A proposito
di "Lo zen alla guerra"
di Giuseppe Jiso Forzani
Pubblichiamo, grazie alla cortesia dell'autore, un intervento dall'ultimo
numero del trimestrale La Stella del Mattino, laboratorio per il dialogo
religioso, a proposito del libro Lo Zen alla guerra. E non solo.
Mi capitano fra
le mani, e poi via via sulla scrivania, in borsa, sul comodino e nei pensieri,
due libri che poco o nulla hanno all'apparenza in comune. Il primo è
"una documentata indagine sul ruolo svolto dal buddismo zen a sostegno
del militarismo giapponese" come promette in copertina l'editore, sotto
un titolo abbastanza inquietante di questi tempi, soprattutto per chi trova
nel buddismo zen un punto di riferimento (Brian Daizen Victoria - Zen alla
guerra - Ed. Sensibili alle foglie 2001 - pag.359, lire 35000). Avevo già
sentito parlare di questo lavoro, pubblicato negli Stati Uniti e in Giappone
nel 1997 ad opera di un monaco buddista zen americano, con tutte le carte in
regola per una ricerca del genere: Brian Victoria ha vissuto a lungo in Giappone,
dove ha svolto il proprio training monastico e ha compiuto il corso di studi
buddisti alla Università Komazawa di Tokyo e attualmente è ricercatore
presso il Centro di Studi Asiatici dell'Università di Adelaide. Ha dunque,
almeno in teoria, i requisiti necessari per il lavoro che si è prefisso:
una conoscenza in prima persona del fenomeno religioso zen e della sensibilità
giapponese, la padronanza della lingua giapponese parlata e scritta, l'accesso
diretto ai documenti, la metodologia di ricerca scientifica. Devo ammettere
che, nonostante fossi a conoscenza di tutto ciò, mi sono accinto alla
lettura più per senso del dovere che per reale interesse, e sono partito
armato, visto che di guerra si tratta, di una buona dose di prevenzione pregiudiziale.
Deve trattarsi, mi dicevo, di un libro a tesi, del solito occidentale col dente
avvelenato verso i giapponesi che gliene hanno fatte di tutti i colori, sindrome
pressoché inevitabile per chi ha risieduto a lungo nel paese del Sol
Levante: ora gliela vuol fare pagare, pensavo, ha trovato l'argomento giusto
e, in sella al destriero del pragmatismo puritano americano, parte a testa bassa
facendo di ogni erba un fascio.
Onore al merito. Quando si legge un libro col filtro di un solido pregiudizio
è ben raro che la lettura riesca a dissolverlo: il libro in questione
ci è riuscito, nel mio caso, perché è un lavoro documentato,
pacato, politicamente corretto senza essere blando né inconcludente,
rigorosamente orientato senza accanimento terapeutico né spirito vendicativo.
Lo spirito del libro viene così descritto dall'autore: "In quanto
prete buddista della tradizione Soto Zen, non mi è stato facile scrivere
questo libro perché sono stato costretto a rivelare un lato oscuro della
storia moderna del buddismo, pur rimanendo fedele alla religione da me adottata.
Ricordo di essermi profondamente commosso, cinque o sei anni fa, quando incontrai
un vecchio prete buddista cinese che avevo messo a parte dei risultati preliminari
della mia ricerca. 'La prego non scriva questo, mi scongiurò, perché
metterà in cattiva luce il Dharma!' Il fatto che il prete fosse cinese
e vittima, insieme ad altri, dell'aggressione giapponese rendeva ancor più
commovente quella preghiera. Mi chiesi se per caso stessi per diffamare il Dharma
del Buddha. Che vi sia diffamazione del Dharma del Buddha dipende dal punto
di vista dell'osservatore - in questo caso il lettore - ma io ho condotto la
mia ricerca e ho scritto su questo argomento difficile e imbarazzante con in
mente un solo pensiero: la verità non può mai essere diffamazione.
Dopo tutto fu lo stesso Buddha Shakyamuni a dire: 'Siate luce a voi stessi;
fidatevi di voi stessi e di nessun altro; fate del Dharma la vostra luce e il
vostro sostegno e non fidatevi di niente altro'. In questo spirito ho cercato
di illuminare con più chiarezza possibile un passaggio oscuro e spaventoso
della storia del buddismo, nella convinzione che i buddisti, come tutti coloro
che aderiscono a qualsiasi religione e credo, debbano accettare le responsabilità
tanto degli esiti migliori quanto di quelli peggiori della loro fede".
