L'accompagnamento
aptonomico del morente
di Marie de Hennezel
"Perché
avete paura? In fondo sono io
che muoio!"
È
così che una giovane infermiera,
che stava morendo per un tumore,
si rivolse alle sue colleghe.
"Mi rendo conto che siete
in imbarazzo, che non sapete cosa
dire, né che fare. Ma credetemi,
non ci si può sbagliare
se uno dimostra calore. Lasciatevi
toccare. È questo ciò
di cui abbiamo bisogno. Possiamo
porci domande sul dopo o sul perché,
ma non ci aspettiamo veramente
una risposta. Non scampatela così,
aspettate! Voglio semplicemente
sapere se ci sarà qualcuno
a tenermi la mano quando ne avrò
bisogno. Se noi potessimo solo
essere sinceri, ammettere le nostre
paure, toccarci l’un l’altro.
Dopo tutto, la vostra professionalità
ne verrebbe davvero minacciata?
Allora non sarebbe forse tanto
duro morire all’ospedale... perché
uno avrebbe degli amici".(1)
Questa lettera punta il dito su
ciò che ci impedisce di
essere umani: la paura.
Di che cosa abbiamo paura?
Della morte, di cui dicono sia
una cosa un po’ sporca, un tabù,
soprattutto una cosa che va tenuta
nascosta?
Abbiamo paura della paura dell’altro?
O più semplicemente paura
di aprire il cuore, di essere
finalmente autentici, paura di
liberare le risorse affettive
che dormono in fondo al nostro
essere?
Perché alcuni guaritori
superano la paura e riescono a
essere presenti, a essere all’ascolto
di chi sta per morire?
Perché altri negano la
morte, accanendosi sul "corpo"
del malato e abbandonando la "persona"?
È lecito pensare che i
primi, che sono stati rassicurati
del loro essere "buoni",
osano vivere la loro sensibilità
dinanzi alla sofferenza altrui,
mentre invece i secondi, che non
hanno mai ricevuto tale conferma
affettiva, non possono assumere
"affettivamente" il
loro ruolo presso i malati morenti.
Non si tratta di giudicarli, ma
di aiutarli e rassicurarli a loro
volta. Perché ogni essere
umano possiede in potenza questo
"extentus effectus"
di cui parla Frans Veldman.(2)
L’aptonomia, così ci dicono,
"apre le strade che portano
a un modo di essere più
umano".
UNA QUESTIONE DI ETICA.
L’invito a una maggiore umanità
intorno alla morte e ai morenti
non è certo superfluo nel
mondo in cui viviamo oggi. È
divenuto anzi un elemento di grande
importanza. La questione della
morte, che ci si pensi o no, è
al centro della nostra vita: la
definisce nella sua interezza
e le dà il suo giusto prezzo.
Inoltre la visione che una società
ha della morte, il modo in cui
essa tratta coloro che stanno
per morire, è di per sé
un indice del suo grado di umanità.
Dobbiamo ammettere che questo
indice è caduto davvero
in basso in questa fine del ventesimo
secolo, caratterizzato dal rifiuto
della morte, dal mito dell’onnipotenza
della medicina e dall’esclusione
della morte dalla vita sociale.
In effetti viviamo in un mondo
in cui "morire bene"
significa morire rapidamente,
ancor meglio se inconsciamente,
e possibilmente in ospedale per
non creare troppo disturbo a chi
ci è vicino. Del resto,
come potrebbe essere diversamente,
dal momento che i valori che governano
la nostra vita sono l’efficienza,
la prestazione ottimale, l’affidabilità
e il consumo?
In questa cornice, l’accompagnamento
del morente e le cure palliative
rappresentano una nuova forma
di umanità. Nato da una
presa di coscienza di fronte al
rifiuto generalizzato della morte
e alla sua conseguenza logica,
cioè l’incapacità
di accettare la morte di un parente
o di un paziente, e anche di fronte
ai rischi di generalizzazione
e banalizzazione dell’eutanasia,
il movimento delle cure palliative
e dell’accompagnamento dei morenti
riunisce medici, infermiere, psicologi
e volontari che tentano di restituire
umanità alla morte, di
"ri-socializzarla",
in una parola di reintegrarla
nella vita.
