Consacrarsi alla pace in un'epoca di guerra
di Alan Senauke


Vegliando o dormendo
in una capanna di foglie
la mia preghiera
è portare gli altri
all’altra sponda
prima di me.

Il Maestro Zen Dogen


IL VASTO MONDO È UNA SALA DI MEDITAZIONE.

La prigione di San Quentin è situata su una nuda lingua di terra nella baia di San Francisco. È qui che lo Stato di California uccide i condannati a morte. C’è ancora la camera a gas, ma negli ultimi cinque anni le esecuzioni sono state compiute con un’iniezione letale in un ambiente falsamente clinico, che imita con crudeltà una stanza di ospedale. Cinquecento diciassette uomini e dieci donne aspettano in fila la morte in California, spesso per quindici o vent’anni. Il voto pubblico sostiene questa violenza sancita dallo Stato. Di fatto, nessun politico può venir eletto alla più alta carica in California se non sostiene la pena di morte.
Una sera temporalesca di marzo, alcune centinaia di persone si sono ritrovate per una veglia e un raduno di protesta per l’esecuzione di Jay Siripongs, un buddhista tailandese, dichiarato colpevole di omicidio nel 1983 a Los Angeles. Pioggia torrenziale e vento gelido infuriavano su quelli che si erano riuniti alle porte del carcere: oppositori alla pena di morte, un gruppetto di sostenitori della pena di morte, la stampa, le guardie della prigione e proprio a ridosso dell’entrata, con lo sguardo fisso ai muri di pietra del San Quentin, più di settantacinque studenti e meditanti Zen per portare testimonianza dell’esecuzione, seduti in mezzo alla rabbia, all’angoscia, alle parole che fanno male e alle azioni che fanno ancora più male. La mia tunica era tutta inzuppata e il mio cuscino di meditazione stava in una pozzanghera che diventava via via più profonda. Al di là di un reticolato di ferro, a tre metri di distanza, quindici guardie, munite di elmetto, stavano in piedi in fila sotto la pioggia e la pioggia cadeva su di loro con la stessa forza con cui cadeva sopra di noi. Provai un attimo di profonda connessione: studenti di Zen in tunica nera seduti a schiena dritta, immersi nell’attenzione, sotto la pioggia, esseri che offrono protezione nel migliore dei modi che conoscono; poliziotti in giubbotto nero, esseri che danno protezione nel modo che loro conoscono. C’è una differenza nelle attività e nella mente degli studenti di Zen e delle guardie del carcere? Sì, certo. Ma riconoscere l’unità, anche nel mezzo della diversità e dell’agitazione, è l’essenza di un costruttore di pace. E immagino che ci fossero guardie che hanno avvertito la stessa consapevolezza.
La nostra testimonianza al San Quentin fa parte di un grande voto che assume chi si dedica allo Zen. Portare testimonianza è l’atto radicale di completa accettazione e di non dualità del Bodhisattva. La mia personale comprensione dell’insegnamento Zen di Dogen mi ha portato alla resistenza attiva e alla trasformazione sociale. Faccio voto di portare testimonianza dove si svolge la violenza. Faccio voto di riconoscere la possibilità umana della violenza dentro la mia mente, riconoscendo le condizioni che fanno sorgere l’avidità, l’odio e la confusione dentro di me.
Prendo sincero rifugio nel Buddhadharma, e cerco di risolvere i conflitti. Faccio voto di non impugnare mai più un’arma per rabbia o complicità con lo Stato o con qualsiasi cosiddetta autorità, ma di intervenire attivamente e non-violentemente per la pace, anche quando questo può mettere a rischio il mio corpo e la mia vita.
Chi vuole prendere insieme a me questo voto? Sono veramente pronto? Voi lo siete? Nello zendo continuiamo ad offrire voti sentiti con sincerità. In quello spazio sacro Dogen e tutti gli antenati buddha sono con noi. So che può sembrare una forzatura descrivere Dogen o Shakyamuni Buddha come buddhisti impegnati, ma tutti gli antichi buddha ci insegnano che il dharma è la nostra stessa esperienza. Risvegliamoci a ciò che c’è di salutare nel mondo. Ricreiamo il buddhismo per questa epoca, questo posto, queste circostanze. In questo spirito possiamo levare le nostre voci in un voto che è in armonia con il nostro tempo. Che noi possiamo realizzare nell’azione il nostro voto e fare un passo avanti dalla cima di un palo alto trenta metri.

