Il servizio

di Frank Ostaseski

"Come essere un compagno compassionevole" è il titolo di una raccolta in tre audio cassette - a cura dello Zen Hospice Project - in cui sono stati raccolti dei discorsi di Frank Ostaseski indirizzati soprattutto a coloro che sono impegnati nell'assistenza di chi sta per morire. Come sanno coloro che hanno già avuto modo di incontrare il lavoro di Frank, il suo insegnamento è sempre ricco di storie e racconti di esperienze vissute in prima persona.
Stare accanto a una persona giunta nella fase finale della vita può essere - come è scritto nella presentazione della raccolta - un'esperienza che "spesso sfida le nostre credenze più radicate e ci porta a guardare la relazione che abbiamo con la nostra morte. È un viaggio fatto di continue scoperte che richiede coraggio e flessibilità, capacità di affrontare il rischio e di perdonare. Vissuta come pratica di consapevolezza, può rivelarci sia il nostro profondo attaccamento che la capacità che abbiamo di abbracciare la sofferenza di un'altra persona come fosse nostra".
Ispirato da 2.500 anni di tradizione buddhista, lo
Zen Hospice Project si basa sulla fusione tra visione spirituale e una concreta azione sociale. Nato nel 1987, è oggi riconosciuto internazionalmente come un modello per lo sviluppo dell'assistenza ai malati terminali. Frank Ostaseski ne è stato il fondatore e oggi è l'insegnante guida.
Quella che segue è la trascrizione della seconda cassetta, dedicata appunto al servizio.


Allo Zen Hospice diciamo che non c'è vero servizio se non sono servite entrambe le persone. Quando lavoro davvero con qualcuno che sta morendo, lavoro anche su me stesso. Osservo la mente e mi rendo conto di come il cuore si apre e si chiude. Sono consapevole del mio stesso dolore e della paura di morire. In questo modo inizio a capire che la sofferenza dell'altra persona è anche la mia.
Al Centro Zen quando si insedia un nuovo abate si svolge una cerimonia ed è un rituale molto bello, che coinvolge l'intera comunità. Durante una delle ultime cerimonie, uno studente chiese: "Che cosa mi può insegnare la pratica spirituale nel servizio agli altri?" e, in tipico modo Zen, l'abate rispose: "Quali altri? Servi te stesso". Lo studente insistette: "Come faccio a sapere come servire me stesso?" e, naturalmente, l'abate rispose: "Prenditi cura degli altri".
Allo Zen Hospice, lavoriamo quotidianamente con persone che stanno per morire. A volte sono persone molto dure, che hanno vissuto per strada o ai margini della società, che non sopportano il loro senso di impotenza, che hanno perso ogni speranza. Ci sono altri che sono consumati dalla paura. Talvolta si girano verso il muro e si rinchiudono in se stessi, senza mai più tornare indietro. Molte di queste persone sbocciano ed è un grande dono stare insieme a loro. Sono capaci di incredibili riconciliazioni con le loro famiglie trovando la gentilezza e l'accettazione che hanno cercato durante tutta la loro vita. Può essere un'esperienza straordinaria.
Non faccio questo lavoro perché a volte ottengo un successo. Rincorrere tali ricompense conduce all'esaurimento e dunque alla manipolazione, perché continueremmo a cercare di creare le condizioni per ottenere i risultati attesi, invece di fronteggiare la situazione così come è. Faccio questo lavoro perché lo amo e perché servo anche me stesso. Il prendersi cura degli altri crea sempre un beneficio reciproco. In questo processo noi iniziamo a capire che nel nutrire gli altri, ci prendiamo cura anche di noi stessi. Diventiamo quello che io chiamo: "compagni compassionevoli".
La parola compassione significa letteralmente: soffrire con gli altri, ed è quella congiunzione nel mezzo della definizione - 'con' - che è così importante. Implica intimità e deriva dal senso di appartenenza. Inoltre, un compagno è naturalmente uno che viaggia con un altro; quindi in questa relazione non c'è una guida, non c'è né guaritore né guarito. Come il maestro Zen Reb Anderson dice: "Noi stiamo semplicemente camminando insieme attraverso nascita e morte, tenendoci per mano". E questo è un approccio radicalmente differente dall'assistenza perché riconosce esplicitamente il dono che una persona morente può offrire a colui che l'assiste.
Nello Zen, c'è una pratica chiamata dokusan. È una sorta di colloquio con l'insegnante. Allo studente viene detto di aspettare fuori dalla porta e di concentrare tutta la propria attenzione sul momento presente. Egli non ha alcuna idea di ciò che lo aspetta dall'altra parte della porta, nessuna idea di ciò che il maestro potrà chiedergli. Quindi lo studente dovrà essere aperto, flessibile, ed avere la volontà di entrare libero da aspettative. Entrando nella stanza di un paziente morente è come fare dokusan.
