciata libica in
Italia. Alla fine, a settembre dell'anno scorso, David riesce ad avere il biglietto
aereo per andare a Tripoli. Tranne pochissimi casi per motivi esclusivamente
commerciali, è il primo ebreo a tornare in Libia dal 1967.
Torna in Libia, visita la zia - è una pagina molto commovente del libro
- visita i luoghi della sua infanzia, torna nel negozio del papà e nella
casa dove è nato e ha vissuto per 12 anni. E lì matura la decisione
di non chiedere la restituzione di quello che gli è stato tolto. Pensa
che sia un vero gesto di pace e che possa essere un invito a tutti i profughi
di qualsiasi parte: rinunciare a chiedere quello che gli spetterebbe per diritto.
Adesso io non voglio entrare ulteriormente nei dettagli, ma oggi 7 ottobre -
ed è anche questa una coincidenza, visto che questa nostra data è
stata decisa per rispettare lo shabat, mentre di solito gli incontri del Cipax
sono il venerdì sera - alle 16, Rina Debach, la prozia, ultima ebrea
vivente in Libia, è sbarcata all'aeroporto di Fiumicino. Poche ore fa.
C'era la stampa, la televisione e i parenti che l'hanno accompagnata e la ospiteranno
nella loro casa. David un'oretta fa era in albergo dove alloggiano il personale
sanitario e i due funzionari libici che hanno accompagnato l'anziana donna.
Oggi pomeriggio, riflettendo su questo incontro, pensavo a una storia a noi
di One by One molto cara, che molti di voi conosceranno: quella del raccoglitore
di stelle marine. C'è un uomo che guarda un altro uomo che sulla spiaggia
si alza, si china e si rialza. Gli chiede: "Scusi, ma lei che cosa fa?".
Quello risponde: "Vede, ogni volta che c'è la bassa marea anche
le stelle marine rimangono all'asciutto: io le prendo e le riporto in mare,
in modo che non muoiano". E l'altro: "Ma lei è pazzo, non riuscirà
a mai a salvarle tutte". "Sì, lei ha ragione, però vede,
per questa stella marina una differenza c'è".
Abbiamo organizzato questo incontro proprio per parlare di questa esperienza
di costruttore di pace, essa ha alimentato e fatto crescere una rete di persone
diverse, di incontri casuali (ma qui il caso sembra che c'entri sempre meno),
che ha prodotto dei risultati molto concreti: il ritorno della zia Rina è
qualcosa di estremamente concreto che riempie a noi tutti il cuore di gioia.
Intorno a questa vicenda di David sono cresciute diecimila altre cose. Ovviamente
non è stata fatta la pace con la Libia. È vero che è un
momento particolare. Gheddafi già da alcuni anni si era defilato rispetto
alla sua posizione del passato nel Fronte della Fermezza, insieme all'Iraq,
insieme alla Siria, c'è stato l'incontro di due anni fa con Mandela.
Ricordo che nell'agosto dell'anno scorso con David abbiamo visto la partita
Parma-Juventus, con Cuccureddu, il famoso giocatore titolare di una maglia juventina,
che attualmente è l'allenatore della nazionale libica; credo fosse una
partita della Coppa Italia, giocata a Tripoli. Chiaramente una questione tutta
politica: forse i più anziani di noi ricordano le partite di ping-pong
in Cina ai tempi dell'incontro tra Nixon e Mao Tse Tung. Quindi c'è chiaramente
un clima diverso, in cui il colonnello Gheddafi tenta una politica estera diversa
da quella del passato; quindi la vicenda della prozia di David in qualche modo
rientra in questo quadro più generale.
Che cosa significa? Io credo che questo sia stato il lavoro fondamentale: lavorare
per aprire delle porte, cioé creare dei legami reali, intrecciare dei
fili, un ordito tra persone diverse. Per esempio funzionari anche di alto livello
del governo libico, che hanno ricevuto David quando era a Tripoli, che non solo
l'hanno ospitato in un albergo a loro spese, ma gli hanno permesso di girare
liberamente la città - chiaramente aveva un accompagnatore. David aveva
avuto un sogno - anche qui un'altra cosa interessante - e quando parla col rabbino
capo Elio Toaff del suo desiderio di tornare in Libia e della sua aspirazione
di restaurare il cimitero ebraico di Tripoli, Toaff gli dice che anche lui aveva
avuto in passato lo stesso sogno e si era occupato di restaurare un cimitero
in una città d'Italia di cui ora non ricordo il nome.