A parte la questione se la verità possa o non possa in assoluto essere
diffamazione (problematica che ci porterebbe lontano, fino a un tentativo di
definizione di 'verità' che fortunatamente esula dalla portata di una
recensione) il fatto che dal punto di vista dell'osservatore dipenda o meno
il diffamare o l'onorare la verità religiosa cui si fa fede, è
la chiave di lettura a mio parere più interessante del libro. Non si
tratta solo dell'atteggiamento verso il tema del libro, per cui se chi legge
approfitta della critica in esso contenuta ai punti di vista e ai comportamenti
dei preti buddisti giapponesi di un dato periodo storico per denigrare il buddismo
in toto è un diffamatore, mentre se quella critica diventa occasione
di riflessione e approfondimento religioso questo è un modo di onorare
il dharma: c'è qualcosa di ancor più significativo. Questo libro
è un'occasione di riflettere sulla religione come alibi, sul rischio
intrinseco in ogni messaggio religioso, per raffinato e universale che sia,
di venir utilizzato, senza alterarlo nella sua enunciazione ma operando sull'intenzione
che lo orienta, per fini non solo del tutto impropri, ma addirittura opposti
a quelli che ispirano il messaggio religioso stesso. Si tratta quindi di guardare
con l'occhio più limpido possibile "gli esiti peggiori della propria
fede", senza approfittare della scappatoia di imputare quegli esiti solo
al carattere personale o culturale di chi quegli esiti ha prodotto, in questo
caso non limitandosi a liquidare la questione come effetto dell'atmosfera giapponese
dell'epoca (che certo ha svolto un ruolo tutt'altro che insignificante) ma scavando
più a fondo, fino a vedere quegli aspetti del messaggio religioso che
se per un verso ne costituiscono la forza, possono anche essere, per un altro
verso, sintomo di una sua debolezza. Come è stato possibile che, come
l'autore dimostra oltre ogni ragionevole dubbio, la quasi totalità della
"classe dirigente" clericale del buddismo zen giapponese abbia utilizzato
la visione, la pratica religiosa e la fede che il buddismo ispira a sostegno
del militarismo, dell'imperialismo, del fanatismo e, molto concretamente, delle
imprese efferate che il Giappone ha perpetrato in Asia (Cina, Corea, Manciuria
)
dalla fine dell'Ottocento fino al 1945? Come è stato possibile che il
sostegno incondizionato dato dal clero giapponese all'idea e alla prassi della
Guerra Santa, della Grande Asia Orientale, della superiorità incondizionata
del popolo giapponese fosse basato sui concetti buddisti di superamento dell'ego,
di liberazione della vita e della morte, di trascendenza della dialettica di
perdita e guadagno, persino sullo spirito della grande compassione universale?
L'autore analizza con cura il fenomeno, per quanto riguarda l'utilizzo dei "valori"
tipici del buddismo zen al servizio di una causa specifica, in questo caso l'imperialismo
del Mikado. Formalmente non c'è nulla da eccepire: il riferimento allo
spirito di sacrificio che, nella visione dell'inconsistenza di ogni forma di
guadagno, giunge alla prassi della rinuncia alla propria e all'altrui vita è
presente, in varie forme, in tutte le tradizioni religiose, e nello zen in modo
forse specifico. Ma sono l'orientamento e l'applicazione di questo piano formale
che vanno messi in discussione: altrimenti la più sublime enunciazione
può anche avere come esito la più infame delle prassi. La teorizzazione
dell'atto puro, che è premio a se stesso senza ulteriori aspettative,
frutto immediato della totale dedizione alla via, può avere come esito
una vita santa, ma anche una condotta criminale, a seconda del modo con cui
la via si incarna nel mondo. Sotto questo punto di vista il libro non riguarda
solo una particolare epoca storica di un particolare paese, ma chiunque pratichi
e ami il buddismo: deve indurre a riflettere sull'orientamento della propria
prassi, visto che la forma della prassi non è in se stessa garanzia di
equità. A questo proposito sono interessanti anche alcune riflessioni
critiche su certe caratteristiche del buddismo, che credo debbano diventare
materia di approfondimento per i buddisti contemporanei. Ne cito una che mi
ha colpito più di altre: una corrente del pensiero buddista giapponese
contemporaneo suggerisce che la dottrina buddista della coproduzione condizionata,
che dà luogo al concetto di non-ego, impedisce, così come è
generalmente formulata, che "nel buddismo si sviluppi il principio occidentale
di legge naturale, lasciando privi di fondamento i concetti moderni di 'diritti
umani' e di 'giustizia'". Certo è che il diritto formale assurto
a norma definitiva costituisce una tentazione e un alibi proprio per quello
spadroneggiare dell'io da cui il buddismo soprattutto mette in guardia, come
insegna la storia delle ideologie del secolo appena trascorso ivi compresa una
concezione solo quantitativa della democrazia. Questo libro ci ricorda che queste
tematiche non sono estranee al discorso religioso, perché il messaggio
religioso prende corpo sempre in realtà storiche determinate, e, pur
rimanendo inalterato nel tempo, deve misurarsi con le condizioni, le comprensioni
e le sensibilità del presente in cui si incarna.