Troppo spesso accade che nel prenderci cura non osserviamo veramente per vedere quel che serve, ma cerchiamo di confermare una identità. Chiamo questa "la malattia dell'aiutante", che ha un carattere molto più epidemico dell'AIDS o del cancro. Sto parlando dei vari modi che mettiamo in pratica per tenerci distaccati dalla sofferenza degli altri. Ci teniamo distanti con la pietà, la paura, il calore professionale, persino con dei gesti caritatevoli. L'attaccamento al ruolo dell'aiutante è molto vecchio per molti di noi, e se non stiamo veramente attenti, se non siamo consapevoli, questa identità imprigionerà sia noi che quelli che serviamo. Perché, se io farò l'aiutante, qualcun altro dovrà fare quello bisognoso di aiuto.
Una mia buona amica, Rachel Remen, autrice di Kitchen Table Wisdom (La saggezza del tavolo di cucina), ha scritto su questo tipo di aiuto e penso che sia una delle più belle descrizioni del servizio che io conosca. Parafrasandola, potremmo dire che servire non è la stessa cosa di aiutare. Aiutare è basato sulla ineguaglianza, non è un rapporto tra uguali. Quando si aiuta, si usa la propria forza per aiutare qualcuno che ne ha meno. È un rapporto "uno-sopra, uno-sotto" e la gente sente questa disuguaglianza. Quando aiutiamo poi, a volte senza volerlo, prendiamo di più di quello che diamo, diminuendo così negli altri il senso del valore e della stima in loro stessi. Quando aiuto, sono molto consapevole della mia forza, anche se in realtà non serviamo solo con la forza; serviamo con tutti noi stessi e attingiamo a tutte le nostre esperienze. Le nostre ferite servono, i nostri limiti servono, anche le nostre ombre servono. La nostra interezza serve l'interezza dell'altro e l'interezza nella vita. Aiutare è come contrarre un debito. Quando aiuti qualcuno, questi ti deve qualcosa, mentre il servizio è reciproco. Quando aiuto ho un senso di soddisfazione, ma quando servo ho un senso di gratitudine.
Servire è anche diverso da aggiustare. Quando aggiustiamo, vediamo la persona come rotta. Aggiustare è un tipo di giudizio che ci separa dagli altri e crea distanza. Quindi fondamentalmente vediamo che aiutare, aggiustare e servire sono modi diversi di vedere la vita. Quando aiuti, vedi la vita come debole. Quando aggiusti, la vedi come rotta. Quando servi, vedi la vita come un intero e chi serve sa che si viene usati da qualcosa di più grande di se stessi.
Una sera Tom, uno dei volontari, si stava occupando di un paziente con l'AIDS. J.D. era ormai molto debole, tanto da far fatica a stare in piedi e aveva bisogno di aiuto per svestirsi e altre cose. Proprio quella sera, Tom stava aiutando J.D. a muoversi verso la comoda, quando le gambe di J.D. non ressero e lui cadde. Ci fu un caos tremendo. I pantaloni del pigiama di J.D. gli arrivarono alle anche, la comoda si capovolse. Un pasticcio terribile. J.D. stava bene, ma Tom era distrutto. Comunque Tom nervosamente si arrangiò e rimise J.D. sul letto e poi mi chiamò e disse: "Bisogna che tu riveda le procedure su come spostare qualcuno dal letto alla comoda". Ma io gli dissi: "Tom, fai semplicemente questo: la prossima volta che sposterai J.D., controlla come hai la pancia e vedi se è morbida". Lui replicò: "No, no, non la roba buddhista. Voglio sapere le procedure infermieristiche, come muovo il suo ginocchio." Ma io dissi: "Tom, controllati semplicemente la pancia e chiamami dopo".
Poco tempo dopo mi chiamò e disse: "Frank, è stato sorprendente. Stavo spostando J.D. e la mia pancia era dura come una roccia. Mi sono reso conto che avevo timore e così mi sono fermato: ho respirato alcune volta, ho ammorbidito la pancia e la cosa che è successa dopo è che mi sono trovato J.D. nelle braccia come un'amante o un bambino. Non è stato per niente un problema".
Quando il cuore è aperto e la mente è calma, quando l'attenzione è totalmente nel momento presente, ecco che il mondo non è più diviso e sappiamo cosa fare. Ci sono innumerevoli modi di esprimere la compassione attraverso il servizio: modi per servire il corpo, modi per servire il cuore e la mente e modi per servire lo spirito.
Il primo modo per esprimere la compassione è occuparci del corpo con il dono del toccare. Il contatto è la più antica forma di guarigione ed è uno dei bisogni basilari dell'essere umano. Una notte, mi ricordo di avere visto Ray avvicinare una sedia ai piedi del letto di ospedale di Mark e sistemarsi i piedi a terra. Tirò su la testa, leggermente stirandosi la schiena e così poté sedere completamente fermo. C'erano altri quattro visitatori che chiacchieravano riempiendo la stanza con l'intenzione di tirare su il morale di Mark, il quale, dopo aver combattuto l'AIDS per anni, ora era fragile come un uccellino. L'intenzione era buona, ma Mark sembrava annegare in mezzo a tutti quegli stimoli. Ray annuì a Mark con un leggero sorriso ed il gesto fu qualcosa a metà tra: "Mi fa piacere vederti ancora" e un inchino di rispetto.