Io stessa faccio parte di questo
movimento, e lavoro in qualità
di psicologa e psicoterapeuta
nell’Unità delle Cure Palliative,
fin da quando è stata creata.
Ed è di questa esperienza
che vi parlerò.
ULTIMUM, TACTUM EST.
Debbo innanzi tutto raccontarvi
un’esperienza che ha rappresentato
una vera e propria svolta nella
mia vita professionale. Essa si
colloca all’origine della ricerca
che ho intrapreso e che mi ha
portato fino all’aptonomia. Si
tratta del primo accompagnamento
che ho fatto di un paziente malato
di cancro in fase terminale. È
in quell’occasione che ho scoperto
tutta l’importanza del contatto
fisico. E non è così
facile per una psicoterapeuta
formata al principio che il paziente
non si tocca. Spesso si dice che
siano i morenti a insegnarci come
accompagnarli. Fu esattamente
così.
Ricordo quello che provai entrando
nella stanza dove giaceva quell’uomo,
piegato dal dolore: un profondo
sentimento di impotenza, una perdita
immediata dei miei riferimenti
di psicologa. Visto a posteriori,
ringrazio per quel vuoto che ho
sentito, perché mi ha permesso
di essere umana e spontanea. Mi
sono lasciata condurre, come si
suol dire, dal cuore e dall’istinto.
L’uomo era disteso su un divano
basso. Mi sono inginocchiata al
capezzale e ho posato la mano
sulla terribile metastasi allo
sterno che lui mi indicava come
localizzazione del dolore. Ho
posto in quel contatto tutta la
calma, l’intensità e la
presenza di cui ero capace, e
sono rimasta là al suo
fianco, come sospesa fuori da
me stessa. Un quarto d’ora più
tardi l’uomo si è calmato
e si è addormentato. Quello
fu l’inizio di un accompagnamento
che sarebbe durato un mese, fino
alla sua morte in ospedale. Lo
andavo a trovare tre volte alla
settimana, e mi lasciavo guidare
da lui. Non sembrava voler parlare
molto, ma piuttosto restare semplicemente
con quel contatto, affondare la
testa nell’incavo del mio braccio.
Restavamo così a lungo.
E quando me ne andavo, mi dicevo:
"Ma che succede? È
un lavoro da psicologo questo?
Non dovrei incoraggiarlo a parlare?".
Forse avevo capito allora che
l’accompagnamento è proprio
questo: lasciarsi guidare dall’altro,
adattarsi. Ed era più che
evidente che ciò di cui
aveva bisogno quest’uomo era di
una presenza che non chiedesse
nulla, che non si aspettasse nulla,
una presenza che io potevo offrirgli
tanto più facilmente in
quanto la mia affettività
– contrariamente a quella della
moglie – non era abitata dall’angoscia
e dalla paura della perdita, né
era appesantita dal fardello di
un passato conflittuale.
Benché prima di lasciare
la casa mi attardassi sempre un
po’ con la moglie per evitare
che si sentisse esclusa, riconosco
che avrei potuto integrarla di
più in quello "stare
insieme" che Veldman definisce
il "consensus haptonomicus".
Nonostante questo, l’uomo mi ha
scelta come intermediaria, poiché
la sera prima di morire mi ha
confidato un messaggio d’amore
destinato ai suoi: "Li amo
tanto" sono state le sue
ultime parole. Quando, dopo la
morte, le ho riferite alla moglie,
lei ha pianto di gioia tra le
mie braccia.