Quindi David va a Tripoli. Non c'è più il cimitero, su di esso
è stata costruita una larga strada. Così David in Libia si fa
portatore anche di questa esigenza, perché gli ebrei libici possano tornare
a onorare la memoria dei loro cari che sono stati sepolti lì per secoli
e secoli. Anche le importanti sinagoghe sono state chiuse e non sono più
agibili. È chiaro che questi risultati non si possono ottenere da un
giorno all'altro. David non si aspettava certo questo, quando nel settembre
scorso è andato giù, ma è riuscito ad avere sul posto tutta
una serie di relazione e di incontri: quelli diretti, faccia a faccia, con gli
attuali abitanti della casa dove lui era nato; quelli con coloro che hanno installato
una loro attività commerciale nel negozio che un tempo era del padre;
quelli con i funzionari
Insomma, in un modo veramente incredibile, tutta
una serie di persone in qualche modo sono entrate in questa storia. Ogni volta
che incontravo David era una sfilza di nomi di persone: chi poteva far quello,
chi poteva fare quell'altro
Insomma s'è creato proprio un circolo
virtuoso di sinergie in questo processo di dialogo, d'incontro, nel quale non
si vuole assolutamente dimenticare quello che è successo, ma si guardare
in avanti.
Nel libro, oltre alla prefazione del Dalai Lama, un celebre profugo dei nostri
giorni (il Tibet è invaso dalla Repubblica Popolare Cinese e il Dalai
Lama e il suo popolo sono in esilio ormai da vari decenni), c'è la prefazione
di Elio Toaff, l'ex rabbino capo, e c'è anche un intervento della portavoce
della Associazione per la Tutela dei Rifugiati.
Il tema dell'essere profugo, dell'essere esiliato è uno dei vari fili
conduttori di questo libro.
La presentazione ufficiale del libro è stata fatta in Campidoglio alla
presenza di Veltroni, con una serie di personaggi di spicco.
Noi stasera non vorremmo fare la presentazione, cioè raccontarvi in dettaglio
il libro, anche se ci sono alcuni temi che ci sembrano importanti. Uno per esempio
ripreso dalla pagina del libro dove si dice: "Pregare per la pace, ma c'è
anche il sognare per la pace". David si occupa da parecchi anni di sogni.
Questa cosa tra l'altro nasce nella città vecchia di Gerusalemme, dove
David è invitato a fare delle conferenze, a iniziare un lavoro, proprio
dove aveva passato una parte della sua vita. Sono presenti dunque vari i filoni.
C'è poi una rete straordinaria che continua ad ampliarsi. Il centro propulsore
è rappresentato proprio da David, quindi senza di lui mi sembra veramente
di appiattire tutto.
Ma ecco che arriva David
.
David Gerbi
Comincio dalla fine, dal motivo per cui sono in ritardo. Un periodo di 2175
anni si conclude proprio oggi, perché mia zia, l'ultima ebrea che viveva
in Libia, è arrivata finalmente qua e si è ricongiunta con tutti
i familiari. È stata accompagnata con cura e dedizione da due funzionari
libici. È venuta la televisione e i giornali, l'hanno accolta la mia
famiglia e i miei parenti.
Quando ho visto questa scena ho sentito subito una grande speranza, perché
non si è trattato soltanto dell'ospitalità che le hanno dato in
questi 36 anni in cui è stata da sola, ma anche la cura con cui l'hanno
accompagnata e ho visto che questa speranza si è espansa nel cuore di
mia madre, di mia zia, dei miei cugini. Poi c'erano i libici che guardavano
i miei parenti, si complimentavano, si salutavano
Alla fine tutta questa
grande distanza là concretamente non c'era. Ecco il il biglietto Tripoli-Roma
di mia zia: con questo biglietto si chiudono più di 2000 anni di storia.