Esprimeva attenzione e chiedeva il permesso di toccare. Le mani di Ray si fecero strada sotto le lenzuola di Mark fino ai piedi. Non potevo vedere alcun movimento e se pure c'era, doveva essere molto delicato. Non so se stesse premendo su alcuni punti speciali, ma sicuramente non c'erano misteri: ciò che importava era il profondo contatto stabilito attraverso il tatto, due uomini che entravano in un rifugio silenzioso insieme. Per mezz'ora Ray ascoltò, rassicurando, esplorando, rispondendo a Mark, senza che una singola parola fosse pronunciata. Il chiacchiericcio nella stanza ancora durava, ma ora Mark stava galleggiando, invece di annegare. Quando il massaggio ai piedi finì, Ray tolse la sua mano piano e con attenzione, si sedette di nuovo sulla sedia stando fermo. Allora Mark gli mandò un bacio, poi chiuse gli occhi e affondò nel cuscino a riposare.
La gente viene toccata continuamente negli ospedali: si viene girati nel letto, viene preso il polso, prelevato il sangue. Le infermiere e i dottori fanno iniezioni, posizionano tubicini e mettono le flebo, fanno tutti i test possibili. Tutto questo è toccare, ma quante volte, mi chiedo, questo toccare è vissuto come curativo? I morenti sono estremamente vulnerabili. Si sentono fisicamente deboli, emotivamente non protetti, soli, a volte molto confusi. Se sono in ospedale, probabilmente è molto dura per loro: può essere vissuto come un luogo poco familiare e con un eccesso di stimoli. Il dolore poi è quasi universale. Il corpo non funziona bene e a causa di ciò possono trovarsi a dipendere dagli altri. E questo può far nascere la sensazione di essere impotenti. A completare il quadro, si trovano a dover fare i conti anche con i tabù sociali sulla loro malattia e su come è cambiato il loro corpo. Alcuni mi hanno parlato di una sensazione di tradimento da parte del corpo, mi hanno detto di sentirsi detestabili e intoccabili.
Il toccare inizia nel momento in cui si entra nella stanza. Prima tocchiamo con gli occhi, quando osserviamo l'ambiente per stabilire un contatto diretto con la persona a letto. Questo atto può esprimere la nostra presenza o manifestare il nostro disagio. Anche l'ascolto è un modo per toccare: può essere ricettivo, aperto, incoraggiante oppure selettivo e guidato dalle aspettative. La nostra voce tocca. Possiamo parlare lentamente e amabilmente, consapevoli del tono della voce per esprimere cura e conforto. Oppure può essere brusco e affrettato, a significare che abbiamo cose più importanti da seguire altrove. Non è necessario fare un corso di massaggio per stabilire un contatto amorevole con un altro essere umano; basta attingere alla nostra innata tenerezza. Non è la tecnica che conta, nemmeno dove mettiamo le mani. È la qualità del cuore con la quale tocchiamo e la volontà di essere veramente presenti.
Mia nonna faceva dei meravigliosi massaggi alla testa. Le sue mani erano piene di gentilezza. Mi dava la sensazione che avesse tutto il tempo di questa terra e che non ci fosse nulla più importante di me. Tutti abbiamo bisogno di toccare ed essere toccati e quelli che stanno morendo non sono un'eccezione.
Certo, bisogna andarci piano all'inizio, procedendo con calma e rimanendo ricettivi, accogliendo anche la reazione che si ottiene mentre lo si fa. Chiaro che c'è un rischio nel fare questo. Possiamo sentirci a disagio o essere persino rifiutati. Ma qual è l'alternativa a non toccare? La solitudine che regna nelle case di cura del nostro paese è una conseguenza di questa strategia.
Nell'offrire delle cure, esistono infinite possibilità per un toccare che esprima compassione e rassicurazione, oltre al valore del rapporto con la persona malata. Non ci vuole più tempo. Apporre gentilmente la mano sul petto di una persona tesa con problemi di respirazione, può aprire una opportunità di calma. Quando prendiamo il polso dobbiamo stare lì per almeno 30 secondi. Perché non usare il tempo per stabilire un contatto umano onesto? Girare qualcuno nel letto, può darci l'opportunità di strofinare la schiena e applicare una lozione. Una pezza fredda sulla fronte di qualcuno che sta sudando può essere un gesto di gentilezza che può veramente aiutare. A volte tenere la mano può bastare.
In fin dei conti, è la consapevolezza che fa guarire. Il toccare è solo lo strumento. Se portiamo la consapevolezza al momento del contatto, qualsiasi forma di tatto può trasformare ed ognuno di noi è capace di stabilire un contatto simile.
Il secondo modo per esprimere compassione è prestare attenzione al cuore e alla mente attraverso il dono dell'ascolto. Spesso penso alla pratica di meditazione come un modo per imparare ad ascoltarci molto intimamente. Diciamo che in meditazione coltiviamo la mente che ascolta, come potremo dire il cuore che ascolta. Penso che questo tipo di pratica ci prepari bene per stare con persone che hanno veramente bisogno di essere ascoltate.