Più tardi ho cercato di
saperne sempre di più sul
contatto, e mi sono imbattuta
sull’aptonomia. Questo incontro
mi ha dato conferma di quell’approccio
che già presentivo giusto,
incoraggiandomi a metterlo sempre
più in pratica e aprendomi
a prospettive sempre più
nuove.
UN APPROCCIO BSATO SULL'AFFETTIVITÀ
E L'AUTENTICITÀ.
Si può immaginare quanto
un approccio del genere possa
apportare a una persona in fase
terminale di malattia. Dopo un
lungo percorso di sofferenze fisiche,
il malato sopporta anche il peso
della cospirazione del silenzio
che si è creata intorno
a lui, e troppo spesso, purtroppo,
anche il tirarsi indietro dei
suoi cari, che tendono, appena
conosciuto il pronostico, a rifugiarsi
nella fuga o in un lutto anticipato.
È questa la ragione per
cui Cecily Saunders, madre delle
cure palliative in Europa, ha
introdotto il concetto di sofferenza
globale. Se il dolore fisico deve
essere assolutamente alleviato
(l’accompagnamento non può
aver luogo se la persona soffre
fisicamente), non può tuttavia
essere trattato senza tener conto
anche degli altri aspetti psicoaffettivi,
sociali e spirituali della sofferenza
di chi muore.
Le cure palliative rappresentano
quindi un terreno sul quale la
competenza tecnica e l’apertura
e disponibilità affettiva
sono intimamente collegate e debbono
procedere congiuntamente.
Si capisce dunque che nell’istituzione
le cure palliative rappresentino
una rivoluzione: le priorità
vengono capovolte, perché
si tratta di privilegiare la qualità
della vita che resta da vivere,
piuttosto che prolungarne ad ogni
costo la durata. Questo richiede
da parte dei medici e degli infermieri
di attribuire più importanza
all’"essere" che non
al "fare", cosa che
può avvenire solo se accettano
serenamente i loro limiti e riconsiderano
la morte come quel fattore ineluttabile
su cui si fonda la vita. È
solo a questa condizione che costoro,
anziché combattere contro
un nemico che non è tale,
si potranno rendere disponibili
ad accompagnare i loro pazienti
nell’ultimo tratto del cammino.
Le cure palliative si basano,
inoltre, su una scommessa: la
morte non si riduce a una catastrofe
biologica; è un "avvenimento"
che comporta il vivere. La scommessa
dell’accompagnamento è
che se il corpo biologico si degrada,
l’attività psichica, invece,
continua. L’avvicinarsi della
morte fisica non porta con sé
necessariamente una riduzione
della libido vitale, anzi a volte
la risveglia. Michel de M’uzan
(3), in un articolo intitolato
"Il travaglio del trapasso",
constata che alcuni pazienti poco
prima di morire conoscono un’"accensione
del desiderio", un "appetito
relazionale", in cui la posta
in gioco è tanto più
importante in quanto, attraverso
tali emozioni, il morente tenta
di assimilare tutto ciò
che non ha potuto fino a quel
momento, "come se cercasse
di mettersi al mondo completamente,
prima di sparire".
Cerchiamo di capire bene ciò
che questo vuol dire: sapere che
uno presto morirà comporta
un grande sconvolgimento. La parola
"crisi" non basta a
descrivere questo grande sconvolgimento
interiore, ancor più violento
se avviene quando l’individuo
è giovane e ha il sentimento
legittimo di non aver realizzato
a pieno la sua vita. Si capisce
anche che la consapevolezza di
avere un tempo limitato da vivere,
una volta superato il primo choc,
viene accompagnata da una trasformazione,
da una maturazione interna, legata
agli interrogativi sul senso della
vita. Abbiamo l’impressione che
la persona, più che mai,
cerchi il proprio essere.
Che si parli del "processo
del morire", di "crisi
del morire", di "travaglio
del trapasso", si tratta
in effetti di tener conto del
fatto che un morente resta comunque
un vivente, alle prese con un’esperienza
nuova, ma con un’anima viva, i
cui movimenti possono, fino al
momento della morte propriamente
detta, raggiungere un’intimità
e una bellezza davvero profonde.
