Gli ultimi giorni nel braccio della morte di Jaturun "Jay" Siripongs
Intervista con il monaco Ajahn Pasanno
di Kathryn Guta e Dennis Crean


Jaturun "Jay" Siripongs, nato in Thailandia, fu condannato nel 1983 per l’assassinio di Pakawan "Pat" Wattanaporn, proprietario del mercato Garden Grove e del suo commesso Quach Nguyen.
Siripongs ammise la sua partecipazione alla rapina, ma negò di aver commesso gli omicidi. Rifiutò però di dire il nome del suo complice e perciò fu dichiarato colpevole e condannato a morte.
Sei giorni prima dell’esecuzione di Siripongs, il suo avvocato e amico Kendall Goh chiese al Monastero Abhayagiri di poter avere un consigliere spirituale buddhista per il condannato. Il vice abate di Abhayagiri, Ajahn Pasanno, chiese con urgenza, e due giorni dopo lo ottenne, il permesso di entrare nella prigione di San Quintino, dove passò tre giorni straordinari con Siripongs, gli ultimi tre giorni della vita di Jay. Jay Siripongs morì per iniezione letale il 9 febbraio 1999.
Varie testimonianze raccontano la profonda trasformazione spirituale di Siripongs durante il periodo di detenzione. Da giovane, Siripongs aveva preso i voti temporanei di monaco buddhista in Thailandia, pratica molto comune nella cultura thai. In prigione riprese la pratica meditativa a cui era stato addestrato in quel periodo di ritiro monastico e praticò con grande impegno. Sia le guardie che gli altri prigionieri riconobbero che la sua vita a San Quintino trascorreva serenamente e parecchie guardie sostennero la richiesta di grazia per Siripongs, alcuni anche in modo aperto. Perfino un ex-agente di San Quintino, Daniel B. Vasquez, appoggiò calorosamente la domanda affinché la sentenza di morte venisse commutata in ergastolo.

D: Come è successo che fosti chiamato ad assistere spiritualmente Jay Siripongs?
R: Jay doveva essere giustiziato il 17 novembre 1998. A quel tempo lo assisteva un pastore cristiano, una donna, che aveva già assistito a parecchie esecuzioni a San Quintino. Sebbene Jay conoscesse la donna da molti anni e le fosse affezionato, vi era una dinamica tra di loro che aumentava la sua ansia. A novembre, poche ore prima della prevista esecuzione, i due avevano parlato incessantemente per ore, per cui Jay non era riuscito a prepararsi e a pacificare la mente. Jay sapeva bene ciò di cui aveva bisogno per prepararsi a morire, ma a novembre non vi era riuscito. Poi, all’ultimo momento la corte federale aveva concesso un rinvio di altri tre mesi. Fu una fortuna non essere stato giustiziato in quel novembre, poiché in seguito capì meglio la sua situazione e le sue reazioni. Voleva che la sua morte fosse il più possibile serena e sapeva che per ottenerlo doveva lavorare su se stesso, internamente.
Per la seconda data dell’esecuzione, Jay era determinato ad affrontare la situazione da solo, per avere la possibilità di calmarsi e di concentrarsi nelle ultime ore di vita. Il suo amico Kendall Goth era preoccupato che Jay non avesse un adeguato aiuto spirituale e si offrì di cercare un monaco buddhista. Non fu una cosa facile per Jay cambiare consigliere spirituale: infatti incontrò difficoltà sia nel carcere che fuori e perciò andava molto cauto. Penso che la sua prudenza fosse giustificata e chiaramente l’ultima cosa di cui aveva bisogno giunto a quel punto era una serie di pie letture da parte di un monaco. Appena però ci incontrammo, riuscimmo a creare un contatto e lui fu molto felice di avermi lì.

D: Cosa si prova a essere il consigliere spirituale di un condannato a morte?
R: All’inizio, ero contento di poter essere d’aiuto. Poi pensai: "Sto entrando nell’inferno" ed ero un po’ teso. Vi erano così tanti cancelli, catene, metal detector e guardie! E poi un secondo metal detector, guardie che mi prendevano le impronte digitali e ancora altri cancelli, altre guardie. Eppure vi erano tante immagini contrastanti, come quando udii un carceriere chiamare dei bambini in visita con i loro nomi, come se li conoscesse.
Quando vidi Jay, mi parve diverso da tutte le altre persone prossime alla morte che avevo visto in passato. Jay era giovane e sano, nel pieno controllo delle sue facoltà mentali. Era acuto, intelligente e con molto talento. Era chiaro che aveva vissuto gli ultimi anni della sua vita in modo giusto. Sebbene avesse una catena intorno al corpo, manteneva una profonda dignità. Era gentile e abbracciava i suoi visitatori. L’intera situazione aveva un che di surreale. Sembrava tutto perfettamente normale, ma alla mezzanotte del prossimo lunedì questo essere umano sarebbe morto, sarebbe stato giustiziato.