Steve stava vivendo pienamente gli ultimi giorni della sua vita. Aveva combattuto l'AIDS per circa 10 anni e a quel tempo stava rendendosi conto delle sue energie limitate. Però, nonostante le condizioni di estrema debolezza e inabilità, trasudava amore, offrendolo liberamente a chiunque entrasse nella sua stanza. Anche Rick aveva l'AIDS e viveva nell'hospice. Un colpo gli aveva paralizzato la parte destra e l'afasia gli rendeva la parola confusa e difficoltosa e questo lo faceva sentire isolato e non compreso. Una parte di Rick anelava che qualcuno potesse capire cosa stava attraversando. Dissi a Rick che Steven era vicino alla fine della sua vita e così Rick decise di andare a dargli il suo ultimo saluto. Rimasi a guardare un momento mentre Rick entrava e si sedeva sul bordo del letto e poi per circa 20 minuti tutti e due rimasero in un profondo scambio silenzioso. Non venne pronunciata nessuna parola. I loro occhi non si lasciarono per neanche un attimo e c'era una straordinaria intimità. Alla fine, riconoscendo la qualità della presenza che avevano condiviso, Steven disse semplicemente: "Grazie, è stato meraviglioso" e Rick concordò annuendo. Poi si abbracciarono e Rick ritornò in camera sua. Ho avuto l'impressione che molte delle cose che Rick aveva da dire, siano state ascoltate quel pomeriggio. L'ascolto è tutto fatto di dare. Guarisce attraverso la forza della generosità. È un dono a mani aperte che non richiede nulla in cambio. Non riesco ad immaginare un dono più prezioso per qualcuno che sta morendo.
Per ascoltare viene richiesto di diventare vuoti, disponibili a ricevere, senza aspettative o giudizi, a essere sorpresi. Un buon ascolto richiede sia l'attenzione rivolta verso l'altra persona sia verso la nostra vita interiore. È necessario porre la massima attenzione alle nostre sensazioni, sentimenti e intuizioni. Perché è questo ciò che ci permette di risuonare con un'altra persona.
Lo psicologo Carl Rogers diede una magnifica descrizione dell'empatia, dicendo: "Empatia significa entrare nel campo percettivo privato di un'altra persona sentendosi pienamente a casa propria. Significa vivere temporaneamente la sua vita e muovervisi dentro delicatamente, senza giudizi. Comunicare ciò che senti nel suo mondo man mano che guardi con occhi freschi e senza paura. Significa controllare spesso con l'altro l'accuratezza del tuo sentire e farsi guidare dalle reazioni che ti tornano indietro. Stare con qualcuno in questo modo significa che devi lasciare da parte le tue visioni e i valori che valgono per te, in modo da entrare nel mondo dell'altro libero da pregiudizi. In un certo senso questo significa che lasci da parte te stesso e questo può essere fatto solo da una persona che si sente sicura di se stesso e non teme di perdersi in ciò che può diventare il mondo strano e bizzarro di un altro, perché sa che potrà facilmente ritornare al suo mondo qualora lo desideri".
Non è bello: "Muoversi nel suo mondo, delicatamente, senza giudizio, guardando con occhi freschi e senza paura?"
Riuscite a immaginare che cosa si prova ad avere qualcuno che ti ascolta in questo modo?
L'ascolto empatico richiede la nostra completa presenza. Ciò significa che i nostri corpi e le nostre menti devono entrare nella stanza allo stesso tempo. Può sembrare ovvio, ma non si verifica sempre. Troppo spesso lasciamo la mente sull'ultima attività che stavamo facendo oppure entriamo nella stanza così occupati dalle nostre idee, aspettative e immaginazioni da non lasciare spazio a nient'altro.
Quando ti siedi di fianco al letto, fai un profondo respiro. Lascia andare le attività della giornata e le tue aspettative. Arriva lì, vedi cosa senti.
Semplicemente vivi. Non c'è niente di speciale da fare. Osserva la tendenza a voler far succedere qualcosa. Questo può indurre un sacco di pressione sull'ammalato. Tieni solo compagnia e rimani attento. Ho guardato la TV per ore con pazienti, immaginando di non essere di alcun aiuto. Poi, appena mi alzavo per andarmene, la persona a letto mi diceva: "Grazie. È stato carino stare con qualcuno che non mi ha trattato come un malato".
A volte l'apertura accade con una modalità assolutamente inaspettata. C'era un ragazzo all'Hospice, di nome Jackie, eroinomane da 20 anni. Un giorno stavamo seduti nel giardino interno a chiacchierare e siamo rimasti un po' insieme. A un certo punto gli dissi: "Ehi, Jackie, ecco che ti trovi in un hospice buddhista. Pensi che rinascerai?" Disse: "Non so". "Forse rinascerai, forse ritornerai come mucca" proseguii io e lui mi rispose: "Non voglio ritornare come una dannata mucca". "Allora come cosa vuoi ritornare?" Lui disse: "Jackie" "Perché vuoi tornare come Jackie? Sei già stato Jackie. Perché non provi con qualcos'altro?" "No, tornerò come Jackie" Gli chiesi: "Perché?" "Perché la prossima volta lo farò bene". Vedete, in quel momento siamo entrati in nuovi territori. Jackie si mise a parlare della sua vita e di cosa contava di più per lui.