I problemi relativi a mia zia erano legati a una documentazione ignota, fu trovata
per strada priva di sensi, trascurata, e venne portata in un ospedale. Da lì
l'hanno portata poi in una casa di riposo della famiglia Gheddafi dove è
rimasta dalla fine degli anni '80. Lei aveva perso conoscenza, era entrata in
uno stato di letargia psichica. Prima c'erano con lei due sorelle e due fratelli,
ma sono morti e c'era a Roma uno zio che si prendeva cura dei contatti. Questo
zio però è morto e una volta morto lui si sono persi tutti i contatti.
Abbiamo scoperto casualmente che mia zia esisteva ancora perché mia madre
l'anno scorso doveva rinnovare la carta d'identità italiana. Serviva
il certificato di nascita, che si trovava all'anagrafe di Tripoli, che con il
pogrom del 67 era stato incendiato; quindi non si poteva avere questo certificato
di nascita e mia madre non poteva avere la carta d'identità italiana
rinnovata e quindi il passaporto.
Mio zio, che è uno abbastanza sveglio in queste cose, si è dato
da fare e alla fine ha scoperto che esiste una nuova legge secondo la quale
si può fare la richiesta di un certificato sostitutivo al consolato italiano
di Tripoli. Mio zio ha fatto questa richiesta. Vedendo il cognome, il responsabile
dell'Archivio ha detto a mio zio: "Questo cognome Debach non mi è
nuovo, qui abbiamo una Debach che sta in un ospizio da parecchi anni, però
non so se è una vostra parente". Mio zio gli ha chiesto: "Ma
come si chiama?". "Si chiama Rina". "Come, è ancora
viva?". "Sì, sta in un ospizio lontano, fuori Tripoli".
Così abbiamo scoperto la sua esistenza. In seguiro a questo ho scritto
una lettera al colonnello Gheddafi e ho chiesto di rientrare a Tripoli per motivi
umanitari. Essendo psicologo, avendo lavorato con gli anziani ed essendo il
nipote, ho sperato che ci fosse qualche possibilità di rientrare, cosa
vietata dalla legge libica agli ebrei. Mi hanno dato un visto speciale. Sono
andato là, ho visitato mia zia e ho fatto richiesta di farla ricongiungere
ai familiari. Mi hanno detto che sarebbe stato possibile, che era necessaria
una documentazione da richiedere al Ministero degli Esteri. Io l'ho lasciata
il 12 settembre dell'anno scorso e oggi, grazie a Dio, lei è arrivata
a Roma. C'è voluto un anno e un mese. Questo documento ha fatto sì
che potesse rientrare. Così alla fine mia zia, che prima era di documentazione
ignota, si ritrova con un passaporto libico e uno italiano. Da niente a tutto!
La cosa che più mi ha colpito in questo incontro, sia a Tripoli che adesso
qui all'aeroporto, è che prima di partire per Tripoli mi sono detto:
"Voglio portare con me un ciondolino". È un simbolo ebraico,
un ciondolino che viene sempre dato alla nascita dei bambini o delle bambine,
su cui è scritto: 'Shaddai', che è uno dei tanti nomi di Dio (significa
'custode', sottinteso 'delle porte di Israele'), e c'è anche la stella
ebraica. Però al tempo in cui vivevo a Tripoli era pericoloso avere dei
simboli ebraici o dei nomi con delle lettere in ebraico. L'ho portato sapendo
che rischiavo. Non ho detto niente a nessuno dei parenti, perché l'avrebbero
presa per una provocazione. L'ho messo in tasca e ho pensato: "Chissà
che succederà".
A Tripoli - da cui eravamo andati via da profughi, con valigie di cartone legate
con lo spago, senza una lira - mi hanno accolto con una macchina da corpo diplomatico,
suite in albergo
Ho accettato tutto questo qualsiasi fosse la loro ragione:
per farsi perdonare, oppure affinché raccontassi la storia e li aiutassi
a cambiare l'immagine, a riabilitarli, oppure perché volevano riaprire
un varco, perché potevo essere un utile idiota pacifista che poteva essere
sfruttato
Qualsiasi ipotesi, ho detto, mi stava bene, perché mi
stavano proponendo qualcosa che andava nella direzione che io cerco, quella
della pace.
Era il capodanno ebraico. Vado alla casa di riposo e porto con me dolci, profumi,
saponette, cioccolato. Mi presentano mia zia, lei sta così
.
La saluto e le dico: "Ciao zia, io sono David, il figlio di Dina".
