Domande
e risposte sul tema del lutto
dal ritiro in Italia con Claude Anshin Thomas
Claude:
Nei due giorni scorsi vi siete incontrati in piccoli
gruppi, praticando la consapevolezza della parola.
La prima volta non c’era un argomento specifico, la
seconda invece sì. Oggi, ci ritroviamo tutti
insieme e voglio farvi una domanda: vorrei che prendeste
in considerazione il lutto. Quale esperienza fate
del lutto nella vostra vita e cosa fate per evitare
il dolore?
D: La sofferenza c’è ogni volta che
viene a mancare una persona, c’è anche prima,
durante la malattia. Quando la persona cara muore,
continuo la preghiera e il mio cuore è in pace.
Mi dico: "Ora è nelle mani del Signore,
io posso solo pregare". E il lutto finisce. Questo
mi è possibile perché ho lasciato la
mia famiglia quando avevo 20 anni e mi sono abituata
alla separazione. Penso che non sarebbe lo stesso
se la persona mi vivesse accanto. È un paragone
sciocco, ma quando è morto il mio cane che
viveva con me, il lutto è durato di più.
[...] Alla fine io non voglio guardare in faccia la
morte, metto via le fotografie delle persone morte
e continuo a pensare a loro come se fossero vive,
non vado neanche ai funerali.
D: Vorrei parlare subito, perché questo
argomento mi commuove di sicuro. Ho avuto solo l’esperienza
della morte di mio padre. Anche i funerali di persone
che non ho conosciuto mi commuovono moltissimo, fare
le condoglianze è qualcosa che mi causa sofferenza...
D: A volte ascoltando la radio, mi giungono
notizie di morti e mi assale la disperazione.
Claude: Le emozioni non vengono dall’esterno
e le notizie non ci procurano emozioni. Non è
la morte di un amico a procurarci tristezza: queste
situazioni ci offrono l’occasione per toccare la nostra
tristezza, la nostra paura, la nostra solitudine,
la nostra disperazione. Quando puntiamo il dito verso
qualcuno, ci liberiamo delle nostre responsabilità,
per non accorgerci della natura della nostra sofferenza.
La mente può suggerirmi che se nascondo le
foto nel cassetto, non avvertirò la perdita;
se non ascolto la radio, non proverò dolore;
se non vado ai funerali non sarò triste, non
piangerò. Non sono le notizie, le fotografie
a generare questi sentimenti in noi, si tratta semplicemente
di avvenimenti che accadono nel tempo e nello spazio,
sono degli attimi che ci consentono di avvicinarci
alla natura della nostra sofferenza. Quando proviamo
queste sofferenze e sappiamo che sono nostre, allora
finalmente c’è la possibilità per la
guarigione e la trasformazione. Fino a quando penseremo
che sono le notizie, le foto, le cerimonie, possiamo
anche pensare che se non andiamo al funerale non ci
sentiremo tristi. Sentirsi semplicemente tristi, questo
è il Dharma; questo è il modo in cui
la pratica ci offre un servizio: addentrandoci in
questa tristezza, non sapendo da dove venga, né
a cosa porti: l’insegnamento del non conosciuto.
Non ci si può distogliere dalla tristezza né
trattenerla, questo è l’insegnamento della
via di mezzo. Allora saremo capaci di sperimentare
il lutto. [...].
Portare il lutto è un processo molto naturale.
Vivere in maniera diversa vuol dire impegnarsi nel
processo di portare il lutto, di lasciare andare il
desiderio egoistico, l’avidità e fare un passo
verso il non conosciuto.
Attraverso il processo della perdita, noi sperimentiamo
il lutto. La perdita più grande potrebbe essere...
non so, le chiavi della macchina, non sappiamo quale
potrebbe essere. Provare a immaginarlo è sofferenza,
non è abbracciare l’insegnamento del non conosciuto.
[...].
Portare il lutto non è sofferenza, ma guarigione
e trasformazione: dategli il benvenuto, abbracciatelo,
e saprete che passerà. Il Buddha ha insegnato
l’impermanenza e la mancanza di un sé in tutte
le cose. La mia natura è di invecchiare, di
ammalarmi, di commettere errori, di essere confuso,
la mia natura è di illuminarmi, di vivere la
gioia. La sofferenza sta nel fatto che non siamo capaci
di vivere questa natura.