PORTARE NEL MONDO LA REALIZZAZIONE.

Meditando sulla pace, echi di Dogen risuonano nelle mie orecchie. Nel Bodaisatta Shisho-Ho (I quattro metodi guida del Bodhisattva), Dogen scrive:
"Dovresti essere equamente di beneficio all’amico come al nemico. Dovresti essere di beneficio a te stesso come agli altri". Nello stesso fascicolo spiega: "È difficile cambiare la mente di un essere senziente. Dovreste continuare a cambiare la mente di un essere senziente, dal suo primo bagliore fino a quando realizzi la via". Maneggiando le parole come la spada della saggezza discriminante di Manjusri, il linguaggio radicale di Dogen taglia penetrando fino al cuore della pace, anche nella nostra epoca di aspra conflittualità sociale e di manipolazione politica. Il nome del tempio in cui visse Dogen, Eiheiji, significa ‘tempio della pace eterna’. Il mondo del tredicesimo secolo di Dogen è diverso dal nostro, ma i conflitti e le pieghe del karma degli esseri che soffrono sono gli stessi.
Meditando sulla pace, ascolto anche voci che appartengono alla mia epoca, maestri Zen che cercano incessantemente di cambiare la mente degli esseri senzienti. Tre di queste voci sono qui oggi, nel corpo o nello spirito.
Alla fine degli anni ’60 gli Stati Uniti ingaggiarono una guerra illegale in Vietnam, mentre la repressione degli afro americani, dei popoli latini, degli indiani e dei giovani arrivava in patria al culmine della violenza. Ritornato dopo dieci anni passati in Asia, Gary Snyder pubblicò un articolo intitolato Il buddhismo e la prossima rivoluzione che ancora oggi è radicale e del tutto pertinente. Propone delle condizioni per una pratica di buddhismo impegnato per la pace a cui tuttora cerchiamo di tener fede. Scrive Gary:
"...Il buddhismo istituzionale si è dimostrato ampiamente disposto ad accettare o ad ignorare le ingiustizie e le tirannie di qualsiasi sistema politico sotto cui si trovi a vivere. Questo può decretare la morte del buddhismo, perché è la morte di ogni significativa funzione della compassione. La saggezza senza compassione non sente il dolore... Il dono dell’Occidente è stata la rivoluzione sociale; il dono dell’Oriente è stata la consapevolezza intuitiva del fondamentale vuoto del sé. Abbiamo bisogno di entrambe. Sono entrambe presenti nei tre aspetti tradizionali del sentiero del Dharma: saggezza (prajna), meditazione (dhyana) e moralità (sila). La saggezza è la conoscenza intuitiva della mente d’amore e della chiarezza che sta sotto le ansie e le aggressioni sollecitate dall’ego. La meditazione è entrare nella mente per vedere tutto questo in se stessi ancora e ancora finché esso non diventi la mente in cui vivi. La moralità si riflette all’esterno nel modo in cui vivi, attraverso l’esempio personale e l’azione responsabile, e infine verso la vera comunità (sangha) di ‘tutti gli esseri’. Quest’ultimo aspetto significa per me appoggiare ogni rivoluzione culturale ed economica che mira a un mondo libero, internazionale e senza classi".
Tetsugen Glassman ci invita a un grande pranzo insieme a tutti gli esseri affamati. La sua visione è ampia quanto i sei mondi: offrire cibo alle persone che vivono sulla strada, insegnare zazen a quelli che hanno bisogno di nutrimento spirituale, nutrire gli innumerevoli spiriti famelici. Gli spiriti famelici sono dentro e intorno a noi. Tetsugen porta i suoi studenti fuori, nelle aspre strade della città, perché possiamo provare a sentire com’è essere senza casa. Le persone senza casa non sono altri, diversi da noi. Egli attrae uomini e donne di fedi diverse a portare testimonianza sui campi di sterminio di Auschwitz, dove gli spiriti famelici delle vittime e dei carnefici stanno ancora urlando per essere riconciliati. È Avalokitesvara che ascolta le urla del mondo e si prepara a portare gli altri all’altra sponda prima di se stesso.