Niente, non mi riconosce. Lo psicologo mi dice che si trova in questo stato
di letargia psichica da parecchio tempo: non comunica, a volte ha degli scatti
di aggressività. Ho parlato, parlato, parlato ma non succedeva niente.
È il mio mestiere, quindi ho capito che non c'era possibilità
di collegamento.
A un certo punto sono usciti tutti: l'assistente sociale, la guardia del corpo,
l'autista, il direttore della clinica, lo psicologo. È rimasta solo l'infermiera.
Allora ho preso questo ciondolino e glielo ho messo al collo. E lei in quel
momento alza la testa e mi dice in arabo: "Che cosa mi hai messo al collo?".
Le ho detto: "Ti ho messo un ciondolino. Questo è il nome di Dio.
Questa sera è il capodanno ebraico": Lei mi guarda e mi fa: "La
potenza di Dio! A chi sei figlio?". E mi ha guardato negli occhi. "Ad
Aldina Vetrina" - mia madre la chiamano così perché mio padre
aveva un negozio di gioielleria e mia madre si metteva addosso tanti gioielli;
insomma ogni soprannome ha una storia.
"Ah, io conosco tua madre. È quella che ha il naso schiacciato!".
E piano piano si è riattivato il dialogo e mi ha chiesto notizie dei
parenti. Si è svegliata. Lo psicologo è rimasto scioccato: "Ma
che è successo? Non l'abbiamo mai sentita parlare o ridere, non le abbiamo
visto mai questi occhi così vivaci". E là abbiamo capito
che era un problema proprio di natura psicologica, perché era tanto tempo
che non aveva un contatto affettivo. Era rimasta isolata e non aveva un dialogo
con nessuno con cui si potesse riconoscere.
La cosa che mi ha più impressionato è che poi la guardia del corpo,
quando ci siamo salutati, mi ha chiesto: "Scusa, che cos'è che le
hai messo al collo?". Non me l'ha detto subito, me l'ha detto uno-due giorni
dopo. L'ho guardato proprio bene negli occhi, perché è gente sveglissima,
non puoi tentare di essere disonesto, perché sono onesti e disponibili,
però bisogna stare attenti a non fare i furbi nel dire mezza verità,
bisogna dirla tutta. Gli ho detto: "Guardi, le ho messo al collo il nome
di Dio in ebraico". M'ha guardato e ha detto: "Ah, va bene".
E la situazione si è acquietata. Poi siamo andati avanti e il rapporto
è migliorato.
La cosa che mi ha colpito è che adesso all'aeroporto i due accompagnatori
che sono arrivati non soltanto mi hanno fatto riabbracciare mia zia e ricollegarmi
con lei, ma in più mi hanno restituito il ciondolo. Questa è una
cosa che ha fatto commuovere tutti: mia madre, mia zia
È stato
un momento in cui hanno detto parole di pace. Mi vengono di nuovo i brividi,
perché è un gesto che m'ha riempito nuovamente di speranza. Passo
periodi di pessimismo, in cui mi sento scoraggiato, riluttante, frustrato, deluso
poi ci sono delle piccole cose che improvvisamente mi ridanno speranza. Quando
un tentativo di riconciliazione avviene a livello di scambio autentico e produce
dei risultati. Devo anche ammettere che all'interno di questo scambio umano
ci deve essere comunque lo scambio di tipo diplomatico. Io non sono né
un politico né un diplomatico, però usando la parte umana, psicologica
nel rapporto con questi pezzi da novanta succede qualche cosa. È venuto
anche il console generale d'Italia a Tripoli ad accogliere mia zia all'aeroporto
con la moglie, che ha portato dei fiori ed era emozionata. I rappresentanti
all'ambasciata libica erano emozionati per questo ricongiungimento, perché
non vedevano insieme ebrei e libici da 36 anni, era la prima volta che all'aeroporto
si incontravano. L'ambasciata libica, i due rappresentanti libici, i miei parenti
si sono incontrati proprio là all'aeroporto. Quindi in quel momento è
come se il tempo si fosse fermato. Il rappresentante mi ha detto: "Siamo
tutti libici, ci conosciamo". Ho sentito una ricerca di affinità,
più che di diversità.
