COMMUNITY BUILDING


L'economia del vivere
Intervista con Rusty Myers

Lo scorso ottobre si sono svolti a Roma e Torino due seminari di Community Building facilitati da Rusty Myers, venuto dagli USA, e da Sandra Parolin. Crediamo sia stata un'esperienza molto importante che ci auguriamo di poter ripetere, con nuovi appuntamenti, anche per l'anno in corso, in modo da proseguire la ricerca e la pratica sul retto modo di stare con gli altri. L'area dell'ascolto e della parola rappresenta forse il naturale terreno di incontro tra lavoro interiore e impegno sociale e comunque sperimentare la 'saggezza del cerchio' significa accedere a una dimensione nuova, dove i confini personali fatti di paura e sfiducia iniziano progressivamente ad allargarsi favorendo così l'incontro - e l'ascolto - proprio di ciò che in genere è altro dal nostro consolidato modo di vedere e sentire. E in questo viaggio verso l'altro da noi può anche capitare di imbattersi in risorse che giacevano un po' sepolte e nascoste dentro di noi.
La pratica della condivisione in cerchio deriva di base dalla tradizione spirituale degli Indiani di America che è riuscita a sopravvivere fino ai nostri giorni. Da qui sono nate poi nuove elaborazioni che, senza perdere l'originaria visione, hanno integrato influssi e apporti diversi, quali appunto il
Council e il Community Building, solo per citare gli incontri degli ultimi mesi.
Oltre a pubblicare alcune testimonianze di partecipanti ai seminari di community building di Roma e Torino - che crediamo siano il mezzo più idoneo per trasmettere almeno un vago sapore di quanto sperimentato - non abbiamo voluto che scivolasse via, come forse lui stesso avrebbe preferito, la storia di Rusty Myers che, ci sembra, in qualche modo costituisce un tassello non affatto secondario dell'esperienza che abbiamo condiviso insieme.
Già collaboratore di Scott Peck e membro della
Foundation for Community Encouragement, Rusty durante la sua permanenza romana, ci ha raccontato anche di altri territori attraversati nel corso della sua vita e proprio durante una di queste conversazioni abbiamo deciso di accendere il registratore. Ringraziamo Liza per il prezioso lavoro di editing.


Intervista di Roberto Mander con Rusty Myers

D: Ieri parlavamo di Hiroshima e di quel che è accaduto in Giappone nell'agosto del 1945, e tu hai detto una cosa che mi ha molto colpito: hai detto che tu sei uno dei pochi, in Occidente, che ancora pensano a ciò che accadde allora. Puoi spiegarti meglio?
R: Prima di tutto voglio chiarire il mio pensiero e cioè che a ricordare Hiroshima e ciò che accadde nell'agosto del 1945 siano in molti, ma pochi individuano il 6 agosto come una data da ricordare ogni anno. Quanto a me, ecco cosa mi è accaduto.
All'inizio degli anni Novanta ho incontrato un gruppo di persone cui mi sentii subito molto legato, come se avessimo condiviso vite passate, e perciò chiesi loro se avessero voluto incontrarsi. Lo facemmo in dodici, con il solo scopo di incontrarsi e vedere che cosa ne sarebbe nato. Quell'incontro fu un'esperienza molto forte, e stringemmo fra noi un rapporto molto profondo. L'ultima notte che trascorremmo insieme facemmo sogni molto simili, che avevano come tema il concepimento di qualcosa. Nessuno dei sogni diceva chiaramente che cosa avevamo concepito, ma tutti sapevamo che prima che l'oggetto del nostro concepimento vedesse la luce doveva passare del tempo. Qualche mese dopo, una persona che aveva partecipato a quell'incontro fece un sogno da cui emergeva che il 6 agosto era una data importante su cui dovevamo concentrare l'attenzione e che avrebbe potuto essere il momento della nascita di quella cosa - di qualsiasi cosa si trattasse - o in cui avremmo ricevuto alcune informazioni.
Poi anch'io feci un sogno in cui mi veniva detto di recarmi al centro degli Stati Uniti, in un luogo conosciuto dagli indiani Pawnee come il centro dell'Isola delle Tartarughe (per i Pawnee l'Isola delle Tartarughe è il continente nordamericano): un luogo sacro per quel popolo. Io ci andai, senza pensare che il 6 agosto era la data di Hiroshima. Ma quando ci arrivai, il primo essere che mi si parò di fronte fu un coyote. Il coyote mi ricordò che si trattava di un momento importante, e l'incontro con il coyote mi riportò alla mente che aveva avuto luogo una grande distruzione dello spirito umano, dello spirito umano innocente. Così, ogni 6 agosto mi reco in quel luogo e mi siedo a pregare affinché cose del genere non accadano più, affinché vite innocenti non vadano perse. E, dato che il popolo Hopi crede nelle sue leggende secondo cui il tempo della purificazione è qui e ora, credo che sia un momento importante per l'essere umano. L'inizio del tempo della purificazione fu segnato dalla comparsa della 'zucca delle ceneri'1. E il momento della 'zucca delle ceneri' fu quello in cui la bomba fu sganciata su Hiroshima. Perciò rappresenta per me un momento importante per prestare attenzione a ciò che l'essere umano si accinge a fare e agli scopi che ci prefiggiamo. Mi reco là con uno spirito di preghiera e mi siedo in silenzio, in meditazione, chiedendo la guida del Grande Spirito. Prego e chiedo guida per l'uomo.