Ascolto la voce paziente del mio maestro radice, Sojun Weitsman, la cui personale, ostinata costruzione di pace è insieme calma e profondamente rischiosa. Dogen fa appello al principio della ‘pratica di illuminazione’. Quello che ho imparato della pratica di illuminazione da Sojun è che l’illuminazione e lo sviluppo personale non sono due cose separate, che la saggezza e la morale si sostengono a vicenda. È un concetto radicale, perché arriva alla radice di come pratichiamo nel mondo, salvando gli esseri. Ho osservato Sojun continuare ostinatamente a lavorare a questa verità per anni: costruendo un altro sangha a Berkeley, aiutando a guarire vecchie ferite al centro Zen di San Francisco e trainando una vasta cerchia di persone che collega il Soto zen in Oriente e in Occidente.
Parlando con i suoi studenti più anziani, recentemente Sojun Roshi ha detto che, dovunque ci sia sofferenza umana, noi dovremmo prima di tutto semplicemente prestare aiuto alle persone, includendo noi stessi, prima di biasimare sistemi e organizzazioni, anche quando tali sistemi vadano davvero cambiati. I sistemi politici, sociali, ed economici sono creati da esseri umani come noi. Nell’affrontare le strutture che perpetuano gravi danni cerco di vedere tutte le persone che collaborano a creare queste strutture. Perché il mio cuore di saggezza e di compassione possa aprirsi più facilmente, devo riconoscere ed ammettere la mia propria capacità di procurare sofferenza.
Queste ed altre voci si intrecciano nei miei sogni. Ognuna a modo suo sostiene che la pace, o il non-conflitto, ha bisogno di indipendenza, inter-dipendenza e dedizione al voto. L’espressione politica di questa posizione dharmica sta nella non-collaborazione e nella non-complicità con alcun sistema, governo, o organizzazione che causi danno o impedisca l’armonia, anche quando tale sistema cerchi di occultarsi o ci inganni o ci metta a tacere con privilegi e miraggi.
Il sogno della pace e la pratica della pace sorgono nella guerra e nel conflitto. In ogni epoca, la guerra costringe a seppellire il cuore e ad agire con inimmaginabile crudeltà. Nessun altro animale è capace di simile crudeltà. Viene bombardato un ospedale o un’ambasciata. I responsabili alzano le spalle. "Un incidente" dicono. Mine terrestri e ordigni esplosivi dall’aria innocua vengono disseminati in molti territori. I morti sono per lo più civili. Le case vengono sistematicamente distrutte. I rifugiati vengono costretti ad attraversare le frontiere sotto la minaccia delle armi. Le donne sono oggetto di stupro. Sto parlando della situazione attuale, proprio ora, in una dozzina di posti sparsi per il mondo. Ho visto con i miei occhi queste cose. I dettagli peculiari, il colore e la forma delle vittime, degli eroi e dei carnefici, il paesaggio, cambiano, ma la faccia della guerra è sempre brutta. Le vittime hanno bisogno del nostro aiuto. Come pure i carnefici.
"È perché c’è una base che esistono piedistalli di gemme e begli ornamenti". È il grande insegnamento sull’originazione dipendente di Shakyamuni Buddha: perché c’è questo, esiste quest’altro. È un fatto incoraggiante in un’epoca di guerra. Ma se penso alla pace come a qualcosa che è possibile descrivere e tenersi stretto, se creo un concetto di qualcosa chiamata pace e mi ci aggrappo, sorgono le condizioni per la guerra. Dogen insegna che c’è una pace al di sotto e al di là della nostra ordinaria nozione di pace e che zazen è contemporaneamente la porta a questa pace e la sua espressione. Il lavoro dello Zen e il sogno della pace nel mezzo del dolore e del conflitto non sono due cose separate.
Allora, qual è il nostro compito?