Prestate solo attenzione. Non si sa mai quando questi discorsi possono saltare fuori.
Il terzo modo che abbiamo per esprimere la nostra compassione è prenderci cura dello spirito con il dono della consapevolezza. Nel processo del morire, il sostegno spirituale è altrettanto importante quanto le cure mediche, ma solo raramente lo porgiamo in modo che sia realmente significativo. E dunque molta gente, invece che in pace, muore nello stress e nella paura. Ma possiamo farci qualcosa. Che cos'è il sostegno spirituale? Innanzitutto vuol dire portare testimonianza. Ossia non girarsi dall'altra parte quando le cose diventano difficili, ma restare presenti nel territorio del mistero e delle domande senza risposta. È aiutare le persone a scoprire la propria verità, anche quando non ci troviamo d'accordo con essa.
Talvolta significa chiamare un prete per somministrare l'estrema unzione o mettere uno scialle di preghiera sulle spalle di una persona morente, oppure potrebbe essere recitare delle preghiere o meditare insieme, ovvero scrivere una lettera che porti alla riconciliazione. Nella mia esperienza, il sostegno spirituale generalmente non prevede discussioni esistenziali o pratiche esoteriche, non riguarda il fuggire da questa vita, bensì l'affrontarla direttamente. Si tratta di essere consapevoli delle opportunità, qui ed ora, di esprimere amore e compassione. Per essere un vero sostegno dobbiamo avere la volontà di uscire dalla nostra personalità ben difesa o dai sistemi di credenze e rinunciare al nostro bisogno di controllo. Allora in questa resa si apre una porta e scopriamo con la persona morente uno spazio che è più grande della nostra vita, ma che la include. Ciò permette di apprezzare meglio la sacralità che sta nelle cose e nelle attività ordinarie. Il nostro paradiso, la nostra illuminazione è qui e ora e noi possiamo aiutare le persone ad assaporare questa esperienza prima di morire.
È importante ricordare nell'offrire sostegno spirituale che anche se non c'è alcuna possibilità di cura è sempre possibile guarire. È importante capire la distinzione. Guarire - healing - deriva dalla stessa radice di interezza - wholeness. Interezza significa non rotto o danneggiato. Nel guarire c'è la riscoperta della nostra intrinseca interezza.
Vorrei riprendere alcuni brani di una lettera scritta dalla moglie di uno dei residenti del nostro hospice in cui parla di come il sostegno spirituale incoraggi il ritorno all'interezza.
"...A causa della lunga battaglia con il cancro, mio marito Robert era distrutto nella mente, nel corpo e nello spirito. Mi disse di avere perso tutto: la fede, la pace della mente e tutto il suo spirito. Si trovava in uno stato di agonia spirituale e intellettuale. Ma appena entrò nella sua stanza allo Zen Hospice, iniziò una sorta di guarigione. Si voltò verso di me e disse: 'Mi sembra di essere in un santuario'. I volontari e il personale erano così gentili. Ciascuno ci portava qualcosa di diverso e ciascuno sembrava in grado di comunicare il suo amore senza alcuno sforzo. Era come essere avvolti in un bozzolo dove ricevevamo calore e sostegno, dove non avevamo più bisogno di lottare. Osservavo Robert che se ne andava fisicamente, ma vedevo anche la guarigione emotiva e spirituale che era in corso. Trovarsi con voi permise a Robert di ritornare a essere integro prima di morire. Permise anche a me di capire che anche in un grande dolore si può sperimentare gioia e gratitudine, perché vidi che la persona che amavo più di tutti al mondo aveva trovato la pace e il completamento alla fine della sua vita."
Per essere utile, il sostegno spirituale deve occuparsi di questioni molto concrete come la paura, il significato e gli scopi, ma anche lasciare spazio al mistero che caratterizza il morire. Ci sono innumerevoli modi per offrire sostegno spirituale alle persone durante le ultime settimane della loro vita: pratiche di compassione come il tonglen, pratiche di consapevolezza sulla morte, meditazioni di gentilezza amorevole, preghiere contemplative, pratiche di concentrazione che stabilizzano la mente, rituali che pongono l'enfasi sull'imminenza della morte. Tutto ciò nelle mani di un praticante abile può essere un servizio impagabile per qualcuno che sta morendo. In ogni caso, per la persona che aiuta, la pratica essenziale è l'impegno a mantenere la consapevolezza del corpo, della mente e del cuore. In questo modo si contribuisce a mantenere un ambiente calmo e ricettivo intorno alla persona che sta morendo. In un certo senso, gli prestiamo la stabilità della nostra mente, allo stesso modo come prestiamo la forza del nostro corpo nelle attività di assistenza. Inoltre la nostra calma serve anche come modello per gli altri.
Il mio suggerimento è di incominciare con lo sviluppare una pratica di consapevolezza di base. Lavorare con brevi istruzioni di meditazione, leggere libri che ispirino. Cercare sostegno per sviluppare la pratica contemplativa presso un insegnante nella tua zona. Una volta che avrete un po' di esperienza nella pratica della consapevolezza e nella preghiera contemplativa, allora vedrete che queste qualità troveranno naturalmente espressione nel vostro lavoro di assistenza. Vorrei solo condividere due pratiche che credo siano accessibili a tutti, indipendentemente dalla tradizione spirituale o dai credo religiosi. Queste pratiche servono ad aprire il cuore e a coltivare calma e la visione profonda, che possono portare a una morte serena.