D: Come era l’atmosfera, considerando che di lì a poco Jay sarebbe stato giustiziato? Era tesa?
R: No, veramente no. L’atmosfera era rilassata e per niente fosca. Talvolta ci impegnavamo a esaminare la mente in dettaglio, altre volte scherzavamo e ridevamo. Il primo giorno soprattutto, Jay si comportò da garbato padrone di casa: prima del mio arrivo aveva preparato per me una sedia a un capo del tavolo e all’altro lato del tavolo quelle per i suoi amici. Li aveva istruiti su come comportarsi con un monaco e aveva programmato di offrire un pasto. Disse che era la prima volta in venti anni che aveva l’opportunità di offrire del cibo a un monaco. Per rispondere alle domande poste dai suoi amici, parlai della teoria buddhista del risveglio, usando la metafora del fiore di loto. Parlai anche ampiamente sul significato del prendere i tre Rifugi - vedendo il Buddha come illuminato, il Dhamma come la verità e il Sangha come la concretizzazione di ciò che è bene. Jay era molto contento di poter udire parole di Dhamma e di poterle condividere con i suoi amici.
La cosa però che mi interessava di più era che Jay si prendesse cura della qualità della sua mente e non si lasciasse distrarre dal trauma che la sua morte imminente provocava nei suoi amici. Jay capiva la dinamica che si svolgeva intorno a lui; non cercava certamente di tenere contatti sociali per sfuggire all’agitazione o alla paura, riconosceva che solo lui era responsabile della propria stabilità. Quindi, sebbene si rendesse completamente disponibile per gli amici durante le ore di visita, il resto della giornata lo passava in meditazione, cominciando alle due o tre del mattino appena si svegliava.
Durante quei giorni precedenti l’esecuzione, incoraggiavo Jay a non lasciarsi distrarre. Aveva molta gente che veniva a trovarlo. Gli dissi che era meglio non farsi troppo coinvolgere da tutti quei visitatori. Kendall, la prima volta che ero venuto, mi aveva detto che Jay si comportava veramente bene, ma che gli altri stavano dando segni di cedimento. Era chiaro che Jay era entrato in profondo contatto con la vita di molta gente, che ora si radunava intorno a lui prima che morisse. C’era sempre sua sorella, Triya, e alcuni amici che lo consideravano la loro guida spirituale. Molti di loro erano avvocati, altri si erano convertiti al cristianesimo. Le loro richieste, le loro necessità erano diverse e Jay, con il suo buon cuore e la sua generosità, cercava di accontentarli tutti.

D: È vero che Jay era anche un ottimo artista?
R: Sì, Jay mi mostrò la sua cartella di disegni. Si era esercitato in vari campi artistici ed era chiaro che aveva del talento. Col passare del tempo aveva distribuito tutte le sue opere – più di 600 pezzi – agli amici e conoscenti. Jay usava l’arte come un mezzo per crescere e trasformarsi. Spesso usava le farfalle come simbolo della sua metamorfosi. Durante la detenzione aveva capito che la sua vita sarebbe finita in prigione; così aveva pensato: non posso continuare a odiare me stesso o gli altri.
Durante gli ultimi otto anni, Jay aveva subìto una profonda trasformazione ed era riuscito ad entrare veramente in contatto con se stesso. Mi disse che era stato in carcere a lungo e non poteva dire che fosse una cosa negativa. Sentiva che in prigione era riuscito a crescere in un modo che non sarebbe stato possibile se non si fosse trovato in circostanze così avverse e difficili. Aveva imparato a riflettere profondamente su ciò che poteva procurare benessere e chiarezza alla mente. Più si avvicinava il giorno dell’esecuzione, più aveva imparato a riconoscere ciò che impediva alla mente di progredire e dimorare nella pace. Si dedicò completamente ad avvicinare la mente alla verità.

D: E questo significava riprendere la meditazione buddhista?
R: Sì, Jay aveva imparato a meditare tanti anni prima, quando era stato monaco in Thailandia. Mentre era al monastero, durante la meditazione, aveva avuto una chiara visione di luce, ma quando aveva cercato di rivivere quell’esperienza, non vi era più riuscito.

D: Proprio come capita spesso in meditazione, di attaccarsi a ciò che è piacevole.
R: Sì. Lo presi un po’ in giro per questo. Jay però mi disse che tre settimane prima la luce era riapparsa. Questo fu molto incoraggiante, secondo me. Dato che Jay era un artista visivo, capii che avrebbe potuto usare la visione della luce come áncora al momento della morte. Lo guidai in meditazioni centrate sul respiro e sulla luce. Siccome il respiro sarebbe durato soltanto fino a quando l’iniezione avesse cominciato a fare effetto, gli dissi che ci sarebbe stato un momento in cui doveva lasciar perdere il respiro e focalizzare tutta l’attenzione sull’immagine della luce.

