La sottile linea della complicità
di Claude Anshin Thomas


APPUNTI SUL PELLEGRINAGGIO IN GERMANIA E SULL'ITALIA

A volte ricordo appena il Vietnam. Altre volte sono così distaccato dalla realtà del mio servizio militare che qualsiasi pensiero sul Vietnam mi appare surreale. E poi ci sono cose che me lo ricordano: alcune sottili altre meno. Le più estreme mi suscitano reazioni di sussulto, mi procurano un sonno molto disturbato, il buco nello stomaco e l’odio cieco davanti al tradimento o alla percezione del tradimento. L’apparente assenza di significato della vita convenzionale e la persistente domanda che ne consegue: "Allora, che cosa faccio, adesso?".
Come forse sapete, o non sapete, ho appena finito un altro pellegrinaggio, questa volta attraverso la Germania. Ho camminato con l’obiettivo di visitare il maggior numero possibile di luoghi che sono stati di sofferenza durante la Seconda Guerra Mondiale, per portare testimonianza alle conseguenze che ancora perdurano di quella guerra. Ciò che non era stato stabilito, ma che è poi accaduto, è stata la visita a numerosi luoghi che testimoniano gli infiniti periodi di violenza di tutta la storia europea.
Alcuni dati sul pellegrinaggio: 6 persone hanno percorso l’intero tragitto per un totale di circa 1100-1200 chilometri, altre 25-30 hanno camminato con noi solo per un certo periodo. In totale, circa 200 persone hanno preso parte ai ritiri o alle cerimonie che si sono svolti nei diversi luoghi di terrore, di abuso, di degradazione, di tortura e di morte che abbiamo visitato.
L’esperienza di questo pellegrinaggio, la sua profondità sono ancora troppo vicine, troppo dense, e trovo difficile al momento comprendere pienamente che cosa è successo.
Ciò che so è che posti come Auschwitz - dove venne sterminato un milione di ebrei - come Theresienstadt - dove ne vennero uccisi decine di migliaia - come Revensbrück - dove a migliaia i prigionieri furono costretti a lavorare fino alla morte - come Buchenwald - dove più di 60 mila persone vennero uccise durante l’amministrazione nazista prima e sovietica poi - come Hadamar - un manicomio dove in sette anni oltre 60 mila persone vennero sottoposte a eutanasia - e questi sono solo alcuni dei nomi dei campi che furono in tutto migliaia - questi posti sono stati la conclusione di un processo iniziato molto prima della loro ideazione.
So che il processo che ha portato alla creazione di simili luoghi continua ad avere radici nelle strutture sociali contemporanee nostre e di altri paesi in tutto il mondo che conosco bene.
Attraverso il mio portare testimonianza sono giunto alla consapevolezza di come il processo che conduce a tali atrocità, questo terrore, sia insidioso e pervasivo e i suoi semi siano radicati proprio nella natura, nell’essenza, di ciò che comunemente intendiamo per civiltà.
E via via sono diventato sempre più sensibile alla realtà che, senza la complicità dei paesi e delle società europee e del mondo, la politica della NSDAP, del partito nazista, non avrebbe avuto successo. Senza la negazione collettiva e totale della società tedesca e della coscienza del mondo intero non sarebbe iniziata e proseguita. Il progetto e l’avvio del sistema di abuso, di sfruttamento, di tortura e terrore, la politica che ha reso possibile tutto ciò non era un segreto; quasi tutto avveniva alla luce del sole, sul palcoscenico del mondo.
E sono diventato più attento a quanto sia pericolosa la malattia di prendere decisioni sentendosi i soli a essere nel giusto. È un meccanismo che sembra derivi dalla proiezione della propria sofferenza all’esterno (su cose, persone, luoghi...). Questa forma di proiezione è pericolosa a qualsiasi livello si manifesti e - almeno di non essere impegnati a guardare all’intera e dettagliata costruzione degli eventi che hanno portato all’uccisione di più di 60 milioni di persone durante questo periodo (1929-1945) - il ciclo continuerà a ripetersi ancora e ancora.