Questo è il motivo del mio ritardo. La data che abbiamo cercato con Roberto
- io ero al nord, parlavo al cellulare - non si trovava. Lui diceva: "Siamo
abituati a farlo sempre il venerdì sera, però naturalmente si
deve fare un martedì. E ha scelto proprio questa data. Spesso con Roberto
succedono cose un po' magiche!
Il console mi ha detto: "Si è chiusa una fase importantissima. Adesso
bisogna fare in modo che lei torni a Tripoli con tutta la famiglia". Cioè,
anziché considerare chiuso il capitolo, ha detto che adesso si può
riaprire in un altro modo. C'è disponibilità da parte loro ad
un contatto. È come se ci fosse proprio un bisogno di dialogo autentico.
Domanda
Chi comandava a quei tempi in Libia e come mai vi siete salvati?
David
Gerbi
All'epoca c'era il Re Idris, ma non è stato lui la causa del pogrom,
sono stati i filonasseriani che nel '67, attraverso la loro radio, hanno incitato
i libici ad ucciderci. C'era la guerra dei sei giorni e dicevano che Israele
era stata distrutta. Allora sono scesi tutti per le strade e ci volevano distruggere.
In realtà Re Idris, in piedi sulla macchina, diceva agli arabi: "Fratelli,
non sporcate la nostra reputazione". Questo era il Re Idris, che aveva
sempre trattato bene gli ebrei e le minoranze. Infatti con lui si stava bene.
Ogni tanto avvenivano dei pogrom, ma non per sua responsabilità, ma da
parte dei filonasseriani. Là arabi, ebrei, cristiani hanno convissuto
per parecchi anni in pace.
Roberto Mander
Prima, mentre ti stavamo aspettando, riprendevo una considerazione dal tuo libro:
quando racconti del progetto originario di scrivere la tua vicenda con il titolo
provvisorio 'La ferita del rifugiato', che poi diventato 'Costruttori di pace'.
Mi sembra che quest'ultimo episodio di poche ore fa dimostri come ogni volta
succedono avvenimenti, incontri, circostanze per cui vieni sempre proiettato
in avanti piuttosto che richiuderti nel passato. Questo mi sembra in qualche
modo la parte più affascinante del libro, perché è una
continua evoluzione, su linee e aspetti diversi. Nel libro si parla di nuvole,
si parla di sogni, insomma c'è sempre un qualcosa o più cose o
persone che portano messaggi su come andare avanti o perché andare avanti.
David
Gerbi
Sì, non so se chiamarlo col termine junghiano di 'sincronicità'
o ammettere più sfacciatamente che sento la presenza di Dio, anche se
è difficile dirlo. Sento che Dio mi fa incontrare le persone giuste al
momento giusto al posto giusto, sia per darmi una bastonata, nel senso di dirmi:
"No, quella strada non funziona" (quando io magari insisto insisto,
perché devo ottenere quella cosa in quel modo), sia invece per trovare
delle strade che mi facilitano la possibilità di raggiungere un risultato.
Roberto sa quanto ottusamente volevo a tutti i costi andare io a Tripoli a prendere
mia zia. Ci ho messo tantissimo ad arrendermi al fatto che questa non era la
loro volontà, volevano portarla loro. Quindi, finché io ho insistito
la situazione è rimasta impaludata; nel momento in cui ho accettato che
forse non doveva andare come volevo io, ma doveva andare in un altro modo, le
cose si sono sbloccate. Alcune volte è difficile capire quando è
il momento della volontà e quando è il momento dell'abbandono.
C'è una tecnica di danza-terapia in cui si parla di 'willing' e di 'surrender'.
In alcuni momenti è difficile distinguere. "Adesso faccio questo
".
"No, adesso accetta". Se ci azzecco succede quello che dici tu, se
non ci azzecco si rimanda, ci metto più tempo.
Comunque se sono completamente nella mia integrità capitano gli aiuti
giusti, perché non è che sia io a far questo. Devo stare attento
a quello che diceva la buonanima del mio professore Gianfranco Tedeschi, che
è stato un mio maestro importantissimo: "David, sta' attento all'egolatria
(espressione che ha creato lui), a non lasciarti sedurre da questo aspetto che
magari ti inflaziona e ti porta in un'altra direzione". Mantenere il contatto
con l'integrità mi ha permesso di trovare spesso gli aiuti necessari.