D: In che altro modo sei riuscito ad aiutare Jay nel suo lavoro interiore? Era spaventato dalla morte?
R: La prima sera che parlammo al telefono, gli chiesi: "In che stato è la tua mente?".
"Sono in pace", mi rispose. "Ho accettato quello che sta per accadere, ma ci sono ancora delle cose che voglio sapere". Essendo cresciuto in Thailandia, Jay credeva nella rinascita. Scherzando, diceva che voleva che le sue ceneri fossero sparse nell’oceano in modo che qualche pesce se ne potesse cibare, e qualche uomo potesse mangiare il pesce, creando così la probabilità di tornare velocemente nel regno umano per continuare il suo lavoro. Sapeva che solo la nascita nel regno umano dava la possibilità di imparare; era un luogo dove imparare il dolore e la gioia, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto. Il progresso e la comprensione erano il risultato delle scelte che uno aveva fatto. Jay aveva fatto alcune scelte molto sbagliate, ma ne aveva fatte anche alcune buone. Sentiva che aveva imparato molto dalla vita ed era determinato a rimanere sul sentiero del Dhamma nella prossima vita.

D: Hai mai parlato con Jay di queste scelte sbagliate, dei suoi delitti?
R: No, non abbiamo mai parlato specificamente del passato. Non c’era tempo a sufficienza. Ho preferito puntare sul suo benessere spirituale, sulla sua capacità di affrontare la morte con la mente calma e composta. Non mi sono rapportato a lui come a un condannato, ma come a una persona che stava di fronte alla morte.

D: Come furono le ultime ore con Jay?
R: Sei ore prima dell’esecuzione, il condannato lascia la famiglia e gli amici e viene condotto in una piccola cella accanto alla camera dell’esecuzione. Solo il suo consigliere spirituale lo può accompagnare. Inoltre ci sono sei guardie, dette la squadra della morte, in uno spazio molto ristretto, e di tanto in tanto si fa vedere anche lo psichiatra. Talvolta vi è un’atmosfera intimidatoria da parte delle guardie, proprio prima dell’esecuzione: parlano a voce alta o si rendono spiacevoli in altri modi. Per esempio, possono ascoltare la televisione ad altissimo volume, proprio a un metro dal condannato. Prima dell’esecuzione di novembre, era stato permesso a Jay di tenere un mala [un po’ l’equivalente buddhista del rosario, ndr] nella sua cella, ma prima di darglielo, una delle guardie lo aveva gettato a terra e calpestato sotto i piedi.
Dopo avermi perquisito accuratamente da capo a piedi, fui condotto in una di queste celle del braccio della morte. Lì venni separato da Jay e messo in una cella che comunicava con la sua solo in un angolo. Iniziai un canto protettivo per purificare e allontanare le energie negative. "Non ci faremo trascinare nel loro gioco", dissi a Jay. Avevamo deciso insieme che Jay avrebbe recitato la formula per chiedere i Tre Rifugi e i Precetti in Pali, ma sbagliò e richiese invece un insegnamento di Dhamma. Così tenni un discorso per lui e per le guardie.

D: Di che cosa hai parlato?
R: Ho raccontato la storia del Buddha subito dopo la sua illuminazione e di come non volesse insegnare perché riteneva che non vi fosse nessuno in grado di capirlo. Ho parlato della natura ingannevole del mondo umano e della liberazione del Dhamma. Ho parlato delle Quattro Nobili Verità, e di come il lasciar andare non significasse respingere. Ho istruito Jay su come prestare attenzione al sorgere della coscienza. Invece di volgere la mente verso ciò che porta alla sofferenza e alla rinascita, ho detto a Jay di preferire la rinuncia e una mente concentrata.
Approfondendo il lasciar andare e la rinuncia, abbiamo parlato del perdono nel contesto del "non-sé". Se non abbiamo perdonato, continuiamo a creare un’identità intorno al nostro dolore ed è questa che rinasce, che soffre. Ho chiesto a Jay: "Vi è qualcuno a cui non hai ancora perdonato?" e mentre parlavo pensavo al sistema, ai genitori, ad altri.
Jay ci pensò un po’ su. "Non ho perdonato a me stesso, in modo completo", disse infine, sottovoce. Era commovente. Nella sua memoria vi era la persona che in passato era stata coinvolta in scelte sbagliate, ma ora era un’altra persona. Gli è stato di grande conforto vedere che non era identificato con il ricordo di se stesso, che poteva lasciar andare quella persona che nel passato era stata coinvolta in tanti crimini.
È stato interessante anche vedere come le guardie sembrassero ascoltare ciò che dicevo e poi per tutta la serata furono molto gentili e sollecite con noi due.