Restare aperti a tutte le gioie e i dolori dell’universo,
non aspettarsi che niente al di fuori di noi ci procuri
stabilità e felicità. Quando lascio
andare le aspettative, solo allora ho la possibilità
di vivere la realtà del non conosciuto e di
venire nutrito dall’amore e dai doni dell’intero universo;
e potrò incontrare gli altri esattamente dove
sono.
Sono triste per le persone che hanno lasciato il ritiro,
per alcuni un po’ meno di altri: anche questa è
la verità e vivendo nella verità di
ciò che è in ognuna di queste esperienze
si trova la chiave della mia illuminazione. Senza
respingere nulla e senza attaccarsi a nulla. In realtà
posso vedere quando sono attaccato e quando sto rifiutando,
questo è il dono della pratica, questo è
l’aiuto che ci danno gli strumenti della meditazione
e nel momento di consapevolezza posso semplicemente
permettermi di sentire il lutto.
Procedere lungo questo sentiero, indossare quest’abito,
a volte mi fa sentire molto solo. Quando la gente
siede in un angolo bevendo vino e fumando, divertendosi,
non sono lì. Ma sono lì quando stanno
per vomitare nel bagno, allora posso tenere loro la
mano e confortarli. Posso far loro visita quando stanno
per morire di cancro. In ogni momento mi sento tremendamente
triste perché non posso aiutare nessuno a risvegliarsi,
non ho alcun potere. Posso solo vivere ciò
che mi è stato dato.
Quando ero molto giovane, avevo solo 18 anni, mi sono
ritrovato seduto da solo nella giungla del Vietnam,
tutto intorno a me c’erano solo morti o persone che
piangevano la perdita dei loro cari. Ero coperto di
sangue e sporco di fango, ero terrorizzato. Non avevo
alcuna idea di come reggere ciò che stavo vivendo
e dunque costruii dentro di me una prigione con delle
mura molto alte per impedire a dei sentimenti così
potenti di emergere, di avere accesso al mio sé.
Ho continuato a ricreare la violenza nella mia vita,
contro gli altri, contro me stesso e tutti gli esseri
senzienti.
Quando avevo 36 anni sedevo su una spiaggia e a un
tratto iniziai a piangere per il ragazzo di 18 anni
a cui non era mai stato concesso di avere 18 anni.
Mi sentii davvero arrabbiato, confuso perché
ormai avevo 36 anni e non più 18. Ma prima
di poter vivere la mia età attuale, dovevo
vivere i miei 18, 19, 20... anni, dovevo farne esperienza
per la prima volta, e non nascondermi da loro. Fu
questa la pratica che mi sostenne, mi nutrì
e mi incoraggiò lungo il cammino. Portando
il lutto abbiamo la possibilità di risvegliarci.
[...].
D: Quando una persona muore, chi le era accanto
sta molto male. Dopo un certo tempo può accorgersi
che può continuare a comunicare: si tratta
di una comunicazione diversa da quella precedente?
L’altro può venire disturbato da questa comunicazione?
Claude: In realtà hai fatto diecimila
domande e non una sola e nella tua domanda inoltre
ci sono molte supposizioni.
Uno degli insegnamenti principali del Buddha è
quello del non conosciuto: noi non possiamo conoscere
il prossimo istante e la nostra responsabilità
consiste proprio nel fare un passo nella direzione
del non conosciuto e di portare testimonianza. Io
non so se sia possibile o meno comunicare con i morti,
non so se ci sia una vita dopo la morte, non ne ho
idea. E non ho mai incontrato nessuno che potesse
dire concretamente di aver fatto esperienza di un
tale processo, del morire e rinascere di nuovo. Non
mi metto a discutere su questa ipotesi, semplicemente
non lo so.
Quando parlo con qualcuno che è vivo davanti
a me, non so se mi sente, se mi capisce. Deve essere
vero quindi anche nell’altro caso. L’abilità
delle persone ad ascoltare è direttamente connessa
alle cause e ai condizionamenti della loro vita, alla
natura della loro sofferenza. La maggior parte delle
persone non ascolta, interpreta.
Per ascoltare devo essere veramente presente e ascoltare
ciò che viene detto, non ciò che penso
venga detto: ascoltare senza fare nessuna interpretazione.
Qualcuno mi chiede di raccogliere una scatola, devo
soltanto tirarla su, non devo andare oltre. Ma molti,
quando dico: "Raccogli la scatola" pensano:
"Ma perché mai vuole che raccolga la scatola,
quali sono le sue intenzioni? È un test?".
