Le
qualità della meditazione
nell'assistenza ai malati terminali
Intervista con Frank Ostaseski
Lo scorso maggio, prima che
ripartisse per gli USA, insieme
ad alcuni amici abbiamo chiesto
nuovamente a Frank di parlarci
della sua esperienza e in particolare
del legame tra la pratica meditativa
e l’attività di assistenza
ai malati terminali.
D:
Da alcuni anni dirigi lo Zen Hospice
di San Francisco, un’esperienza
iniziata nel 1987, Come sei arrivato
a coniugare la meditazione e l’assistenza
ai malati terminali? Che cosa
ti ha portato a realizzare questo
progetto?
R: Abbiamo iniziato con
un’idea molto semplice: nella
pratica della meditazione le persone
sviluppano quella che io chiamerei
la mente che ascolta, la capacità
di ascoltare molto intimamente
la propria esperienza. Mi è
sembrato che ci fosse un accostamento
naturale tra coloro che stanno
imparando ad ascoltare e coloro
che hanno bisogno di essere ascoltati
almeno una volta nella loro vita.
Abbiamo iniziato così,
semplicemente.
Per accompagnare le persone che
muoiono dobbiamo includere noi
stessi nell’equazione. Dobbiamo
investigare ed esplorare la nostra
relazione con la situazione in
atto in modo da poter essere di
aiuto. Se non abbiamo fatto questo
tipo di ricerca, allora le persone
che stanno morendo sapranno che
stiamo solo cercando di indovinare,
mentre diciamo di capire.
Una delle esperienze basilari
con cui entriamo in contatto attraverso
la meditazione è quella
dell’impermanenza, ossia realizzare
che tutto cambia: ogni pensiero
va e viene e così ogni
relazione, ogni amore. Quando
capiamo profondamente tutto questo
dentro di noi, nel cuore, allora
capiamo anche che la morte è
nella natura di tutte le cose.
E tenendola così vicino,
sulla punta delle dita, cominciamo
ad apprezzare il fatto che la
morte sia la nostra consigliera
e che sia lì, vicino a
noi, per aiutarci, per informarci.
Ecco perché tutte le tradizioni
spirituali che conosco ci ricordano
in un modo o nell’altro di vivere
accanto alla morte: per realizzare
la precarietà della nostra
vita e per accoglierne la preziosità,
in modo da non perdere neppure
un attimo.
Per me essere vicino ai morenti
è la cosa più vitale
che possa fare; essere con la
morte è vivere pienamente
la propria vita, entrare in contatto
con la pienezza e la bellezza
della vita. Per me è un
lavoro di grande soddisfazione.
D: Ci puoi raccontare in
che cosa consiste esattamente
il progetto dello Zen Hospice?
R: Abbiamo iniziato il
progetto nel 1987, con uno scopo
molto semplice: non assistere
tutti quelli che muoiono, ma solo
le persone a cui potevamo dare
una buona qualità di assistenza
e comunicare loro la parte migliore
della nostra esperienza. Così
abbiamo iniziato a fare un training
ai volontari che praticano la
meditazione per assistere e accompagnare
le persone che muoiono. Abbiamo
organizzato una piccola casa,
molto bella, dove abbiamo assistito
cinque persone che hanno abitato
con noi fino alla loro morte.
Questo modello voleva essere valido
per tutte le comunità del
mondo, per poter creare luoghi
simili dove la gente potesse trovare
un posto dignitoso e riposante
per i suoi ultimi giorni. Non
è una clinica, ma una casa.
Non si sveglia la persona al mattino
prendendole il polso per misurare
la temperatura, ma domandandole
se vuole il caffè per colazione.
Il posto è bellissimo,
con i soffitti alti, il camino.
Le persone possono portare con
sé i propri oggetti personali
e arredare la stanza in modo da
sentirsi a casa propria. I familiari
possono stare con loro, in modo
che non si sentano abbandonati.
Poi all’interno portiamo tutto
il meglio che la medicina può
offrire: buoni medici, buone infermiere.
È un luogo bello dove le
persone possono trovare riposo
e dignità, serve come modello.