Troppo spesso i parenti, persi
nel loro dolore e in un lutto
anticipato, e i medici, chiusi
nel loro senso di fallimento,
non sono in grado di vedere o
di sentire tutto quello che si
può ancora vivere, condividere,
scoprire in questi ultimi momenti
di vita. Spesso proietteranno
le loro stesse sofferenze sul
morente, esigendo al posto suo
che vengano abbreviati i suoi
giorni visto che non c’è
più nulla da fare. Troppo
spesso si pensa, a torto, che
non ci sia più nulla da
sperare da un periodo di tempo
che viene vissuto solo come attesa
della morte. Ora, l’esperienza
ci ha mostrato invece che possono
avvenire molte cose sul piano
dell’affettività. La morte
"psichica" anticipa
allora la morte "fisica",
quando il morente si sente abbandonato,
inutile, quando ha l’impressione
di aver perso la dignità,
la libertà e la responsabilità.
COME SI FA A NON MORIRE PRIMA
DEL TEMPO.
È possibile non morire
prima di morire, e di entrare
da vivi nella morte?
Un approccio autenticamente aptonomico
mantiene aperta la domanda, in
quanto rispetta la morte come
tempo e spazio volti a una nuova
esperienza. Sappiamo che quando
la sua ricchezza affettiva viene
riconosciuta, stimolata e valorizzata
fino in fondo, il morente può
vivere degli scambi relazionali
molto intensi. Questo ovviamente
implica che il morente va accompagnato
con quelle qualità di presenza
e di amore "contenuto"
in cui egli troverà la
sicurezza di cui ha bisogno per
separarsi. È senza dubbio
molto difficile per un familiare
offrire a colui che muore un amore
che non sia attaccamento, che
non trattenga e che lasci andare
verso il suo destino la persona
cara. È il motivo per cui
a volte chi muore si distacca
dalle persone amate, chiudendosi
alla comunicazione con loro, e
cercando al tempo stesso il contatto
con una persona nuova, generalmente
qualcuno che le ha in cura, o
una qualsiasi persona benevola,
che sarà semplicemente
presente, senza aspettarsi niente,
senza cercare di trattenerlo.
In questo contatto pieno di rassicurazione,
i pazienti, sentendosi amati e
accettati nel profondo, si potranno
sentire liberi di morire. È
questa sottile qualità
dell’amore che Kübler-Ross
traduce nel suo concetto di "amore
incondizionato" e che Frans
Veldman chiama "Philia".
Vediamo ora qualche aspetto dell’approccio
aptonomico, in particolare per
quanto attiene il fenomeno doloroso,
la perdita della dignità,
l’angoscia, l’interrogarsi sul
senso della morte e gli stati
comatosi.
COME AFFRONTARE IL FENOMENO DOLOROSO.
La fase terminale nei malati di
cancro rappresenta circa il 70%
dei casi di fasi terminali dolorose.
È ovvio che l’alleviamento
del dolore fisico è il
presupposto di ogni accompagnamento
aptonomico, poiché il dolore
fisico, degradante e avvilente,
impedisce ogni forma di comunicazione
con gli altri e rende impossibile
tale accompagnamento. Ora, il
dolore è un fenomeno soggettivo.
Non è possibile infatti
misurarlo oggettivamente. Questo
presuppone quindi dei medici e
infermieri che credano a ciò
che i pazienti dicono loro quando
si lamentano per i dolori. Tale
atteggiamento, che consiste nel
prestare fede alla parola del
malato e a lasciarsi guidare da
lui, incontra ovviamente parecchie
resistenze nel mondo medico, che
non è abituato a lasciare
che il malato tenga le redini
della situazione. Credere a una
persona sulla sua parola, quando
dice di provare dolore, è
già di per sé un
comportamento aptonomico. Alcuni
malati arrivano da noi sofferenti
anche se ricevono già forti
dosi di analgesici. Abbiamo notato
che dopo qualche giorno trascorso
nell’Unità di Cure Palliative,
una volta messi a loro agio e
sentendosi trattati come "persone",
hanno cominciato loro stessi a
chiedere che i dosaggi venissero
abbassati. Altri persistono nel
lamentare dolore, malgrado siano
sottoposti ad adeguati trattamenti.