Ne siamo stati testimoni nell’Unione Sovietica di Stalin, nella Rivoluzione Culturale di Mao in Cina, con Pol Pot in Cambogia e negli Stati Uniti con i tentativi di sradicare i Nativi e la volontà di mantenere la pena di morte come strumento punitivo indispensabile. Come ho realizzato durante il pellegrinaggio, attraversando questi luoghi di terrore e di abuso, le leggi possono essere rapidamente emanate per espandere la rete di coloro che verranno qualificati per lo sterminio (che dopotutto è esattamente ciò che è la pena di morte).
Possiamo continuare a vedere i risultati di questo meccanismo decisionale attraverso i tentativi che proseguono in tutto il mondo di sradicare le popolazioni indigene, attraverso gli avvenimenti nei Balcani o quel che sta succedendo alle foreste amazzoniche; i cicli senza fine della sofferenza e come tutto ciò riguardi l’io. Testimoniando il continuo ciclo della sofferenza mi sento travolto, impaurito e impotente; e mi chiedo: "Allora, che cosa posso fare, che cosa c’è da fare?".
Lungo il pellegrinaggio io e altri abbiamo visitato i luoghi dove il 9 e il 10 novembre del 1938 le sinagoghe vennero distrutte e lì abbiamo offerto una cerimonia. Abbiamo visitato anche i cimiteri ebraici che ancora c’erano e anche qui abbiamo offerto una cerimonia. Io e altri abbiamo visitato gli ex campi per prigionieri di guerra e abbiamo offerto una cerimonia dove erano le fosse comuni. Io e altri abbiamo visitato i manicomi che vennero usati come centri per praticare l’eutanasia e abbiamo offerto una cerimonia nelle camere a gas e nelle stanze della morte. Io e altri abbiamo visitato quelli che una volta erano i Quartieri Generali della Gestapo e abbiamo offerto una cerimonia. Io e altri abbiamo visitato i luoghi dove sorgevano le scuole ebraiche e abbiamo offerto una cerimonia. Io e altri abbiamo visitato i punti dove venivano raccolti i testimoni di Geova, gli omosessuali, i Sinti e i Rom (gli Zingari), i prigionieri politici e abbiamo offerto una cerimonia. Io e altri ci siamo fermati nelle chiese i cui responsabili istituzionali sono scesi a patti con il Partito Nazionalsocialista, per non vedere e non interferire, rendendosi complici della politica di repressione, tortura e sterminio e abbiamo offerto una cerimonia. Io e altri ci siamo incontrati con le comunità ebraiche ricostruite. Ho parlato con degli skin-heads e mi sono intrattenuto con chiunque volesse parlare con me. Io e altri abbiamo ascoltato le loro storie, rispondendo quando ci venivano fatte delle domande, per portare testimonianza alle loro storie.
Ciò di cui sono diventato consapevole lungo il pellegrinaggio è stato che io non so che cosa avrei fatto davanti alla natura delle scelte delle persone che si trovarono di fronte il nazismo. Ciò che so è che cosa feci quando mi trovai davanti a scelte analoghe durante l’intervento USA in Vietnam. Mi arruolai volontario nell’esercito, andai volontario in Vietnam dove uccisi e distrussi ciò che ero stato condizionato a percepire come altro. Non so che cosa avrei fatto o come avrei reagito se fossi stato un prigioniero nei campi. Ma io so che cosa feci quando compresi che la propaganda con cui mi avevano indottrinato non era la verità. Continuai a combattere, a uccidere, a mutilare e distruggere razionalizzando le mie azioni come una protezione per gli altri. Sarei stato forse il prigioniero a Buchenwald che strangola l’altro detenuto per una buccia di patata.
Via via, confrontandomi sempre più con questi temi lungo il pellegrinaggio, ho visto come la complicità ci sia stata a tutti i livelli del tessuto sociale e quanto sia stata essenziale perché simili orrori potessero avvenire. Mi rendo conto di come ho preso parte a tale orrore e come inizi sottilmente l’orrore.