Abbiamo poi un secondo progetto,
dato che assistere cinque persone
non risolve il problema. Abbiamo
deciso così di creare un
hospice all’interno del più
grande ospedale di San Francisco
e lì abbiamo creato un’unità
di 28 posti letto. I nostri volontari
collaborano con i medici e gli
infermieri nell’assistenza ai
pazienti. Iniziamo con il far
incontrare le persone tra di loro
così, semplicemente, come
esseri umani; perciò abbiamo
creato un giardino, un bellissimo
giardino Zen, con le rocce, il
sentiero, la fontana e dei bellissimi
fiori, in modo che i pazienti
possano restare in contatto con
la natura. La funzione del giardino
è di creare un senso di
squadra nell’hospice. Questi grandi
centri medici sono pieni di burocrazia,
ma nel giardino siamo solo esseri
umani che lavorano insieme, senza
ruoli. C’è pure una cucina
per preparare minestre e biscotti
e fare in modo che le persone
si sentano a casa; è importante
creare un clima di armonia e a
questo contribuiscono i volontari
che restano vicino ai malati anche
per una o due ore di seguito.
Così i medici e le infermiere
si possono rilassare e non si
devono preoccupare se non possono
dare al paziente tutta l’assistenza
che vorrebbero. In questo modo
si crea una squadra e i volontari
possono sviluppare la compassione
nell’ospedale trasformando un
luogo impersonale in un posto
di bellezza e di cura.
Il terzo progetto riguarda la
formazione di medici e infermieri
in modo che capiscano come assistere
con compassione e attenzione i
malati terminali; come aiutare
i familiari e gli amici a stare
vicino ai loro cari. Poi lavoriamo
direttamente con i morenti, offriamo
loro ritiri e pratiche per aiutarli
ad affrontare questa enorme sfida
nella loro vita. Ecco, questi
sono i nostri tre progetti: residenza,
ospedale e formazione.
D: Al giorno d’oggi non
si ha una grande familiarità
con la morte, si tenta di nasconderla.
Cosa rispondi a chi ti chiede
perché investire così
tanta energia, così tante
risorse per assicurare un’assistenza
medica ai malati terminali?
R: A volte io vedo il problema
al contrario. Vedo cioè
quanta energia viene sprecata
per evitare questo. Negli Stati
Uniti si investono molti soldi
per gli ultimi sei mesi di vita
delle persone, per cercare di
allontanare il problema. Si allontanano
gli anziani, si spendono milioni
nell’industria dei cosmetici per
apparire giovani, anche quando
siamo già nella bara. È
pazzesco! Sarebbe bello non vivere
la vecchiaia come una decadenza
e cambiare la pratica medica alla
luce di come si deve vivere la
vita! Assistere le persone che
muoiono è un’esperienza
incredibile, avere l’onore di
accompagnare le persone in un
momento così unico e vulnerabile
della loro vita è il miglior
rinnovamento per la mia vita.
Poter aiutare in quel momento
ed essere testimone mi insegna
a vivere. Nella mia esperienza
accompagnare una persona nella
sua morte è un beneficio
per entrambi: io la assisto nel
momento della morte e lei mi insegna
a vivere.
Vorrei aggiungere ancora qualcosa
sulla medicina. Siamo portati
a pensare che la morte sia un
evento che riguarda la medicina,
ma non è così; non
è un evento che riguarda
solamente i medici, perciò
non possiamo affidare solo a loro
questo compito. Morire è
una questione relazionale: si
tratta della relazione che si
ha con se stessi, con le persone
che si amano, con Dio o con Colui
al quale noi pensiamo di affidare
le nostre ultime speranze. Così
chiunque si occupi di accompagnare
un morente, deve facilitarne le
relazioni ed entrare in una totalità.
Bisogna offrire il meglio che
la medicina può dare per
quanto riguarda il controllo dei
sintomi, ma non si può
guardare alla morte solo come
un evento clinico.
Forse a questo punto è
bene descrivere che cosa sia veramente
l’hospice: si tratta di un metodo
di cura per persone generalmente
negli ultimi sei mesi di vita
che enfatizza soprattutto le cure
palliative focalizzandosi principalmente
sul benessere del paziente, assicurandosi
che ci si occupi della sua sofferenza
e che i sintomi vengano curati.