Si tratta spesso di persone che
rifiutano di lasciarsi avvicinare
e curare, considerandolo come
una regressione inaccettabile.
Sono individui che hanno una forte
idea della loro autonomia e respingono
ogni forma di dipendenza. Il degrado
del loro stato fisico fa nascere
in loro un’angoscia che si esprime
anche attraverso il dolore. In
molti casi un approccio prudente,
paziente e affettuoso ha permesso
dopo un periodo di tempo abbastanza
lungo una serena accettazione
della dipendenza e perfino della
regressione.
Nel caso di dolori localizzati,
l’invito al "prolungamento"
(4) si è rivelato
efficace. Mi ricordo in particolare
di un uomo che lamentava dei forti
dolori al ventre e ai reni. Piegato
in posizione fetale, mi è
stato facile sedermi sul letto
e invitarlo a venire verso di
me, mentre io gli toccavo la schiena.
Non solo il dolore è progressivamente
diminuito, ma, in questo contatto
pieno di fiducia, l’uomo ha cominciato
a parlarmi dal fondo del cuore,
raccontando in lacrime che sua
madre non l’aveva desiderato e
che aveva tentato senza successo
di abortire. Questa ferita così
antica era ancora cocente in lui.
Mi è sembrato che a quest’uomo
fosse sempre mancata quella conferma
affettiva che lo avrebbe liberato.
Non era forse quello che cercava
ora in quel contatto con me?
LA QUESTIONE DELLA DIGNITÀ.
Tra le perdite più dolorose,
troviamo la perdita dell’autonomia
della persona, quella della padronanza
del proprio corpo e quella della
propria immagine, che sono spesso
vissute come un attentato alla
propria dignità. Spesso
sono la causa dell’isolamento
in cui si chiude il malato e del
suo rifiuto di comunicare. Il
degrado fisico, d’altronde, comporta
spesso una divisione interiore:
il corpo è vissuto come
un nemico, un ostacolo, un oggetto.
Il malato si sente tradito dal
suo corpo; l’unità della
sua persona è minacciata.
Di recente un giovane malato di
AIDS mi diceva che quando vedeva
allo specchio il suo corpo dimagrito,
ricoperto di Kaposi, aveva l’impressione
che non si trattasse di lui. Viveva
una sorta di frattura affettiva.
Il contatto con questi malati
è delicato. Sentono tutto
e non si può ingannarli,
né dar loro false assicurazione
narcisistiche. Solamente il contatto
affettivo, in cui la persona si
sente riconosciuta nella sua propria
essenza, nella sua "corporeità
animata", permette al malato
di "superare" il corpo
e di percepire se stesso in modo
diverso. È solo attraverso
un incontro in cui l’individuo
si sente rassicurato nella propria
"essenza" che si può
dimenticare di "avere un
corpo" sminuito o degradato,
perché solo allora si "è
se stessi".
Molte richieste di eutanasia sono
legate a questo sentimento di
perdita della propria dignità.
Ma tale sentimento è legato
al fattore corporeo e non al modo
di essere dell’individuo. Se si
ha sufficiente tempo a disposizione,
e a condizione che l’ambiente
che circonda il malato non gli
confermi questo senso di sconfitta,
si può indurre la persona,
attraverso degli "impulsi
rassicuranti", a riconoscere
che la sua dignità è
legata al suo modo di essere.