Un altro aspetto è che quando ero giovane volevo tutta la gloria per
me, quindi tendevo ad escludere il più possibile le persone, così
poi ero io al centro. Invece adesso sono cambiato, cerco di includere sempre
di più. Ma non lo faccio per un tornaconto, so che in realtà siamo
tutti collegati e tutti in qualche modo possono contribuire a questo processo,
in una maniera invisibile, ma che sento molto presente.
Roberto Mander
Spesso davanti a vicende biografiche così forti si ha la sensazione che
soltanto in situazioni così estreme sia possibile fare questi passaggi
molto belli di amore, di apertura, di solidarietà, di crescita. Noi spesso
pensiamo che se non succedono nella nostra vita cose così, non possiamo
far nulla. Invece la cosa che mi ha colpito molto è il candore - tu lo
chiami integrità - che attraversa le pagine del tuo libro: c'è
la possibilità nella vita di ciascuno di noi di restituire quello che
riceviamo, di aprirsi verso l'altro, aldilà del dolore sofferto. Ecco,
non c'è solo la grande tragedia del profugo, la grande tragedia del sopravvissuto,
ma ci sono le diecimila tragedie quotidiane di cui possiamo farci una ragione.
Tu nel libro racconti di una trasmissione televisiva, Sorgenti di Vita, in cui
molti esponenti ebraici della comunità libica dicevano: "Noi a Tripoli
mai più, abbiamo chiuso". Tu invece, davanti allo stesso fenomeno
hai avuto una reazione diversa, che ha portato oggi a quest' ultimo capitolo
della storia.
David
Gerbi
Nell'ebraismo si dice che quando si riconosce il merito della persona che ha
insegnato qualche cosa, questo fa avvicinare il Messia. Penso alla mia analista
personale, la dottoressa Termoli, con cui ho lavorato parecchi anni sul tema
della vittima e del persecutore. Io continuamente mi identificavo nel ruolo
di vittima, sia a livello individuale per quello che mi era successo, sia a
livello collettivo per la mia comunità, sia a livello ebraico, per tutte
le persecuzioni che ci sono state; si fa presto a dire che è un popolo
perseguitato. Ad un certo punto ho visto che più andavo in quella direzione
più vedevo che la gente, ogni volta che raccontavo la mia storia, si
sentiva sì inizialmente addolorata, solidale, ma poi appesantita, scocciata,
e diceva: "Va bene, ti è successo questo. Che altro si può
fare?". Io continuavo a ripetere che era successo questo e quello. Un bel
giorno ho detto basta e ho capito finalmente il meccanismo dentro di me, ho
capito il persecutore dove stava: era quella parte di me che mi costringeva
a ripetere sempre quel nastro. Era quello il persecutore. Allora ho detto: finora
ho dato potere a questa parte, adesso non le voglio dare più potere.
Come? Mi sono chiesto cosa sarebbe successo se, anziché focalizzare sempre
le vecchie difficoltà, mi aprivo a nuove possibilità. Ho cambiato
prospettiva, perché ero ormai ipnotizzato dal ruolo di vittima. Mi sono
messo in un'altra zona e s'è aperto tutto un mondo, ho ricevuto tanti
aiuti.
Ho detto: che cosa posso fare con questa ferita del profugo? La posso rivivere
in qualche modo costruttivo? Ho tentato di impegnarmi per rientrare a Tripoli
- è stato anche molto grazie alla preghiera - e alla fine ho scoperto
casualmente l'esistenza di questa zia.
Intervento
Ho letto il libro e mi è sembrato molto delicato, delicato nelle memorie,
per questo senso di attaccamento verso le piccole cose che costituiscono il
nostro passato. Però anche commovente, quando per esempio tu parli delle
polpette di sabbia, del sorriso di tua madre, oppure di tuo nonno che ti dava
delle piccole somme di denaro, e quando una volta se n'è dimenticato,
tu hai supplito a questa dimenticanza prendendole da solo. È veramente
una ricchezza, come lo è anche il titolo che hai dato, questo 'Costruttori
di pace': ecco, sarebbe un patrimonio per tutta l'umanità, se veramente
tutti accettassimo di costruire la pace. Speriamo che prima o dopo anche questo
senso di amore verso il prossimo si allarghi verso tutti.