Ci si prende cura non solo della
malattia, ma dell’uomo con le
sue emozioni, dei rapporti con
la sua famiglia, delle sue esigenze
esistenziali e spirituali. Questo
avviene lavorando in squadra con
medici, infermieri, assistenti
sociali, volontari e ministri
di culto: cerchiamo tutti insieme
di sostenere le persone e le loro
famiglie. È molto importante
sia il paziente sia la famiglia.
Di solito interveniamo negli ultimi
sei mesi di vita, ma a volte le
persone si fermano solo qualche
giorno, oppure più di un
anno, dipende.
D: La presenza di un progetto
come quello dello Zen Hospice
influisce sull’atteggiamento delle
persone, produce secondo te dei
cambiamenti?
R: Spero che il progetto
dello Zen Hospice possa avere
un’influenza al di là delle
persone che entrano in contatto
diretto con il progetto. Credo
che tutte le volte che la compassione
si attiva ed entra nel mondo circola
in cerchi concentrici. Più
specificamente penso che a livello
di educazione possiamo avere un
forte impatto. Vorrei fare un
esempio: a un seminario che abbiamo
organizzato ha partecipato una
dottoressa che ci ha raccontato
che uno dei suoi compiti in ospedale
era quello di girare nei reparti
di notte, e verificare i decessi,
dichiarare la morte dei pazienti.
Ci raccontò che questo
stava alimentando in lei un senso
di cinismo e di esaurimento e
si chiedeva se voleva ancora fare
il medico. Quel lavoro le aveva
fatto perdere il contatto con
la sua parte umana e voleva smettere.
Le consigliai di rapportarsi ai
suoi antenati, al suo lignaggio
di provenienza: i medici sono
gli eredi degli sciamani, dei
guaritori, dei filosofi greci,
e le consigliai di riferirsi a
loro per trovare un sostegno.
Quando si avvicinava al letto
del paziente, il suo camice era
la veste cerimoniale, c’era un
modo diverso di accostarsi alle
persone. Apprezzò il consiglio,
ma non decise niente. Dopo alcuni
mesi da un altro amico venni a
sapere che la donna era tornata
nel gruppo di supporto e aveva
spiegato che cosa le era successo
e di come ora si prendeva cura
dei pazienti: si avvicinava a
loro portando con sé una
piccola scatola e, quando entrava
nella stanza, apprestava un piccolo
altare, accendeva una candela
e poi ungeva con dell’olio la
persona, la baciava augurando
buon viaggio a chi se ne stava
andando, rimanendo poi vicino
alla famiglia. Questo è
il modo in cui ora fa il suo lavoro.
Non sappiamo quale sarà
il valore dei nostri atti nel
futuro, ma spero che l’influenza
dello Zen Hospice si farà
sentire in un modo che neppure
io conosco.
D: Vorremmo tornare al
legame tra la meditazione, il
buddhismo, e l’accompagnamento
ai morenti.
R: Per essere in grado
di curare, bisogna arrivare vicini
al centro: è un lavoro
che richiede grande intimità,
non si può farlo restando
distaccati. Perciò ci dobbiamo
avvicinare molto. Questo significa
che dobbiamo avvicinarci anche
molto a noi stessi, cioè
entrare in un territorio che ci
può spaventare molto. La
resistenza a entrarvi blocca la
compassione e ci porta a sforzarci
affinché la situazione
sia diversa da quella che è.
Bisogna voler entrare in questo
territorio e ricercare insieme
alle persone che soffrono e fare
di questa ricerca un ponte di
empatia per lavorare insieme.
Ed è solo in questo modo
che possiamo entrare in relazione.
Negli Stati Uniti si usa l’espressione
"calore professionale"
per riferirsi all’atteggiamento
dei medici che sembrano avere
compassione, ma in realtà
sono solo comprensivi. Così
non si guarisce: bisogna essere
vicini e rischiare di spezzarsi
il cuore. La pratica della meditazione
ci mostra come fare la ricerca,
ci dà gli strumenti per
esplorare la nostra vita interiore
perché solo così
riusciremo a capire che cosa può
servire a un altro essere umano
di fronte alla morte. Ecco perché
secondo me esiste una relazione
molto stretta tra la pratica della
meditazione e il prendersi cura.