DARE.

Permettetemi di offrirvi tre approcci alla costruzione di pace buddhista: dare, assenza di paura, e rinuncia. La pratica essenziale della pace è dare, dana paramitta. Dare la propria attenzione, amicizia, e aiuto materiale. Dare insegnamenti spirituali, costruire comunità, organizzare. Dare è la prima delle perfezioni e il primo dei quattro metodi guida del Bodhisattva. Include tutte le altre perfezioni.
Nel Bodaisatta Shisho-Ho Dogen raccomanda:
"Dare vuol dire non essere avidi. Non essere avidi vuol dire non bramare. Non bramare significa non cercare di ingraziarsi nessuno. Anche se sei al governo dei quattro continenti, dovresti sempre trasmettere il corretto insegnamento con non avidità. Vuol dire dare quello che hai di superfluo a chi non conosci, offrire fiori che sbocciano su una remota montagna al Tathagata, o, ancora, offrire tesori che hai avuto in una vita precedente agli esseri senzienti. Ogni regalo, che sia un insegnamento o un bene materiale, ha il suo valore ed è degno di essere dato".
Dare inizia da se stessi. Do me stesso alla pratica e la pratica offre se stessa a me. Nella mia ricerca della pace e della liberazione, scopro che c’è sempre l’odore della guerra. Il sapore delle lacrime, il dubbio che corrode, il decadimento sono inclusi nell’orbita del mio corpo e della mia mente. La guerra è qui, proprio dove mi nascondo dietro una maschera di attaccamento al sé, una difesa fatta di privilegi, separandomi dagli altri. L’autentico dare è ricevere il dono della mente di zazen e trasmetterla agli altri con le parole e le azioni. Significa non nascondersi.
Offriamo doni e guida in varie forme. I quattro metodi guida di Dogen nel Bodaisatta Shisho-Ho, dare, parola gentile, azione benefica, e azione-identità, si sviluppano sull’insegnamento della pace del Buddha stesso, chiamato in pali sangha vatthu o i fondamenti per l’unità sociale: dana, generosità; piyavaca, parola gentile; atthacariya, azione giovevole; e samanattata, imparzialità o partecipazione equanime. Al centro di questi insegnamenti c’è la comprensione che la pace crea connessione. Al livello più semplice, vengono offerti beni materiali. A un livello più elevato, viene condiviso l’insegnamento. E al livello massimo, c’è solo la connessione, l’eterna società dell’essere, la vasta assemblea dei Bodhisattva. Nel meraviglioso libro di Lewis Hyde, The gift, egli descrive una cena in un modesto ristorante nel sud della Francia:
"Gli avventori siedono a un lungo tavolo comune e ognuno ha davanti al suo piatto una bottiglia di vino a buon mercato. Prima di iniziare a mangiare, un uomo versa il suo vino non nel suo bicchiere, ma in quello del suo vicino. E il suo vicino restituirà il gesto, riempiendo il bicchiere vuoto del primo uomo. In senso economico, non è successo niente. Nessuno ha più vino di quanto ne avesse all’inizio. Ma è comparsa una società dove prima non c’era niente".
Lo stesso regalo è un regalo solo finché circola. Un monaco o una monaca portano di casa in casa una ciotola vuota, o siedono nello zendo con le ciotole oriyochi disposte in ordine sulla corteccia di quercia. La ciotola è il vuoto, tuttavia in questo mondo materiale viene offerto il cibo perché si possa vivere. Il vuoto e la forma interagiscono e danzano. Dopo aver mangiato, il monaco o la monaca trasformano il cibo in azione e in pratica, facendolo tornare al vuoto dell’interdipendenza e della connessione, che di nuovo viene offerta per nutrire tutti gli esseri. La danza della pace continua.
Quando incarniamo realmente il voto del Bodhisattva di salvare tutti gli esseri senzienti, allora zazen è un dono silenzioso che trasforma. Lo riceviamo con gratitudine dagli antenati buddha e da tutti i nostri insegnanti umani, e lo trasmettiamo. Ancora Lewis Hyde:
"Vorrei parlare della gratitudine come di un lavoro intrapreso dall’anima per realizzare la trasformazione, dopo aver ricevuto un dono. Nell’intervallo di tempo che passa tra il ricevimento del regalo e la sua trasmissione, proviamo gratitudine. Inoltre, con i doni che sono portatori di cambiamento, è solo quando il regalo ha lavorato in noi, solo quando ci eleviamo al suo livello, per così dire, che possiamo darlo via di nuovo. Passare il dono ad altri è l’atto di gratitudine che conclude il lavoro. La trasformazione non è compiuta finché abbiamo il potere di dare il dono alle nostre condizioni".
Durante il recente bombardamento NATO in Serbia, un mio amico propose che gli Stati Uniti offrissero quattro anni di educazione universitaria in America, eventualmente anche qui a Stanford, a ogni giovane serbo e albanese in età di leva militare. Questa possibilità li provvederebbe di strumenti intellettuali e tecnici per la pace. Sarebbe molto più economico dei bilioni di dollari che spendiamo in armamenti e in morte.
Gli Stati Uniti (e su loro mandato le Nazioni Unite) hanno imposto aspre sanzioni all’Iraq per circa un decennio. L’Iraq è stato bombardato tanto assiduamente nell’ultimo anno che i bombardamenti non fanno più notizia. Sette milioni di bambini e di vecchi sono morti per mancanza di medicine e cibo. I negozi sono deserti, le farmacie vuote. E se offrissimo alla gente in Iraq tutto il cibo e le medicine di cui hanno bisogno? Cosa ci perderemmo se seguissimo una politica di generosità, o dana, anziché una politica di minaccia e di violenza verso gli innocenti? Quali sarebbero gli effetti politici? Quali risultati karmici ne risulterebbero? Ancora una volta, sarebbe molto più economico che bombardare.
Sicuramente, queste sembreranno proposte ingenue. Falliscono, tenendo conto del potere dei mercanti di armi, dell’avidità delle società per azioni, e delle paure dei politici che vengono vendute come verità alla gente comune.
Ma non dovremmo avere il coraggio di essere ingenui? Cosa ci si perde a dire verità ovvie? Possiamo spiegare ragionevolmente la verità di dana a quelli che sono al potere? Possiamo aiutarli ad aprire gli occhi sull’inutilità della guerra? C’è sempre un sentiero di pace.

