Evento
di Paola Cecchetti



Il gruppetto è al completo. Siamo circa dodici persone, si può iniziare. A fare cosa? Un compito particolare: apprendere a morire. Sono in questo luogo, per la verità molto confortevole e anche un po’ simbolico, chiamato "Il Fienile", per avere la visione della mia morte.
Non la "Grande Visione" di cui parla Alce Nero, che termina con queste parole: "poi vidi la mia tenda, e dentro vidi mia madre, mio padre che si chinavano sopra un bambino malato, su me stesso. E quando entrai nella tenda, qualcuno diceva: ‘il bambino riprende conoscenza; dovresti fargli bere un sorso d’acqua’. Mi ritrovai seduto; ed ero triste perché né mio padre né mia madre sembravano sapere che ero stato così lontano".
Alce Nero, al tempo della visione, aveva nove anni, e ciò che vide era così complesso, una cosmogonia, che gli ci volle tutta la vita per comprendere. "Adesso so che quella volta mi fu mostrato più di quello che sono capace di dire".
La visione a cui una donna, la dottoressa Livia Aite, con la sua voce ci accompagna, è meno profetica per me, vista anche l’età di chi parla, ma egualmente significativa. Inizia con un invito a guardare con gli occhi dello spirito qualcosa che per ora non esiste, ma che ci appartiene dal momento della nascita: la morte. Con quale obiettivo? Tornare dal viaggio immaginario più frustrati ma più saggi e allegri, perché si è pensata la morte per scoprire il significante della vita, per sentirsi vivi.
Il viaggio dunque inizia con l’invito a cambiare il proprio nome, a prendere un nome d’arte che valga solo per quel tempo (una giornata), sottratto alla cronologia e consegnato a un tempo pro-pizio, da vivere con le persone non scelte da noi, ma che si sarebbero ritrovate a formare il gruppo. Con il nome che mi scelgo, sembro affermare: non sono più "io", nucleo inflazionato, abitante del pianeta Narciso, ma "VENTO", parola uscita dalla mia bocca a mia insaputa, portata dalla velocità e dalla sorpresa della domanda. Mi preparo alla visione della mia morte e me ne difendo attraverso una suggestione: sono un elemento mobile della natura, che riguarda l’aria, dunque non potrò mai morire. Gli altri del gruppo si nominano: animali, minerali, fiori, ecc. I nuovi nomi, evocati nel cerchio delle persone presenti, creano un’architettura virtuale nella quale ci liberiamo dagli oggetti reali, per entrare nell’immaginario.
Siamo tutti distesi a terra e la voce femminile che ci accompagnerà per tutto il giorno chiede al nostro corpo di rilassarsi, di abbandonare le tensioni, per iniziare il viaggio. Il nostro corpo lascia il peso a terra, è immobile, mentre solo il respiro e il battito del cuore sono gli elementi mobili: andare-venire; fuori-dentro; trattenere-lasciare... Ma, forse, i movimenti sono triadici, se includiamo, tra in-spirare e e-spirare, la pausa infinitesimale, l’attimo da cui nasce il silenzio. È questo ritmo, che ci fa entrare nelle leggi universali che governano la vita, a veicolare l’immagine del nostro corpo che sta per essere abbandonato. Da cosa? Dall’anima, è la prima risposta che ci hanno insegnato, che mi hanno insegnato.
Quale luogo ognuno sceglie per morire? Quale tempo? Quali persone? Posso parlare della mia esperienza.
Sono nella mia stanza da letto. Il pensiero va alla dolcezza dell’abbandono del corpo da parte di mia madre. Accarezzavo il suo volto, la sua fronte, mentre con la voce cercavo di farla addormentare senza paura, come quando era bambina. Poteva andare, aveva fatto tutto quello che era in suo potere; ora, poteva abbandonarsi: era libera.
Il passaggio è stato impercettibile, ma definitivo. È su questo che è scoppiato un pianto liberatorio. È qui che aggancio la mia morte. Vorrei che mi tenesse la mano la mia amica, perché so che non ha paura. Ma è la mano di mio marito ad essere cercata, quasi per infondergli quell’energia che sono costretta ad abbandonare. Nell’altra stanza ci sono i miei figli con i loro compagni, li vedo attraverso la porta aperta. Sono tristi, li chiamo: sapete bene che la vita me la sono gustata attraverso attività molto diverse tra loro, e forse questo ha tolto a voi quella totalità dell’attenzione e della presenza che ogni figlio vorrebbe per sé. Oggi so che non avrebbe potuto essere diversamente, e oggi siete in grado di comprenderlo anche voi, perché questa mobilità è anche ciò che vi lascio in eredità, nel bene e nel male. In questo momento di verità sento di volervela passare come la leggerezza dell’essere (era questo che condensava la parola Vento?); vi lascio soddisfatta, non ho rimpianti; sono felice di lasciare voi, come testimoni della vita nel tempo futuro, dimensione che io non avrò più desiderio di possedere. Almeno nell’accezione comune della progettualità. Non so quale tempo andrò a incontrare, ma so che avrò una qualità diversa, forse quella di essere immobile. Mentre scrivo (sono passati circa due mesi dal giorno in cui è avvenuta l’esperienza), qualcosa si è già modificato nella visione attuale. Non c’è bisogno di tenere i figli "al riparo", nella stanza accanto, dall’attimo del transito, come quando erano piccoli. Era una menzogna che mi sono detta, perché ero io a non essere pronta a sopportare di condividere il loro dolore, che è anche il mio: non vedere più il mio corpo, ascoltare la mia voce, toccare la mia presenza, non vedere più i loro corpi, non ascoltare più le loro voci, non poterli più abbracciare. "Il corpo è il mio simbolo" dice Pannikar; ora, il corpo abbandona il proprio simbolo e il simbolo abbandona il proprio corpo. Cosa rimane? Se è vero che il vero parlare è cantare, credo che rimanga un canto capace di cantare l’assenza.