La prima pratica è la riflessione. Quando arriviamo alla fine della nostra vita, viene naturale cercare di darle un senso. Riflettere sulla vita aiuta a trovare i significati, gli scopi, i valori e questo è già un lavoro spirituale. Il processo di riflessione o revisione della vita può assumere molte forme diverse. Il più delle volte succede molto spontaneamente, durante una conversazione o ritornando ai ricordi con amici e parenti. Alcuni vogliono silenzio e tempo da trascorrere da soli per riflettere. Alcune persone passano settimane con i loro album di foto o telefonando ad amici che non sentono da anni. Altri fanno album di ritagli di giornale o di foto.
Uno psicologo che conosco incoraggia queste riflessioni leggendo ai pazienti delle storie o dei miti di viaggi. Le storie sono un mezzo facile per entrare nell'inconscio. Chiede ai pazienti di ascoltare e notare con quale personaggio si identificano di più oppure di trovare un punto della storia con il quale si sentono in sintonia. Poi chiede loro di formulare il loro finale. A volte creano storie completamente nuove che possono ispirarli per comprendere delle questioni importanti relative alla loro morte.
I sogni spesso manifestano l'inconscio che può rivelare dei significati sepolti o non rivelati nella vita di tutti i giorni. È quello che chiedo alle persone quando si svegliano al mattino: "Come sono stati i sogni?" Ricordate che le parole non sono l'unico modo che la gente usa per comunicare. Una persona che sta morendo può voler disegnare o scolpire o esprimere con i gesti la sua esperienza. Ci sono altri modi per incoraggiare queste riflessioni. Per lo più si tratta di essere disponibili, di ascoltare senza giudicare unitamente ad una curiosità genuina che incoraggi ulteriori approfondimenti. Iniziate col porre delle semplici domande aperte. Raccontami la nascita dei tuoi figli. Eri un piantagrane da giovane? Chi sono i tuoi eroi? Quali sono le cose che vorresti poter dimenticare? Quali sono le cose che vorresti aver scoperto prima? Cos'è quella cosa di cui sei assolutamente sicuro nella vita? Usate il vostro intuito. Meno critico è il processo, meglio è. Portate un senso di meraviglia in questi dialoghi. Lasciate molto spazio. Sono sempre meravigliato da come la gente, se la lasci parlare e presti loro piena attenzione, possa rivelare una sorprendente profondità spirituale.
Avevamo un volontario che era insegnante di inglese e comprendeva l'enorme potere della storia. Passava del tempo con i pazienti incoraggiandoli a condividere momenti della loro vita e questi gli raccontavano storie della loro infanzia oppure parlavano a parenti morti oppure esprimevano amore. Parlavano di dispiaceri o condividevano segreti nascosti e parlavano anche di come avrebbero fatto le cose diversamente se fosse stata offerta loro una seconda possibilità. Alcuni di loro facevano persino delle conversazioni immaginarie con Dio. Il volontario registrava queste conversazioni e poi a casa trascriveva i testi. In seguito creava dei piccoli libretti deliziosi con scritte le parole delle persone, con a volte delle copertine o delle foto sopra. Poi restituiva i libretti alle persone ed è una cosa meravigliosa ridare a qualcuno le proprie parole. Trovo che quando una persona ti racconta la sua storia, si aprono delle vere possibilità.
C'era una dolcissima vecchia signora italiana di nome Grazia che visse con noi all'hospice. Arrivò con una prognosi di sei settimane e dopo sette mesi era ancora con noi. I volontari continuavano a descrivere la stessa conversazione, ogni volta che entravano nella sua stanza: "Come stai oggi Grazia?" "Oh, voglio solo morire." Ogni giorno la stessa risposta. Diventò quasi una battuta all'hospice. Poi una sera, durante una riunione di volontari, dissi al gruppo: "Sapete, forse non stiamo prendendo Grazia sul serio". Così il giorno dopo andai io nella stanza e chiesi a Grazia: "Come stai stamattina?" e lei disse: "Oh, voglio solo morire". Allora le chiesi: "Grazia, che cosa pensi che ci sia di meglio nel morire?" Lei mi guardò come per dire, ma che razza di domanda fai ad una vecchia ottantenne italiana? Ma io avvertii che c'era qualcosa che doveva ancora esprimere e allora le dissi: "Sai, Grazia, non ho veramente nessuna garanzia che sia meglio dall'altra parte." Lei disse: "Beh, almeno potrei uscire" Le chiesi: "Uscire da dove?" Lei incominciò a raccontarmi la storia della sua famiglia.