L'ASSENZA DI PAURA.

La pratica della pace è senza paura. Questo ci riporta di nuovo a dana, dare e cedere. Per dare qualcosa a un nemico o a un avversario, bisogna essere senza paura. C’è una storia nel "La Caverna della Tigre" che mi ha accompagnato per anni.
Quando un esercito ribelle arrivò per setacciare una città della Corea, tutti i monaci del tempio Zen, tranne l’abate, fuggirono. Il generale entrò nel tempio, seccato che l’abate non lo ricevesse con rispetto, urlò: "Non sai, che hai davanti un uomo che può trafiggerti senza battere ciglio?".
"E tu", replicò saldamente l’abate "hai davanti un uomo che può lasciarsi trafiggere senza battere ciglio". Il generale lo fissò, fece un inchino, e se ne andò.
Gli antichi racconti del Jataka, che derivano a loro volto dal folklore indiano ancora più antico, raccontano le precedenti vite da bodhisattva di Shakyamuni Buddha. In essi, assenza di paura e generosità sono strettamente intrecciate. Un principe offre il suo stesso corpo per nutrire una tigre femmina. Un pappagallo spegne un incendio nella foresta, scuotendo l’acqua del fiume dalle ali, finché gli dèi sono mossi a pietà. Una lepre si sacrifica per fare da pasto a Shakra, re degli dèi, che si era travestito da mendicante. Sempre di nuovo, il futuro Buddha dona il suo sforzo estremo e la sua stessa vita per amore degli altri esseri bisognosi. Scrive Dogen: "...nel mondo umano il Tathagata assunse la forma di un essere umano. Da questo deduciamo che fece lo stesso in altri reami".
La pace non è fatta solo di parole serene e di un comportamento gentile. In essa c’è l’acciaio e la forza e il vigore. Penso spesso a Maha Ghosananda in Cambogia, che semplicemente decide di attraversare camminando il suo paese immerso in una violenta guerra civile. La sua tunica color zafferano è sia un rifugio che un bersaglio. Penso anche a Thich Nhat Hanh, che Richard Baker descrisse come "un incrocio tra una nuvola e un pezzo di armamento pesante". Incontrando questi ispiranti maestri, si può avvertire nel cuore delle loro azioni l’acciaio dell’intenzione.
In zazen entriamo in intimità con tutti i tipi di paura. Una paura molto personale. Arriviamo a capire che temere la morte o una grave perdita non è molto diverso da temere più umili eventi, come incontrare il proprio insegnante faccia a faccia, celebrare una nuova cerimonia, o semplicemente sedere in silenzio. È la paura stessa a offrirci un’apertura al non conosciuto. Se continuiamo a costruire la pace nella consapevolezza della nostra paura, c’è spazio perché svanisca la paura di chiunque. Nasce un reciproco rispetto.

LA RINUNCIA.