Nello Zen Hospice chiediamo a
tutto il nostro staff e ai volontari
di praticare, di fare la loro
pratica spirituale di meditazione
come ricerca personale. Lo chiediamo
perché crediamo che possa
aiutare a trovare un equilibrio
e una maturità che sono
essenziali se si vogliono incontrare
i bisogni delle persone che muoiono.
Per questo tipo di lavoro bisogna
avere una certa dose di stabilità
emotiva, così da non perdersi
nel dramma del morente; bisogna
essere presenti, fiduciosi e solidali;
la pratica della meditazione ci
aiuta a sviluppare queste qualità.
Durante la meditazione, nello
stare seduti, la vita interiore
si manifesta anche nel suo dramma,
ma tutto ciò che dobbiamo
fare è riuscire a non lasciarci
trascinare a destra e a sinistra
dalla corrente. Quando sediamo
vicino a un morente, ci troviamo
di fronte la stessa situazione:
c’è la paura, la sofferenza,
la depressione. Però il
praticante rimane calmo, senza
perdersi nell’esperienza, così
da poter essere veramente di aiuto
e di assistenza al morente. Questa
è la qualità che
cerchiamo di sviluppare.
D: In base alla tua esperienza
ritieni che con la meditazione
si possano assistere le persone
non solo nel momento della morte,
ma anche aiutarle nell’angoscia
e nella paura che provano davanti
al processo del morire?
R: Una delle cose in cui
ci può aiutare la meditazione
è proprio nello sviluppare
la capacità di rimanere
calmi nelle situazioni difficili;
ci può aiutare ad analizzare
la natura della sofferenza. Nella
pratica Zen si dice che il non
sapere è un’esperienza
di intimità. Vuol dire
che, quando non sappiamo, la mente
è aperta e dobbiamo quindi
restare molto vicini all’esperienza
per permettere a essa di darci
le informazioni. È come
andare in una grotta buia di notte
senza una luce: dobbiamo sentire
e procedere lentamente lungo le
pareti in modo che le circostanze
ci mostrino cosa fare. Di solito,
invece, siamo così pieni
di nozioni, di tecniche, di conoscenze
che tutto questo limita effettivamente
la nostra cognizione su ciò
che è possibile. L’immagine
è ristretta a ciò
che sappiamo e non ci permette
di vivere nel mistero di ciò
che non sappiamo. Personalmente
sono molto più interessato
al mistero che alla maestria [in
inglese: mistery/mastery].
D: Possiamo chiederti come
hai iniziato?
R: Tutti mi chiedono come
e perché abbia iniziato
a fare questo lavoro. La pratica
buddhista ci insegna che sono
molteplici le circostanze che
portano alla nascita di una situazione.
Non credo che nessuno di noi sappia
veramente perché è
arrivato a qualcosa. Io sono stato
sicuramente influenzato dalla
morte dei miei genitori, dal mio
lavoro nei campi profughi in Centro
America, dal mio studio con vari
insegnanti; ma soprattutto credo
che il motivo principale sia stato
la mia sofferenza personale. Ho
incontrato molto dolore e ho pensato
che, forse, aiutando la sofferenza
più grande degli altri,
avrei evitato la mia. La pratica
buddhista mi ha aiutato a non
sfuggire la sofferenza, a starci
insieme senza scappare lontano,
a fermarmi e imparare ad ascoltare.
Quando questo accade, si può
esplorare la propria vita, la
sofferenza che tutti abbiamo,
e naturalmente si comincia a capire
che la sofferenza degli altri
non è molto diversa dalla
nostra. Da questo momento di comprensione
nasce la compassione. E in modo
molto naturale nel buio ci avviciniamo
gli uni agli altri per darci la
mano. Succede proprio così.
È importante capire bene
la parola compassione: significa
soffrire con gli altri. La possiamo
praticare solo se ci siamo avvicinati
a noi stessi con una certa tenerezza.
Quando Gesù è nel
giardino di Getsemani dice ai
suoi Apostoli: "Restate qui
e aspettate". Non dice: "Portate
via la mia sofferenza, fermate
le circostanze, allontanate la
mia morte". Dice solo: "Restate
qui con me ed aspettate".
Ed è ciò che facciamo
con le persone che muoiono, restando
vicino a loro, presenti con loro
in quel momento. Aprendo il nostro
cuore alla loro sofferenza. Questa
è la base del nostro lavoro.