Torno all’esperienza. L’emozione di questa visione è stata vissuta nella solitudine del presente, pur essendo ogni corpo vicino all’altro, mentre l’altro momento, che per me è stato altrettanto significativo, è stato un momento collettivo. A gruppi di quattro persone, ci si è accompagnati, a rotazione, a morire. Mentre stavo morendo, una persona mi accompagnava con la voce e con la parola, un’altra respirava all’unisono con me, un’altra massaggiava i miei piedi. La Pietà si prende cura del mio corpo, nel momento in cui l’anima sta per abbandonarlo. I piedi, che hanno tanto camminato sulla terra, vengono come accompagnati al non-servizio, ringraziati per aver sostenuto il corpo e preparati ad essere rilassati per sempre, e non spaventati. Si parla di "ultimo passo" con terrore, ma perché viene eliminata l’estasi che sempre accompagna l’esperienza terrifica? I piedi, spesso, sono sentiti come una parte intima del corpo, togliere i calzini è un po’ come togliere lo slip: si ha paura dell’odore. Come può venire in mente di carezzarli mentre si sta morendo? Anche per chi accarezza è molto più facile avere a che fare con le mani, stringerle, accarezzarle; hanno una qualità diversa dai piedi, perché così è il codice della comunicazione. Scoprire i piedi dà la sensazione di essere invadente in un momento così importane e anche così legato alla malattia e al contagio. Ma è la parte per il tutto, nella medicina orientale è il microcosmo che racchiude il macro, vi sono rappresentati gli organi interni: è come massaggiare tutto il corpo e accettare di affidarlo a qualcuno che ne avrà cura.
Un’altra persona mi ha accompagnato a morire seguendo il mio respiro. Le persone che muoiono, spesso, se non avviene nel sonno, hanno un respiro simile al rantolo, come se prendere aria non fosse più un gesto automatico, ma difficile come alla nascita. Si dice "esalare l’ultimo respiro". Se c’è una persona accanto che, con i tre movimenti dell’in-spirare, e-spirare, pausa, mantiene il legame con l’armonia dell’universo, può coscientemente accompagnare ed assecondare il ritmo, in modo che il vivente respiri per il morente, che il morente mostri come il respiro giunge a termine e viene riconsegnato al mittente.
La fase più emozionante è stata essere accompagnata e accompagnare a morire dando parole e ricevendo parole. Credo che tutti in quel momento abbiamo mescolato le parole al pianto. Quante volte abbiamo rinunciato a trasformare le parole in pianto o il pianto in parole! La nascita, che è l’unico altro momento che incontra in modo così totalizzante il mistero, è caratterizzata dal pianto; sancisce una separazione altrettanto in-eludibile e in-eluttabile: si è cacciati dal paradiso terrestre nella dualità implicante il terzo, per essere gettati nel mondo della solitudine. Eppure, alla nascita, qualcuno ci chiama; ha già parlato di noi, più spesso per noi; e il pianto serve per comunicare alla morte le parole che stanno per scomparire per sempre e che dovrebbero parlare della stessa verità. Come all’inizio, si torna ad essere Logos e si restituisce la carne. Quanta sapienza ci perdiamo per non osare parlare la morte. Si ha paura più della parola – morte –, che ci è stata tramandata come ineludibile ed ineluttabile, che del passaggio stesso, molte volte non avvertito dal soggetto in transito. Se solo ci fossimo educati a vivere, a stare con il pensiero, su tutti i transiti che attraversiamo, arriveremmo a quello finale preparati a godercelo come compimento del progetto, a poter sostenere l’assenza del corpo amato come abbiamo appreso a sostenerne la presenza. Il bambino si addestra all’assenza della madre attraverso l’oggetto transizionale. Nel gruppo Eventi ci si addestra all’assenza totale di sé, delle persone che si amano, delle persone, attraverso la "visione transizionale", come quella di cui ci ha parlato Alce Nero, visione che ci viene data in dotazione con la nascita, ma che non sempre, come fu per lui, è possibile incontrare con lo sguardo, perché ci insegnano a strutturare la vita per poterla negare.