Man mano che raccontava risultò chiaro che per 50 anni di matrimonio, lei si era sempre presa cura del marito: gli aveva cucinato i pasti, fatto quadrare i conti, aveva sopportato i suoi umori. Non che ci fosse in lei un vero risentimento per questo, perché aveva sempre creduto che questo fosse il suo ruolo di moglie. Ma ora che era malata, non si immaginava come lui avrebbe potuto prendersi cura di lei. Non voleva essere un peso e così morire sarebbe stato il suo biglietto per uscire. Ecco perché era venuta all'hospice. Dopo che passammo un po' di tempo a parlare, le suggerii di parlare col marito. Non ero lì quando si parlarono: erano stati sposati per 50 anni e immaginavo che se la sarebbero cavata da soli. Quello che so è che tre giorni dopo Grazia uscì dall'hospice e tornò a casa. Visse per altri sette mesi con l'assistenza del marito e della figlia. Il suo morire non fu un peso, ma un dono che condivise con loro.
Raccontare la nostra storia a qualcuno ci aiuta a metterla in prospettiva e a vedere più cose. Diventiamo più consapevoli dei dettagli, quelli che non abbiamo mai visto prima; questo ci può portare ad accettare e ad aprirci in maniera ancora più completa alla situazione in cui ci troviamo. Nell'incoraggiare questo tipo di riflessioni, è importante lasciare che sia la persona morente a dettare i tempi e i confini. Meglio enfatizzare il positivo, in modo da ricordare alla persona le sue doti e la sua innata gentilezza in questa vita.
Ma non fate marcia indietro davanti ad alcune verità che hanno bisogno di essere dette. Le storie possono suscitare la gratitudine che vuole essere espressa, ma anche ricordi dolorosi che aprono le porte al bisogno di perdono e riconciliazione.
La seconda pratica è il perdono. Nel prendersi cura delle persone che stanno morendo, direi che la pratica del perdono è quasi sempre una pratica essenziale. Il perdono guarisce quello che ci divide. Libera dalla paura e dal risentimento che sono nel cuore e che ci tengono separati da noi stessi, dagli altri e dal mondo intorno a noi. Il perdono significa lasciar andare i vecchi dolori.
Nei primi anni all'hospice abbiamo avuto una paziente di nome Stella, che aveva un fratello di nome Rusty che non vedeva da 20 anni. Era un cowboy e faceva rodei. Mi ricordo che si presentò allo Zen Hospice con quel suo cappellaccio da cowboy, il cinturone con la fibbia in argento e gli stivaletti di serpente. Rusty rimase da noi per circa due settimane. Un pomeriggio stavo seduto con lui nel giardino del centro Zen. Stavamo parlando del più e del meno, quando mi disse: "Vorrei dirglielo, ma non ci riesco" Ed io dissi: "Rusty, se c'è qualcosa che vuoi dire a tua sorella, questo è il momento" e lui iniziò a raccontarmi la storia delle loro vite, e come era stato cattivo con lei, come ne aveva abusato. Ci volle un po' di tempo per far uscire questa storia e credo che rimanemmo seduti nel giardino per alcune ore. Per la maggior parte del tempo mi limitai ad ascoltare: era una storia molto bella. Alla fine dissi: "Rusty, andiamo di sopra a vedere tua sorella, adesso". Quindi andammo su da Stella, entrammo nella stanza e lui prese una sedia e si mise accanto al letto. Poi disse: "Sorellina, lo sai, non sono bravo a parlare di certe cose, sai; ci sono delle cose che vorrei dirti, ma non so bene come dirtele." Allora Stella fece la cosa più straordinaria, ricordo che alzò la mano e disse: "È veramente molto semplice. Qui c'è gente che mi fa il bagno, mi nutre, sono circondata da amore. Non ho bisogno di altro e non c'è colpa". È stato il momento di perdono più straordinario di cui sia mai stato testimone. In quel momento veniva perdonata una vita intera.
Stella capì che per essere liberi bisogna perdonare. Restare attaccati a vecchi dolori prolunga solo la nostra sofferenza. La maggior parte di noi lo sa, e allora perché lo facciamo? Forse perché spesso confondiamo il perdono con il dimenticare. Temiamo che se non c'è più il dolore a ricordarci, potremmo essere ancora feriti. Oppure, se siamo stati noi a causare il dolore, sentiamo che questa autopunizione ci impedisce di causarne ancora in futuro. È utile distinguere tra le lezioni imparate e tutte le tensioni mentali, i dolori fisici e le sofferenze emotive che derivano dal trattenere. Spesso confondiamo il perdonare con il condonare l'azione di una persona. Ma il perdono non giustifica in nessun modo azioni dannose. Perdoniamo la persona non l'azione. Abbiamo tutta una serie di inibizioni verso il perdono. Possiamo immaginare per esempio che non ne siamo degni o che solo Dio possa perdonare e queste sono le voci della paura e dell'auto condizionamento.
Qualche volta non perdoniamo perché vogliamo vendicarci, vogliamo che l'altra persona paghi per quello che ha commesso. Vogliamo che si vergogni, che senta lo stesso dolore che abbiamo sentito noi.
Crediamo che la giustizia sia un prerequisito e quindi vogliamo che l'altra persona ci chieda scusa prima di perdonarla. Vogliamo darle una lezione, assicurarci che non ripeterà più il suo comportamento negativo. Vi suona familiare tutto questo?