Un terzo elemento per costruire la pace è la rinuncia o l’abbandono. Naturalmente, anche questo è inseparabile dal dare. Scrive Dogen: "Se studi profondamente il dare, scopri che accettare un corpo e rinunciare al corpo sono entrambi dare". Nel Shobogenzo Shoji, egli ci esorta: "Accantona il corpo e la mente, dimenticali, e buttati mente e corpo nella casa del buddha". Ma oggi la rinuncia è un principio difficile per chi pratica lo Zen. Tristemente, il sentiero dello Zen dell’attuale mondo materialista dà un’adesione meramente formale alla rinuncia. Dopo aver lasciato cadere corpo e mente, il duro lavoro di lasciar andare le cose non è che all’inizio.
Il secondo precetto del Bodhisattva è non rubare o non prendere ciò che non è dato. Per gente come noi, del cosiddetto mondo a sviluppo avanzato, America, Europa, Giappone, è quasi impossibile. Molti di noi, anche preti, conducono vite privilegiate in paesi ricchi, le cui economie si fondano sul ladrocinio delle risorse limitate del nostro pianeta e sul duro lavoro dei popoli poveri di tutto il mondo. L’ingiustizia della povertà e della ricchezza è già di per sé una forma di violenza. Ogni volta che viaggiamo in macchina o in aereo, ogni pasto che consumiamo al ristorante, ogni articolo di alta tecnologia che compriamo, ci rende complici della violenza. Stiamo rubando. Proprio non possiamo stare in disparte o uscire da questo sistema. Ma se ognuno di noi coltivasse la consapevolezza dei legami tra consumo e violenza, potremmo cominciare a fare delle scelte riguardo a quanto ha veramente valore nella nostra vita e quanto valutiamo le vite degli altri. Solo a quel punto l’abbandono, la rinuncia è possibile. Ma è necessario che i nostri sforzi vadano oltre.
In un recente articolo sul New York Times Magazine, il filosofo e moralista Peter Singer costruisce un’argomentazione accorata e convincente a favore della rinuncia radicale per il suo pubblico di lettori della classe media, come molti di noi. Scrive: "Nel mondo quale è oggi non vedo alternativa alla conclusione che ognuno di noi con un sovrappiù di ricchezza, rispetto ai suoi bisogni essenziali, dovrebbe darne la maggior parte per aiutare le persone che vivono in una povertà così atroce da averne minacciata la vita. È così: sto proprio dicendo che non dovreste comprare la macchina nuova, fare quella crociera, ridipingere la casa, o prendere quel costoso abito nuovo. Dopo tutto un abito da 1000 $ (o un assortimento di vestiti costosi) potrebbe salvare la vita di cinque bambini".
Un’antica massima quacchera dice: "Dì la verità al potere". La verità è che le organizzazioni mondiali e le nazioni armate promuovono il furto e l’oppressione nel mondo. Nascondendosi dietro l’anonimato delle sigle e delle insegne, le società distorcono il principio del dharma dell’interdipendenza in uno strumento di manipolazione e di avidità, e la religione organizzata raramente lo mette in questione. O se solleva la questione, quasi mai ingaggia una sfida decisiva. In effetti, le religioni organizzate approfittano spesso degli investimenti e del sostegno diretto e indiretto del governo. Quindi, la nostra responsabilità come rinuncianti va ben al di là della personale rinuncia. Dovremmo unirci gli uni agli altri, nello stesso modo in cui siamo gli uni con gli altri e ci sosteniamo nello zendo, per demolire le istituzione fondate sull’avidità, l’odio, e la confusione, e costruire nuove strutture volte alla liberazione e ispirate a valori spirituali che appartengano a tutti, non solo a presidenti, generali, milionari e padroni.
Questi nuovi legami e nuove strutture assumeranno diverse forme. L’ambito del sangha può fare da modello per i nostri posti di lavoro e per le fabbriche. La nostra società civile deve essere costruita sul mutuo rispetto, sulla pazienza e la partecipazione, anziché sull’oro e l’argento. Onestamente, non so come sarà, ma sento che è responsabilità della comunità Zen e di tutte le comunità di fede, essere presenti proprio al cuore delle cose.
Finché non iniziamo a lasciar andare la nostra egocentricità e i nostri desideri, non possiamo veramente ascoltare o parlare agli altri di pace. Non riusciremo a capire che, di fatto, non esistono gli "altri". Le persone che rischiano la vita o vivono in povertà hanno il naso fino per distinguere l’ipocrisia dall’onestà. Non possiamo chiedere ai poveri e agli oppressi di fare sacrifici, quando ci vedono proteggere le nostre vite costruite sulla comodità e il privilegio, quando sosteniamo sconsideratamente intere nazioni fondate sul privilegio. Rinunciare al privilegio, al privilegio maschile, al privilegio bianco, al privilegio di classe, al privilegio nazionale, è la pratica di rinuncia di un buddhismo socialmente impegnato. È spesso più facile che siano gli altri a vedere i nostri privilegi, mentre noi ci gironzoliamo dentro da ciechi. Aprire il nostro occhio dharmico implica la rinuncia ai privilegi, nessun divario tra sé e l’altro. Dal punto di vista del privilegio sembra un sacrificio, ma da quello della pratica è semplicemente lasciar cadere il privilegio per compassione degli altri e di se stessi. Shunryu Suzuki scrisse: "Rinuncia non è dar via le cose del mondo, ma accettare che se ne vadano".