Allora, sorge spontanea la domanda: "Qual è la risposta appropriata che possiamo dare nella nostra vita quotidiana a questi eventi?". Posso solo dire che per me la risposta appropriata sta sempre nel non avere nessuna tolleranza, a qualsiasi livello e scala, davanti al razzismo, alla discriminazione, alla presunzione di essere i soli nel giusto nel processo decisionale, all’abuso di potere.
La domanda successiva sarà: "Di quali mezzi abili ho bisogno per rinforzare e sostenere questa posizione?". La risposta che riempie lo spazio della domanda è: "Vivere la mia vita in modo diverso, vivere la realtà spirituale della vita (non religiosa), non accettare compromessi rispetto a questo impegno e trovare qualsiasi mezzo abile per sostenere questo cammino. La meditazione e il processo di conoscere se stessi intimamente e in profondità sono l’essenza del cammino".
Come ho già scritto, una delle aree di cui sono diventato progressivamente più sensibile durante il pellegrinaggio è stata l’estensione della complicità necessaria in Germania, in Europa e nelle strutture socio-politiche mondiali che ha permesso ai nazisti, al Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi, di mettere in atto la sua politica di terrore. Il fatto che all’inizio il movimento non fu preso sul serio e non fu in generale contrastato è un dato indicativo.
E di nuovo si affaccia la domanda: "Allora, dove e come esiste questa dinamica nella mia vita, e che cosa devo fare per affrontarla?".
Riflettendo su queste circostanze, il solo motivo che riesco a immaginare per cui crebbe un tale orrore e terrore senza che nessuno intervenisse, è che i governi di tutti gli altri paesi che assistettero al fenomeno semplicemente non potevano intervenire. Intervenire, poterne parlare ad alta voce, implicava che in qualche modo, individualmente e collettivamente, essi riconoscessero la loro partecipazione, l’appoggio che davano a tali azioni.
Questo mi è chiaro per come sono stato addestrato e condizionato a stabilire il mio comportamento quando devo fare i conti con la violenza o con un comportamento non salutare. Sono stato addestrato e condizionato a non reagire, a non dire la mia in modo da non risultare diverso dagli altri. In superficie sembra un buon consiglio, la strada più facile, più passiva. Ma il vero motivo per non parlare non sta nel non agitare le acque, ma per non mettere a fuoco il mio comportamento che risulterebbe speculare. Questa comprensione perciò rende molto più difficile, se non impossibile, la negazione della mia posizione.
Per lavorare per la pace, per vivere la realtà spirituale della vita, non ho scelta ma devo riconoscere, su qualsiasi scala, che una politica individuale, familiare, sociale o nazionale messa in atto da una presunta posizione di superiorità è pericolosa, abusiva e di sfruttamento. Allora, dove sono questi semi nella mia vita, come si manifestano nelle situazioni a me più vicine e come non chiudo gli occhi?".
 
Dopo il pellegrinaggio sono andato in Italia per facilitare un ritiro nelle montagne vicino Piacenza. Poi sono stato a Portogruaro, una città tra Venezia e Trieste. Ero stato invitato a parlare sul tema: "I semi della violenza, le radici della guerra". Sono intervenuto davanti a molti studenti venuti da diverse scuole, circa 300-400, dai 14 ai 18 anni. C’era anche una numerosa rappresentanza di docenti. Non era la prima volta che andavo da loro, c’ero già stato lo scorso maggio per parlare sulla natura della guerra. Allora erano tutti profondamente colpiti dalla guerra, come la maggior parte della gente della zona. Portogruaro è abbastanza vicino alla base NATO di Aviano da cui veniva condotta la maggior parte dei bombardamenti. Giorno e notte la gente sentiva gli aerei decollare e atterrare. La vicinanza con la guerra aveva suscitato una domanda: "Allora, quando cominceranno a cadere anche qui le bombe?".
Molti insegnanti erano stati presenti quando avevo parlato agli studenti e ne avevano tratto giovamento e così ero stato invitato di nuovo per lavorare più direttamente sia con loro che con gli studenti e anche con la chiesa.
La mia vita è diventata davvero interessante: solo concentrandomi su ciò che ho davanti, solo inspirando e espirando, lavando i piatti solo per lavare i piatti, mettendo le scarpe in ordine, vicino la porta, e guardando fermamente nei luoghi della mia vita dove l’orgoglio e la paura mi dicono di non andare.