E qui veniamo al secondo libro di cui suggerisco la lettura, anch'esso opera
di un religioso, critico, in questo caso, del "sistema religione"
nel suo complesso. La prima cosa che mi ha stupito di questo libro è
lo status del suo autore, un vescovo cristiano; e la seconda è stato
il mio stesso stupore: se stupisce, mi sono detto, che un vescovo (inteso come
pastore di anime e autorevole legittimo rappresentante della propria tradizione
religiosa) sia così lucido e intellettualmente onesto nei confronti della
religione, vuol dire che il fenomeno religioso non gode di buona salute, almeno
a livello istituzionale. L'autore è, infatti, vescovo di Edimburgo e
presidente della Conferenza Episcopale Scozzese di rito anglicano (o almeno
lo era fino a poco tempo fa, perché ora si è dimesso, a quanto
pare). Il libro (Richard Holloway - Una morale senza Dio - per tener fuori la
religione dall'etica - Ed. Ponte alle Grazie, 2001 - pag.187 - lire 26.000)
sostiene una tesi semplice e chiara: vista la necessità di elaborare,
o quantomeno di porre le basi per un'etica universale in cui tutti gli abitanti
del pianeta possano almeno potenzialmente riconoscersi, la prima cosa da fare
è tenere fuori Dio e la religione dalla questione. "L'argomento
di questo libro non è né Dio né la sua esistenza, anzi,
muove dalla convinzione che la religione e Dio debbano essere tenuti separati
dalla ricerca di principi etici generali. In questo senso, allora, è
un libro senza Dio, anche se i lettori più attenti vedranno in ciò
un paradosso. Se vi è un'entità che chiamiamo Dio, e se Dio è
qualcosa di più della proiezione dei nostri valori più alti e
delle nostre aspirazioni alla trascendenza, allora l'idea di Dio è necessariamente
implicita in tutte le nostre tensioni morali; quindi il tentativo di trovare
una moralità scevra da Dio sarebbe, paradossalmente, il suo più
grande trionfo, e il nostro tentativo di vivere moralmente come se Dio non esistesse
la più grande prova di fede. In questo libro si troveranno frequenti
riferimenti a Dio e alla religione ma il suo scopo è di unire i credenti
e i non credenti nella ricerca di un'etica praticabile nella nostra epoca".
Lasciatemelo dire: non si trova tutti i giorni un vescovo che ragiona così,
per il semplice fatto che al giorno d'oggi non fanno vescovo un religioso che
ragiona così.
Il libro, scritto con tono spigliato e non privo di sense of humor nonostante
(o forse proprio in omaggio a) la serietà del tema, prende in esame alcune
problematiche concrete attuali nella nostra società (uso delle droghe,
sessualità, bioetica...) affrontando i problemi con cognizione di causa
e con atteggiamento radicale: nel senso di analizzare i problemi alla loro radice,
evitando la tentazione dottrinale e moralistica di innestarli su una radice
impropria. Dio e la religione di appartenenza, infatti, quando sono invocati
come radice della morale diventano un alibi per la pretesa indiscutibilità
del canone morale di riferimento: e la rivelazione, invece di essere il segno
particolare dell'universalità che si fa realtà concreta (e dunque
com-promessa al mondo, in simbiosi con esso e partecipe di un identico destino)
diviene rivendicazione di un privilegio e alienazione dal mondo, con la pretesa
però di interferire su di esso da una posizione indiscutibile e non verificabile.
Oggi più che mai, sostiene l'autore, la direttiva morale va cercata attraverso
il confronto e la ricerca del consenso, e non appellandosi al principio di autorità,
che sempre meno persone riconoscono come valida sorgente della norma etica.
Questa ricerca passa attraverso la non identificazione fra immoralità
e peccato, che sono due concetti intrinsecamente differenti. "A questa
[nuova] morale spetta raggiungere un giusto equilibrio fra accettazione delle
legittime differenze di sistemi di valori e rifiuto di credere che tutti i valori
si equivalgono". Il pluralismo dei sistemi non ha nulla a che fare col
relativismo della moralità. Ma perché siano possibili un dialogo
e una ricerca oltre il limite della propria visione, che sono ormai indispensabili
per la civile convivenza planetaria, è fondamentale prendere atto che
le differenze e i conflitti in materia di morale non sono l'antitesi fra il
bene da una parte e il male dall'altra, ma fra due diverse concezioni di bene.
Laddove i detentori di un sistema morale, per quanto sofisticato, lo identifichino
con il bene tout court, questo fa implicitamente di ogni altro sistema alternativo
una modalità del male: questa rozza semplificazione, così appagante
il buon senso comune e così stravolgente la realtà delle cose,
è la matrice dei più feroci conflitti e vanifica ogni ricerca
di una morale universale come base di una convivenza non sostenuta solo dalla
legge del più forte. Ogni concezione assoluta che abbia la pretesa dell'esclusività
assume la veste ideologica dell'assolutismo: per questo la ricerca di un valore
universale nel senso di universalmente condivisibile e non di universalmente
imposto, non deve appoggiarsi su nessuna concezione assoluta, di cui l'idea
di Dio (la propria idea di Dio) è l'esempio più evidente.
Non dipendere da un'idea di Dio come punto di appoggio alla morale universale
del vivere, non approfittare dell'indipendenza da un'idea di Dio per vivere
con una morale autoreferenziale: sono, in fondo, le due facce dell'idea religiosa
di fondo che è alla base di entrambe i libri la cui lettura consiglio,
dato che si tratta di una prospettiva concreta per l'avvenire della religione
e dell'umanità.
da: La Stella
del Mattino, n. 2 - ottobre-dicembre 2001
Per maggiori informazioni:
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Telefono 0371.424801
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