UN ESERCITO DI PACE.

Shakyamuni Buddha cercò di prevenire una guerra imminente tra gli antichi stati di Magadha e Kapilavattu, patria del suo stesso clan Shakya. Usò la logica e la persuasione, e alla fine sedette in zazen sotto un albero morto, al margine del campo di battaglia:
"...Siccome faceva molto caldo, [il re di Magadha] non riusciva a capire perché il Buddha sedesse sotto un albero morto; di solito la gente si siede sotto rigogliosi alberi verdi. Perciò, il re chiese: ‘Perché siedi sotto un albero morto?’. Il Buddha rispose con serenità al re: ‘Sento fresco anche sotto questo albero morto, perché cresce vicino al mio paese d’origine’. Queste parole straziarono il cuore del re, che rimase così colpito dal messaggio del gesto del Buddha da non poter più procedere. Anziché attaccare, fece ritorno al suo paese. Ma l’attendente del re non smise di incoraggiarlo ad attaccare ed egli finì per ascoltarlo. Questa volta, sfortunatamente, Shakyamuni Buddha non ebbe il tempo di fare alcunché. Senza dire una parola, rimase fermo ad osservare la distruzione del suo paese e della sua gente".
Il tentativo del Buddha di fermare la battaglia fallì, perché, come scrisse Dogen: "La mente di un essere senziente è difficile da cambiare". Questo fallimento deve avergli causato un terribile dolore, pari alla nostra sofferenza per i campi di sterminio del mondo moderno. Ma il suo sforzo di costruire la pace partendo dal terreno della sua stessa mente è una grande lezione. Il punto non è il successo o il fallimento. Il nostro cuore e le nostre azioni compassionevoli hanno un effetto al di là del successo e del fallimento, anche se non sempre possiamo vedere questo effetto.
I buddhisti impegnati e le persone di tutte le tradizioni di fede vogliono creare un esercito nonviolento di pace, quello che Gandhi chiamava un santi sena. È un aspetto su cui si è seriamente discusso la scorsa primavera al fondamentale raduno dell’Aia, Appeal for Peace. Quante vite si sarebbero potute risparmiare in Serbia e in Kosovo se avessimo messo a disposizione diecimila testimoni anziché bilioni di dollari di bombe? Quante persone ne trarrebbero beneficio, se ci opponessimo alla corruzione, alla violenza, al traffico di droga nel territorio in cui viviamo? La pratica gandhiana di "nonviolenza attiva" include il portare testimonianza e l’intervento pacifico. Nelle guerre e nei conflitti locali, regionali, religiosi e nazionali, un esercito di pace potrebbe sostituire i soldati armati, le mine di terra, i carri armati, i caccia a reazione.
Gli strumenti di un esercito della pace sarebbero orecchie per ascoltare, parole per condividere, braccia per abbracciare, e corpi in postazione per opporsi all’ingiustizia. Quest’esercito avrebbe una formazione in meditazione, riconciliazione, e generosità. La sua disciplina includerebbe la pazienza, l’equanimità, l’altruismo, e una profonda comprensione dell’impermanenza. Il suo "centro di addestramento reclute" sarebbe molto diverso da quello del nostro esercito o dall’addestramento della marina, ma altrettanto rigoroso in tutto e per tutto. La sua organizzazione sociale includerebbe lo stanziamento di cibo, medicine, vestiti, da condividersi con gli altri da ogni lato del conflitto.
Un esercito di pace può mettersi a sedere sul campo di battaglia, proprio in prima linea per salvare gli altri affrontando lo stesso pericolo dei soldati e dei civili. È necessario assumersi dei rischi nella pratica Zen. E anche nel costruire la pace è necessario assumersi dei rischi. Penso a questo aspetto come a un’autentica espressione dell’azione di identità: immedesimarsi con i soldati, i guerriglieri, con i profughi, identificarsi con la terra stessa bombardata e mandata a pezzi. È un suicidio? Forse. È come il gesto di Thich Quang Duc, che si immolò pubblicamente in Vietnam nel 1963, quando i suoi compagni monaci e monache vennero designati come bersaglio della repressione, e il suo paese era in fiamme. Ma il suo scopo era la pace, non il suicidio. Il gesto di Quang Duc sconvolse il mondo risvegliandolo alla consapevolezza della sofferenza del Vietnam.
Samanattata o azione-identità, come la traduce Dogen, è il principio informatore dell’addestramento dell’esercito della pace. Il nazionalismo, lo sciovinismo e i metodi politici tradizionali sono radicati nella separazione e nell’identità egoica, ma l’azione di identità significa rendere personale la non separazione e l’interdipendenza. Tutti gli esseri desiderano la felicità, l’agio e la liberazione. Qualsiasi odio possa vedere nel mio nemico o nel mio oppositore esiste simultaneamente in me, talvolta come un contenuto potenziale e talaltra come una presenza ripugnante. Lo stesso vale per il bene. Questa comprensione non è limitata al buddhismo. Risplende negli insegnamenti di Gesù, di Gandhi e di Martin Luther King, che hanno tutti predicato l’amore nelle peggiori circostanze.