Quando cominciamo a vedere che
la sofferenza degli altri è
anche la nostra, allora anche
il modo in cui ci occupiamo di
loro vuol dire che è fondamentalmente
cambiato: non sono più
loro i sofferenti e noi i bravi
ragazzi, ma siamo tutti nella
stessa barca. Chi volete vicino
al vostro letto? Qualcuno a pagamento
o qualcuno che veramente apprezza
l’esperienza e condivide con voi
la vostra sofferenza? Il modo
in cui tocchiamo, in cui giriamo
il paziente nel letto, o come
gli mettiamo la mano sulla fronte,
può cambiare quando c’è
paura. Non vogliamo che la pratica
buddhista sia separativa, ma che
sia attiva nella nostra vita.
Il nostro lavoro non consiste
tanto nell’essere buddhisti, ma
essere dei Buddha! Non importa
avere la tonaca buddhista, ma
arrivare direttamente vicino alla
persona che soffre e incontrarla
con onestà. Faccio questo
lavoro perché lo amo, e
le persone con cui lavoro lo sanno,
si fidano di me.
A volte le persone si aprono e
sbocciano come fiori mentre stanno
morendo ed è un regalo
bellissimo per tutti noi. A volte
si girano verso il muro e non
tornano più. Non faccio
questo lavoro perché a
volte riesce bene, ma perché
lo amo. Aspettarsi una ricompensa,
cioè che la persona muoia
nel modo che noi vogliamo, è
il modo migliore per esaurirsi
e divenire sottilmente dei manipolatori,
finendo per sostenere i malati
in modo che muoiano come vogliamo
noi.
Le persone con cui lavoro a volte
vivono per strada e sono neri
mentre io sono bianco; hanno l’AIDS
e io no; si fanno di eroina e
io no; a volte vivono soli in
una scatola e io ho 15 acri di
terra intorno alla mia casa, in
un’area costosa. Ci sono molte
cose che ci separano eppure ci
ritroviamo su un terreno comune,
in un punto di incontro molto
intimo dove si manifesta la nostra
natura essenziale. Accade perciò
che la comunicazione diventi facile
e a quel punto tutti sappiamo
cosa fare, anche le persone che
leggeranno questo testo: tutti
abbiamo la capacità di
abbracciare la sofferenza di un
altro, lo abbiamo fatto per centinaia
di anni gli uni con gli altri,
ma lo abbiamo dimenticato. Dobbiamo
solo ricordarcene.
Siamo diventati così professionali
nel prenderci cura di noi, che
abbiamo paura; dobbiamo recuperare
questa attività che ci
fa incontrare gli altri. Occuparci
dei morenti sta diventando un
peso, un obbligo. Dobbiamo invece
vederla come un’opportunità
di risveglio. Penso che sia importante
fare una distinzione tra curare
e guarire. Anche quando non c’è
più la speranza di curare
la malattia, esiste sempre la
possibilità di guarire
lo spirito, di guarire la separazione,
la relazione tra noi e gli altri.
Alla fine, guarire significa rimuovere
le astrazioni che ci tengono separati
gli uni dagli altri e da noi stessi.
Il modo in cui possiamo aiutare
a guarire è prestare una
grande attenzione, e come esseri
umani abbiamo questa grande capacità.
Questo è quello che possiamo
fare gli uni per gli altri.
In America, nei negozi di roba
usata, c’è una targhetta
sui vestiti che dice: as is; vuol
dire: ‘così com’è’.
Non c’è garanzia, a volte
c’è una macchia o un piccolo
buco. Dovremmo girare con addosso
delle piccole etichette con su
scritte queste parole: ti prendo
come sei. Il più bel regalo
che possiamo fare a una persona
che muore è accettare la
sua esperienza totalmente, così
come è, qualunque sia la
sua faccia.
Frank Ostaseski sarà nuovamente in Italia, ospite della Rete di Indra, per un ritiro di meditazione "Abbracciare l’impermanenza" che si svolgerà a Pomaia presso l’Istituto Lama Tzong Khapa (tel. 050/685654) dal 21 al 25 giugno 2000. Maggiori informazioni sul prossimo numero o in questo sito alla voce Appuntamenti. |