Molti pazienti spesso mi dicono
che non sopporteranno di diventare
infermi e dipendenti, e che quel
giorno bisognerà aiutarli
a morire. Dietro a questa paura
ve ne è un’altra: la paura
di non essere più amati
se non corrispondiamo più
all’immagine che gli altri hanno
di noi. Finché si è
lontani da quella realtà,
si può dire che sia solo
una paura fantasma, ma quando
si è realmente infermi,
realmente degradati nel corpo,
allora tutto quanto dipende interamente
dagli altri. Se i parenti e gli
amici, attraverso lo sguardo,
la presenza e il modo di fare,
riescono a far sentire al malato
che egli viene amato per il suo
"essere", se sanno fargli
dimenticare la sua degenerazione
fisica, perché loro stessi
l’hanno dimenticata, dimostrando
interesse solo per la sua umanità,
per la sua "essenzialità",
allora la questione della perdita
della dignità non si pone
più.
Noi siamo persuasi, dopo tanti
anni di lavoro vicino ai morenti,
che attraverso il nostro sguardo,
la nostra aptonomia e il nostro
modo di entrare in contatto con
la persona con rispetto e tenerezza,
noi possiamo restituire al malato
il suo senso di dignità.
FACCIA A FACCIA CON L'ANGOSCIA
DELLA MORTE: LA REGRESSIONE.
Se la paura della morte in quanto
tale si incontra raramente, l’angoscia
che accompagna l’incognita della
morte sembra essere un passaggio
obbligato che, ancora una volta,
non bisogna mascherare o far sparire,
ma contenere grazie a una presenza
affettuosa, al fine di permetterne
l’elaborazione e il superamento.
Che cosa si può dare a
un essere alle prese con l’angoscia
di morire, se non l’intensità
della nostra presenza e la nostra
fiducia assoluta nelle sue capacità
di assolvere fino in fondo questo
suo cammino? Certe persone ci
si aggrappano, in una stretta
fortissima della mano o del corpo.
Accogliendo questo contatto disperato,
accettando di entrare in quella
che M’uzan chiama "l’orbita"
del morente, senza paura di perdersi
perché si è fortemente
se stessi nella propria sicurezza
di base, apriamo al morente il
percorso verso la sua sicurezza
interiore, in modo infinitamente
migliore che non lo farebbe un
qualsiasi discorso. Una volta
ho tenuto una donna stretta contro
di me in un momento di disperazione
terribile – aveva appena saputo
che stava per morire – e poco
dopo mi ha detto come aveva vissuto
quel contatto: "Ho avuto
l’impressione che lei mi stesse
trasportando, come una buona nave,
attraverso la notte buia".
Mi ricordo anche di un malato
in preda all’angoscia, che lottava
contro il sonno, tenendo gli occhi
aperti giorno e notte, aggrappandosi
allo sguardo di chi gli stava
vicino. Forse, in quegli sguardi,
cercava "l’avvenire della
sua anima"?
Si capisce l’importanza, in questi
momenti di grande disperazione,
di essere accompagnati col contatto,
con lo sguardo, per tutto il tempo
di una difficile attraversata.
La conferma affettiva che vi si
scopre è a volte una rivelazione:
è quello che si cercava
da sempre!
L'INTERROGATIVO SUL SENSO DELLA
MORTE.
La sofferenza spirituale (e non
religiosa) riguarda il dare un
senso a ciò che viviamo.
Sentire la morte che si avvicina
induce a porsi la domanda sul
senso della propria vita, per
che cosa, per chi abbiamo vissuto?
Emerge l’interrogativo sui valori
dell’esistenza, ed è anche
il momento del bilancio della
propria vita. Il peccato di Adamo
– che consiste nel pensare sempre
al domani, senza tenere nel giusto
conto le gioie della vita – quante
volte l’abbiamo commesso?