Qualche volta non perdoniamo perché l'attaccamento al dolore è così familiare che è come se desse un senso alle nostre vite e non possiamo immaginare chi saremmo senza di esso. Potete sentire quanta sofferenza c'è in tutto ciò? Il perdono non ha nulla a che vedere con la giustizia o col condonare azioni non rette o cambiare il comportamento dell'altra persona.
Perdoniamo perché fa troppo male non farlo. Perdoniamo per essere liberi. Il perdono è un atto del cuore, non della mente. È il movimento di lasciar andare il dolore e il risentimento che abbiamo trattenuto troppo a lungo. Quando iniziamo a praticare, possiamo sentire più rabbia che gentilezza, sentirci più chiusi che aperti. Il perdono non è un mezzo per sopprimere queste emozioni; anzi le facilita. Dà spazio a questi forti sentimenti di odio, paura e giudizio. Poi cominciamo a misurarci attivamente con la nostra sofferenza, esplorando con consapevolezza e gentilezza quegli aspetti a cui ci siamo chiusi. Il perdono ci permette di far incontrare la sofferenza con la compassione. Richiede tempo e pratica: il perdono non può essere forzato.
Ma per assistere qualcuno nel territorio del perdono dovete prima fare i vostri compiti; dovete provare la meditazione voi stessi prima di condividerla con altri. Nel fare questa meditazione, è importante che noi ci costruiamo la nostra capacità di perdonare gradualmente. Quindi non cominciate con la più grave delle offese ricevute. Siate clementi, non forzate.

La meditazione del perdono ha tre fasi. Primo, chiediamo perdono a coloro che potremmo avere ferito. Secondo, offriamo perdono a coloro verso cui nutriamo risentimento. Terzo, perdoniamo noi stessi. Vorrei ora provare a fare questa pratica insieme.

Trovate una posizione comoda.
Lasciate che si chiudano gli occhi e portate l'attenzione all'area intorno al cuore. Ora prendetevi qualche istante per riflettere sul significato del perdono: compassione, tenerezza, lasciar andare vecchie ferite.

Per prima cosa, richiamate alla mente qualcuno che potreste aver ferito. Cercate di rendere presente questa persona, immaginatela mentalmente, entrate in contatto con il sentimento che avete nel cuore nei suoi confronti. Invitatela dentro di voi, chiamatela per nome.
"Per qualsiasi cosa io abbia fatto che possa averti ferito con pensieri, parole o azioni, ti chiedo perdono".
Osservate ogni idea che sorge nella mente per bloccare il perdono. Lasciatele venire e andare.
"Ti chiedo perdono".
Ora lasciate andare questa persona per la sua strada, e sentite il vostro cuore che è stato toccato dalla possibilità del perdono, dalla possibilità di rilassarsi, di ammorbidirsi, di arrendersi.

Ora richiamate nella mente una persona che vi ha ferito, vedete se riuscite a immaginarla con gli occhi della mente, a sentirla nel cuore, a chiamarla per nome.
"Per ciò che hai fatto e che mi ha ferito con parole o azioni, io ti perdono".
Solo per un attimo provate a sentire cosa provate a toccare con pietà questo sentimento a lungo trattenuto.
"Ti offro il mio perdono".
Lasciate ora che questa persona vada per la sua strada, toccata dalla possibilità del perdono, dalla possibilità di rilassarsi, di ammorbidirsi, di arrendersi.

Ora chiamate voi stessi nel vostro cuore, immaginatevi mentalmente e sentite una sensazione di voi stessi nel cuore.
"Per qualunque cosa io abbia fatto che ti ha ferito con parole, pensieri o azioni, ti chiedo perdono. Ti offro il mio perdono".
Ammorbiditevi attorno a ogni resistenza che si manifesta, a ogni sensazione di inadeguatezza o di giudizio.
"Ti chiedo perdono. Ti offro il perdono".

A volte può essere più difficile perdonare noi stessi. Ma chi più di noi merita il nostro amore e la nostra compassione? Poi lasciate andare anche voi stessi, toccati dalla possibilità del perdono, ritornate al cuore e sentite che cosa c'è ora. Incontrate con gentilezza e compassione qualsiasi cosa si presenti.
Ammorbiditevi, rilassatevi, arrendetevi.
Alla fine della meditazione del perdono, potremmo provare molte emozioni contrastanti. Alcune volte potremmo sentirci aperti o come se un peso ci fosse stato tolto via dalle spalle. Oppure potremmo essere più consapevoli dei nostri giudizi o della nostra scarsa voglia di perdonare. Queste sono reazioni normali. Siate gentili con voi stessi. Lavorate con questa meditazioni un po' ogni giorno e ricordatevi che il perdono ha i suoi tempi.
Nei momenti più profondi di perdono non c'è più nessuno da perdonare. Riusciamo a capire che la sofferenza dell'altra persona è la nostra sofferenza. Nel Dhammapada, un testo buddhista, è scritto: "L'odio non finisce mai con l'odio. Solo l'amore può farlo finire". Questa è una legge antica che non cambierà mai.

Traduzione di Silvia Lombardi