Questa è la natura della sofferenza; quando
dico di raccogliere la scatola sto dicendo semplicemente
questo. È anche abbastanza vero che le persone
non sono chiare nella loro comunicazione, non sono
dirette sul punto. Se qualcuno vuole che io raccolga
quella scatola, potrebbe però dire: "Accidenti,
ma che cosa ci fa quella scatola lì?".
Al che io potrei rispondere: "Non lo so".
E allora l’altro si arrabbierebbe perché non
ho raccolto la scatola: ma non me lo ha nemmeno chiesto.
Io rispondo semplicemente a ciò che mi viene
messo davanti, non posso fare nient’altro. Non posso
essere altro da ciò che sono e impararlo è
il dono della meditazione, il dono degli insegnamenti
buddhisti.
Risvegliarci alla natura della nostra sofferenza,
alle cause e condizionamenti della nostra vita che
ci impediscono di vivere pienamente. Quando mi risveglio
alla natura della mia sofferenza, posso imparare ad
accoglierla con benevolenza e solo allora inizierà
a essere trasformata.
Nessuno muore mai veramente; si cessa di esistere
in questa forma. Le persone possono non essere più
presenti davanti a me in modo da poterle toccare in
senso fisico, ma sono ancora vive in me quando penso
a loro, quando le ricordo e dunque posso sentirmi
libero di parlare loro.
Parlo spesso con mio padre che è morto nel
1973 e non so se mi senta o no, non importa. Gli parlo
comunque e più sarò in grado di vivere
pienamente, più chiaramente potrò parlargli.
Molte delle conversazioni che faccio con mio padre
non hanno nulla a che vedere con lui. Ma hanno a che
fare con me.
Durante il servizio militare in Vietnam mi sono reso
responsabile della morte di diverse centinaia di persone.
Esse sono vive in me, posso vedere i loro volti, le
circostanze delle loro morti e sento profondamente
la mia responsabilità per la loro morte. La
mia comunicazione con loro sta nel vivere la mia vita
in modo diverso, risvegliandomi alle cause e ai condizionamenti
della mia vita che mi portarono a decidere di andare
volontario in guerra e di trovarmi nella situazione
di causare la loro morte. Cammino con loro, vivendo
la mia vita in modo diverso, espiando per le mie azioni,
in modo che le loro vite non siano state sprecate.
Con mio padre esamino continuamente il mio rapporto
con lui, anche se è morto ormai da 26 anni.
Dobbiamo ricordarci che ci sono due tipi di karma:
quello che ereditiamo e quello che creiamo noi, non
sono la stessa cosa ma non sono neanche diversi. Il
karma che creo è connesso con quello che ho
ereditato. Mio padre è dentro di me, è
in questo senso che comprendo la reincarnazione. Non
è che mio padre nasca nuovamente, ma nasce
e vive in me e nel momento in cui guarisco, anche
mio padre che è in me guarisce.
A volte la tristezza che sento è più
grande del momento e comprendo che non sto soffrendo
solo la mia tristezza, ma anche quella delle generazioni
passate. Quando riesco ad accogliere tutta questa
tristezza con gentilezza amorevole, allora potrà
iniziare a essere trasformata. Così posso guarire
mio padre, mia madre, che sono in me. Posso guardare
tutte le generazioni passate attraverso ogni spazio
e tempo, così come quelle future. È
questo il dono di vivere la mia natura del risveglio.
Quindi non mi interessano i concetti, ossia se sto
disturbando il karma di qualcuno.
Risvegliandomi a ciò che mi tiene intrappolato
in questa sofferenza vuol dire che smetto di fare
le cose che mi tengono intrappolato nel ciclo della
sofferenza.
Come posso affrontare la realtà delle persone
che ho ucciso? Non posso restituire loro la vita,
ma posso celebrare questa vita, smettere di distruggere
questa vita perché attraverso di me loro sono
ancora vivi: posso sentirli non con le mie orecchie
ma con tutto il mio essere. Mi stanno dicendo: "Non
permettere che le nostre vite siano state sprecate,
siamo morti per mostrare al mondo che la violenza
non è la via, la violenza non è una
soluzione, la guerra non è una soluzione".
Allora, per prima cosa, devo smettere di essere violento
con me stesso ed è questo il modo in cui la
pratica mi sostiene. [...].
Pian dei Ciliegi, 14-18 ottobre 1999