Per chi è testimone di
questi interrogativi, e noi che
accompagniamo i morenti lo siamo
sempre, è significativo
constatare quanto l’affettività
prevalga sull’effettività
dell’esistenza. L’essenza di una
vita spesso si riduce a tutti
quei momenti di felicità,
o di "delectatio", nei
quali l’individuo ha trovato il
coraggio di vivere e di spingersi
oltre. Non possiamo dunque dedurre
che una conferma affettiva, anche
se tardiva, dia all’individuo
il coraggio di morire, liberando
la sua facoltà d’amare?
A chi è infermo, fisicamente
degradato, dipendente, resta ancora
la facoltà di amare e di
essere amato, e il "vissuto
di bontà" può
arrivare fino al punto di procurare
una gioia spirituale. Ma naturalmente
questo avviene se al suo fianco
vi sono degli esseri umani pronti
a vivere questa "corporeità
dell’incontro".
IL COMA AGONICO
A volte, quando accompagnamo agonie
che sembrano non finire più,
pare che il malato aspetti questo
ultimo contatto rassicurante e
liberatorio, che gli permetterà
di abbandonare il corpo e di vivere
la morte.
La conferma affettiva può
dunque essere data perfino nel
coma, attraverso una sorta di
veglia, paziente e tranquilla.
Che cosa sappiamo del coma? Si
parla di affondare nell’incoscienza,
di sprofondare nel coma, ma non
si potrebbe forse parlare di "risvegliarsi"
all’incoscienza? Chi può
dire che l’individuo non stia
nascendo a un mistero? Non è
forse anche un momento privilegiato
di contatto sottile da anima a
anima? Siamo stati testimoni di
pazienti ritornati da questi "abbassamenti
di luce" come rappacificati,
pronti a partire, come se la loro
coscienza fosse emersa trasformata
e dilatata da questo tuffo nell’intemporalità,
come se l’essere stati vegliati
pazientemente o l’aver ricevuto
prove d’affetto che non si aspettavano
più, o l’essere stati infine
rassicurati sul fatto di essere
amati, consentisse loro di prendere
congedo.
Non dimenticherò mai una
donna che ho vegliato per tutta
una mattinata, mentre era in stato
di coma agonico agitato, e di
come pian piano si è calmata
mentre la cullavo cantando il
suo nome di battesimo, Lucia.
A un certo punto ha aperto gli
occhi, fissando qualcosa in lontananza,
sopra di me. Il volto era diventato
bellissimo, completamente assorto
in quella certa cosa che vedeva
lontano, e poi ha smesso di respirare,
così, semplicemente.
È stato detto che chi muore
ci fa da maestro. Al loro contatto,
in effetti, ciò che vi
è di più vivo e
di più profondo in noi
si apre. Basta dunque dare a questa
apertura il suo spazio, e lasciar
maturare in noi "l’extensus
affectus".
"Il corpo di un uomo dal
cuore vivo che riposa sotto terra
è preferibile a un mondo
intero di viventi dal cuore morto".
(Saadi - poeta persiano del sedicesimo
secolo)
NOTE:
1) Lettera citata da E. Kübler-Ross
in La morte, dernière
étape de la croissance
(La morte, ultima tappa della
crescita), Editions Québec
Amérique.
2) "L’extentus affectus"
rappresenta un modo di essere
aperto, trasparente, senza limiti,
tale da permettere una conferma
affettiva.
3) Michel de M’uzan, De l’art
à la mort (Dall’arte
alla morte), Gallimard.
4) L’autrice fa qui riferimento
a una tecnica da lei introdotta:
sia chi riceve il contatto fisico
che chi lo offre immagina di prolungarsi
al proprio interno e anche all’interno
dell’altra persona, in una reciprocità
di "prolungamento" consapevole
(ndr).
Traduzione dal francese di Laura
Bisogniero.
Di Marie de Hennezel sono disponibili
in italiano i due ottimi libri:
La morte amica e Il
passaggio luminoso, quest'ultimo
scritto insieme a Jean-Yves Leloup.
Entrambi i titoli sono stati pubblicati
da Rizzoli.