D: Jay contava molto sui numerosi appelli alla clemenza che erano stati fatti in suo favore?
R: Non sembrava occuparsi un gran che di queste cose, della giustizia. Non aveva molte speranze sui risultati di quegli appelli e quando anche gli ultimi furono respinti, non ne fece un problema: "Accetto il fatto che sarò giustiziato", mi disse.

D: In che stato era la mente di Jay man mano che si avvicinava l’ora dell’esecuzione?
R: A un certo punto, Jay mi chiese: "Se io non sono il corpo, né i sentimenti, né la mente, allora cosa sarà liberato?". Gli dissi che quella domanda apparsa in quel momento nella mente non era altro che il sorgere del dubbio. Quando lasci andare tutto e sperimenti la pace e la chiarezza che sono inerenti al lasciar andare, non hai bisogno di dare nomi o identificare nulla.
Più tardi, Jay disse: "Nella mia mente ci sono due persone: io e te".
Gli dissi: "Devi liberarti di me. Io non verrò lì con te. E poi dovrai lasciar andare anche te stesso". Ridemmo di cuore su questa battuta.
Fondamentalmente, ho cercato di aiutare Jay a prepararsi per le distrazioni che ci sarebbero state durante l’esecuzione. "Ci saranno quelli che ti legano al lettino e ci sarà parecchia attività intorno a te", lo misi in guardia. "Devi stabilizzare la mente senza perderti all’esterno. Mantieni l’attenzione all’interno di te". Passammo l’intera serata meditando, recitando e parlando del Dhamma. In tal modo Jay, nell’ultima ora, era molto calmo e fu in grado di stabilizzare la mente sull’oggetto di meditazione. Verso la fine, tenemmo una cerimonia di condivisione dei meriti e di benedizione delle offerte, anche per le guardie. Dopo che l’ultimo appello era stato respinto, Jay mi pregò di fare alcuni canti per gli avvocati che si erano occupati del suo caso. Mantenne un’alta qualità di consapevolezza e attenzione fino alla fine.

D: Sei stato presente all’esecuzione?
R: No. Era una decisione presa prima che io vedessi Jay a San Quintino. Credo che, prima che ci incontrassimo, Jay avesse scelto di non avere nessuno accanto a sé durante l’esecuzione. Il giorno dopo lessi i giornali che scrivevano come egli fosse rimasto calmo durante l’esecuzione e avesse sempre tenuto gli occhi chiusi. L’ho trovato incoraggiante, perché ho capito che stava raccogliendo la mente.

D: Come ti sei sentito dopo l’esecuzione?
R: Ero grato di aver potuto incontrarlo, mi ha reso umile. Non ci si può impedire di pensare a cosa avrebbe fatto uno di noi in una simile circostanza: riferirsi alla propria morte non come a qualcosa di astratto, proiettato nel futuro, ma sapendo bene che alle 12.01 del mattino sarai definitivamente morto.

D: C’è stato un funerale?
R: Il giorno dopo, Jay fu cremato con una cerimonia privata. Al crematorio, incontrai sua sorella, Triya. Il corpo di Jay giaceva in una scatola di cartone. Quando Triya chiese alla direttrice di poter vedere il fratello, le fu risposto che non era possibile. Non sapevo nulla di ciò, per cui pregai la direttrice di alzare il coperchio della scatola. Lo fece piuttosto esitante. Il corpo di Jay era chiuso in un sacco di plastica. "Ci deve essere una cerniera", dissi. La donna guardò e disse che la cerniera era in fondo, vicino ai piedi. Ebbe ancora un attimo di esitazione. Disse che probabilmente Jay era nudo. "Ci saranno pure delle forbici da qualche parte. È solo un sacco di plastica!", dissi. La donna si munì di forbici e tagliò il sacco all’altezza delle spalle e della testa.
Mi fece una grande impressione vedere il suo corpo. Aveva un’espressione serena sul viso, e come una luminosità sulla pelle. Non era affatto scuro o cereo. Sembrava che sulle labbra corresse un lieve sorriso. È stato molto bello vedere che era morto in pace. Dopo tutto ciò che era successo, la fine era stata confortante.


Dalla rivista Fearless Mountain
del Monastero Abhayagiri.
Traduzione di Silvana Ziviani.



Ajahn Pasanno, di origine canadese, è stato discepolo di Ajahn Chah, per 12 anni e poi abate del Monastero Internazionale in Thailandia. Attualmente è il co-abate del monastero Abhayagiri, in California.
(www.abhayagiri.org)