I BODHISATTVA SONO IN MEZZO A NOI.

I bodhisattva sono in mezzo a noi. In ogni singolo respiro ognuno di noi può diventare un essere illuminato. Nel prossimo respiro possiamo cadere nelle nostre vecchie abitudini di sconsideratezza e di violenza. Zazen rivela che la scelta è sempre con noi. Le nostre azioni confuse e potenzialmente nocive contengono semi che possono sbocciare nella meraviglia della pace o in un terribile danno. La nostra visione può dare sostegno al mondo se solo osiamo guardare in profondità. Il nostro grande antenato, Layman Vimalakirti, così descrisse il sentiero del Bodhisattva:

Durante i brevi eoni delle armi
Meditano sull’amore
Iniziando alla nonviolenza
Centinaia di milioni di esseri viventi.

Nel fuoco di grandi battaglie
Rimangono imparziali verso entrambi gli schieramenti;
Per bodhisattva di grande valore
Delizia è la riconciliazione del conflitto.

Per poter aiutare gli esseri viventi,
Discendono volontariamente
Negli inferni che affiancano
Tutti gli straordinari campi-di-buddha.


Duemila anni dopo, teniamo ancora fede a questa sfida, venendone meno e facendone di nuovo voto. Prendiamo seriamente i nostri voti e diveniamo bodhisattva. Rispettiamo la tradizione Zen e i buddha antenati, ma rendiamoci sinceramente responsabili verso tutti gli esseri ora e nel futuro. Portiamo pace e mente di zazen proprio al centro del nostro mondo confuso, sofferente, meraviglioso. Per favore, state attenti a quel che fate e non sprecate il vostro tempo.
Molte persone, consapevolmente e inconsapevolmente, mi sono state d’aiuto nella stesura di questo saggio: Robert Aitken, il Bhikku Santikaro, Laurie Senauke, Helen Schley, Greg Mello, Ken Kraft, Ken Jones, e Diana Winston. Nove inchini a loro e a innumerevoli altri.

Testo dell’intervento al simposio su Dogen che si è svolto presso la Stanford University, ottobre ’99.
Traduzione di Chandravimala Candiani



Hozan Alan Senauke è direttore del Buddhist Peace Fellowship dal 1991. Offre il suo servizio anche nell’Executive Committee of the International Network of Engaged Buddhists, dove lavora a fianco di attivisti buddhisti laici e monaci provenienti da Asia, Europa e Stati Uniti. Alan è un prete Soto Zen della famiglia di Shunryu Suzuki Roshi, ha ricevuto la trasmissione del Dharma da Sojun Mel Weitsman Roshi nel settembre del 1998. Vive con sua moglie Laurie e i loro due bambini al Centro Zen di Berkeley, in California. In un altro campo, Alan è molto noto come studioso e performer di musica tradizionale americana da più di trentacinque anni.

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