Sidney (cugino
di David)
Io ho letto il libro e mi ci sono riconosciuto, in particolare nella prima parte,
che può essere letta da diverse angolazioni. Lì ci sono sensazioni
ed emozioni. Normalmente la pace la si trasforma in qualcosa di etereo, di astratto,
in un'idea. Ma qui c'è la descrizione della materialità quotidiana,
fatta di piccole cose, di rapporti tra le persone, a prescindere dalle idee
che professavano. A Tripoli c'erano tre grandi filoni: l'Islam, la religione
ebraica e il cristianesimo; la differenza però non ledeva (almeno umanamente)
la comunanza più profonda, di specie come esseri umani. E questa è
resa nel libro dai sapori, dai colori, dai rapporti quotidiani. La cultura ebraica
si veste delle culture del luogo: un ebreo polacco mangia le cose polacche e
fa musica polacca, anche se ci mette un pochino di ebraico, a un matrimonio
tripolino, si veste della cultura nordafricana araba: con l'hennè e tutta
una serie di cose che sembrano strane, al confine tra ebreo e musulmano. Per
esempio si fanno delle grida terribili, molto stridule, che assomigliano a quelle
che fanno in Marocco e in Nord Africa. Allora uno dice: ma possibile che facciano
queste grida e siano ebrei? Culture e tradizioni si mischiano. La prima parte
del libro descrive la pace, intesa come possibile comunanza di etnie, culture,
storie diverse che hanno alla base stili di vita che si mischiano e convivono.
A casa mia, dopo 35 anni in Italia, non si parla italiano, ma quell'arabo urlato,
che è il suono di quella lingua. Io ce l'ho nell'orecchio tutti i giorni,
tra mia madre, mia nonna e mia zia.
Domanda
Una curiosità: come ti è venuto in mente di portare con te quel
ciondolino che mi è sembrato molto significativo in tutta la vicenda?
David
Gerbi
C'è una parte di me che mi spiazza sempre, non so come chiamarla, improvvisamente
viene: "E se prendessi questo?". Io invece vorrei andare dritto: "Non
si può". Invece questa parte insiste, una parte se vuoi trasgressiva,
una parte che osa, che rischia, che cammina proprio sul precipizio. Perché
sapevo che quello era un simbolo che poteva provocare il caos, però era
anche un simbolo che mi fa sentire vicino a Dio, perché è il simbolo
che viene appuntato vicino al cuore con una spilla da balia appena nasce un
bambino o una bambina. C'è gente che poi lo porta al collo. E mi sono
detto: "Quale miglior regalo posso farle?". Era mio quel ciondolo,
ho pensato: "Io glielo regalo". Quando mia madre l'ha saputo mi ha
chiesto. "Ma era quello che ti ho regalato io?". Le ho detto: "No,
è un altro". Me l'ha richiesto oggi nel taxi. La cosa interessante
è che alla fine è tornato a me.
La tua è una domanda molto profonda. Forse sarà capitato a tutti:
ci sono momenti in cui viene un'intuizione che non dovrebbe venire; dipende
se uno l'ascolta o meno. Sapevo che avrei avuto tutti contro. Come erano tutti
contrari quando sono andato a Tripoli. La fantasia era: adesso vai là,
ti tagliano la gola, ti ammazzano, come hanno fatto agli altri durante il pogrom
e non torni più. Ho dovuto fare tutto un lavoro di diplomazia all'interno
della mia famiglia, dei miei parenti, anche della gente della mia comunità,
per dire: "No guarda, io vado attraverso il consolato, attraverso l'ambasciata,
ci sono delle lettere, ho scritto una lettera al Colonnello, tutto è
regolare. Vado come psicologo a visitare la zia. Il medico me l'ha permesso".
Inviterei tutti voi a prendere al volo questi momenti quando vengono. Possono
venire nei sogni, o in un attimo di distrazione. Come fosse un folletto. È
la parte imprevedibile, invisibile, non sai quando viene, quando se ne va. Comunque
se la si prende al volo vi garantisco che fa cambiare tante cose.