Da Portogruaro poi mi hanno accompagnato in macchina a Padova, prima di proseguire per Vicenza. A Padova nel centro storico abbiamo visitato quello che una volta era il quartiere ebraico. Prima della presa del potere del fascismo e del nazismo c’era una fiorente comunità ebraica. C’erano due sinagoghe, una di lingua yiddish e una di lingua italiana. Nell’ottobre del 1943 gli ebrei vennero arrestati, ammassati in un punto di raccolta e poi deportati per essere sterminati; la sinagoga askhenazita venne bruciata. Oggi funziona solo una sinagoga, l’altro edificio ospita una galleria d’arte, con solo la facciata ricostruita per ricordare alla gente che una volta era un luogo di culto.
L’Italia non era un posto amichevole durante la Seconda guerra mondiale se si era oppositori del governo fascista, se si era ebrei o diversi per qualche altra ragione. E l’Italia ha ancora dei profondi problemi con il suo passato. Di solito non ho incontrato molti italiani che si rapportano o che si vogliono rapportare direttamente con questa parte della loro storia. Sembra quasi che ci sia uno sforzo conscio o inconscio di non ricordare. Questo sforzo di non ricordare è rinforzato dal non parlare. E non parlando, le occasioni di guarigione diventano limitate. Quando non riusciamo a cogliere le occasioni di guarigione, lo so per esperienza diretta, la sofferenza continua a riprodursi, passando alle generazioni successive, continuamente vissuta, con inconsapevolezza, con minore chiarezza circa la sua origine.
Mio padre è stato soldato, mio nonno è stato soldato e così anche mio bisnonno.
In superficie si può apparire OK, una bella macchina, bella casa, denaro, ma c’è ancora sofferenza e i suoi effetti si fanno sentire: le violente lotte anarchiche degli anni ’70, i cambiamenti radicali negli schemi politici che hanno creato instabilità politica, la prostituzione lungo le strade, i bambini picchiati, il numero crescente di senza casa, alcolismo, tossicodipendenza e aumento degli arresti per reati di violenza. Ma noi sembriamo essere a posto.
Prima di lasciare l’Italia dall’aeroporto di Venezia, il nostro ospite, Giovanni ShinKai Turra, ci chiese se volevamo visitare la città. Andammo nella piazza principale del vecchio quartiere ebraico. La prima comunità si era formata prima del tredicesimo secolo e dopo diversi periodi di instabilità, di deportazioni e persecuzioni, finalmente una comunità permanente riuscì a mettere radici e a fiorire nel quindicesimo secolo. Ma era rinchiusa in un ghetto. I punti di accesso avevano tutti delle grandi porte di legno che di notte venivano chiuse in modo che nessuno potesse entrare, e su di esse era scritto: "Queste porte sono chiuse per la protezione della comunità ebraica". C’è un’altra verità nel chiudere le porte: nessuno può uscire!
Questo fatto mi fece venire in mente una storia che ebbi il privilegio di ascoltare durante il pellegrinaggio Zen che feci in America lo scorso anno. La sentii da uno dei molti giapponesi-americani che ci raccontarono di come furono costretti ad andare nei campi di concentramento nella parte occidentale del paese. Un giorno, parlando con qualcuno del personale militare americano del campo, alla domanda del perché fossero rinchiusi lì dentro, gli venne risposto che erano lì per la loro protezione! La persona che ci raccontò questo episodio ci disse che, dopo aver sentito questa risposta, gli venne di fare un’altra domanda: "Perché allora i fucili sono puntati su di noi?".
In due momenti diversi, nel 1943 prima e poi nel 1944, tutti gli ebrei di Venezia vennero arrestati, portati nella piazza centrale del vecchio ghetto e da lì deportati ai campi di sterminio.
In quel luogo, accesi un incenso, feci tre prosternazioni e offrii delle preghiere per la guarigione di tutti gli spiriti affamati, nella piazza e fuori.
Non sapevo che altro fare.