Domanda
Mi chiedo il motivo di questo totale rifiuto di tua zia a comunicare, visto
che lì il personale era gentile, e non l'hanno maltrattata. Perché
era l'unica ebrea e non si fidava dei non ebrei? Questo mi impressiona. Lì
tutti gli arabi erano nemici?
David
Gerbi
No, non nemici. Non so se si trattasse soltanto di diffidenza verso gli arabi
o anche di un problema proprio psicologico, dato che non aveva più comunicato
con la mia famiglia per tanto tempo.
Forse per rispondere potrei raccontare una scena triste a cui ho assistito.
Quando l'ho vista, prima del fatto dello Shaddai, lei a un certo punto ha cominciato
a parlare da sola, faceva così: chiudeva gli occhi e faceva dei gesti,
poi apriva gli occhi e diceva: "Basta, io non voglio mangiare, lasciami
in pace". Poi richiudeva gli occhi, faceva un dialogo interno e poi rispondeva
all'esterno. Ogni volta parlava o con la madre, o con la sorella o con la zia.
È come se si fosse creata dentro una sorta di palcoscenico dove metteva
in scena dei personaggi. Non avendo più la famiglia, s'era creata un
entourage familiare interno con cui dialogava.
In più c'era il fatto che naturalmente era consapevole di quello che
era successo in passato. Quindi la diffidenza di cui parli probabilmente c'era,
impastata comunque con la consapevolezza di essere l'unica ebrea in tutta la
casa di riposo. I due fratelli e le due sorelle erano morti
Poi dopo che
si è risvegliata con lo Shaddai ha potuto avere un contatto con me.
Ci sono delle fotografie bellissime di lei con il medico e poi col medico insieme
alla guardia del corpo. Due bei colossi, lei è una vecchietta di 80 anni.
A un certo punto ha cominciato a ridere sotto i baffi. Le ho detto in arabo:
"Perché stai ridendo?". E lei: "No, niente, niente".
Io insisto e a un certo punto cede e dice: "Ma come? Da niente adesso ne
ho due!". Non s'è sposata e non ha avuto uomini, quindi c'era anche
il discorso di avere un compagno. Aveva l'espressione di una che non ha paura
di niente.
Roberto Mander
Questo è il primo incontro del Cipax, che quest'anno è dedicato
a raccontare e ascoltare le storie. Volevamo chiudere con un momento di condivisione,
per scoprire come la storia di David risuona in ciascuno di noi. Però,
prima di questo, c'è un ultimo tema, che anche a me sta a cuore: non
solo pregare per la pace, ma anche sognare per la pace. Il tema del sogno.
David
Gerbi
Sì, anche questo per me è stato molto importante, specialmente
il sogno che ho fatto legato a Gheddafi. Ci sono dei sogni che si manifestano
attraverso dei simboli reali. C'è un sogno interpretato a livello dell'oggetto
e del soggetto, che è legato veramente alla persona oppure semplicemente
è simbolico di qualcos'altro. Ci sono stati spesso dei sogni che mi hanno
guidato in vari posti, che mi hanno fatto incontrare parecchie persone. Il lavoro
che faccio sui sogni, sia su me stesso sia durante il lavoro analitico, ma anche
con un gruppo con cui lavoro da parecchi anni, mi aiuta spesso a trovare la
strada. Per me il sogno ha quasi superato il rapporto con la preghiera. Ho smesso
anche di utilizzare il libro di preghiere che ho ricevuto come tradizione ebraica
e mi dedico in maniera veramente religiosa e spirituale a esaminare i sogni,
specialmente quelli del mattino presto, non quelli diurni o i pensieri rimuginati
prima di andare a dormire.
Per me c'è un cammino di tipo spirituale attraverso il sogno. Il lavoro
sul sogno mi ha poi guidato e continua a guidarmi nel prendere delle decisioni.
Un po' il sogno mi autorizza ad azzardare, mi dice delle cose e dato che, come
mi ha insegnato il mio maestro, il rabbino Toaff, quando senti l'emozione del
sogno vuol dire che il sogno è vero, allora non ho paura, non rinuncio,
vado avanti.
La notte del
20 novembre, Rina Debach è morta a Roma.
Ci piace pensare che dopo tanti anni di sofferenze e solitudine, abbia aspettato
di rivedere i suoi cari prima di lasciare questo mondo. Aveva ancora con sé
lo shaddai del nipote David.