D: Anche la tua storia personale ha conosciuto la tragedia, il sangue, la morte violenta. Con questo retaggio di sofferenza e considerando il presente e il futuro, che cosa significa prestare attenzione al momento presente, alla Terra, in questo preciso momento?
R: Forse ti sembrerà che io stia divagando, ma penso che la cultura dominante nella quale vivo - che considero una cultura eurocentrica, perché questa è sostanzialmente la struttura del potere degli U.S.A.- sia fondata sul debito. E mi spiego. Quando nella nostra cultura il bene di scambio era l'oro, non potevamo coniare più moneta di quanto fosse l'oro disponibile. Ma noi abbiamo sostituito il bene di scambio, e ora ciò che supporta la nostra moneta - lo scambio di beni e di servizi; tutta l'economia monetaria mondiale - è il debito. Così, secondo il pensiero economico dominante, si ritiene che noi prendiamo a prestito da noi stessi. Ma io non la vedo così. Io penso che ciò che in realtà stiamo prendendo a prestito è la nostra Madre Terra, e la nostra Madre Terra è il dono che abbiamo ricevuto dal Grande Spirito, da Dio. Noi stiamo prendendo le risorse della Madre Terra a un ritmo allarmante. Dunque, il capitale da cui stiamo prendendo a prestito è costituito da quelle risorse. Per me, prestare attenzione a ciò che l'essere umano sta facendo non solo significa osservare il modo in cui ci trattiamo a vicenda, la considerazione che abbiamo della nostra e dell'altrui vita, ma anche il modo in cui trattiamo tutti gli altri esseri.
E dico 'tutti gli altri esseri' perché credo veramente che lo spirito viva in tutto ciò che esiste, anche in un'automobile, che è frutto di lavorazioni e di modifiche, ma che tuttavia è fatta degli stessi elementi di cui sono fatto io: in un'automobile non c'è meno spirito che in me. Posso raccontare una storia a proposito di questo. Un mio amico che commerciava in automobili mi disse che desiderava fare con me una passeggiata per i boschi. Voleva fare la stessa esperienza dei boschi che facevo io, sentire anche lui i messaggi che io vi percepivo. Quando risalimmo in macchina - la sua macchina, una Lincoln Continental molto costosa - gli dissi: "Lo sai che qui dentro puoi sentire le stesse cose che hai sentito nel bosco?" Lui mi guardò come per dire: "Che idea strampalata!", e io proseguii: "No, non c'è niente di strano, perché gli elementi di cui sono fatti i boschi sono gli stessi di cui sei fatto tu e di cui è fatta questa macchina". E poi gli chiesi: "Hai mai pensato di pregare sulle tue automobili e di benedirle prima di venderle?" Rispose: "No". Allora gli suggerii di provarci. La maggior parte delle automobili - macchine molto costose - lui le vendeva a gente facoltosa che usava cambiare macchina una volta all'anno o poco più. Andammo nella sua rimessa e prendemmo cinque automobili su cui pregai e che benedissi. Poi gli raccomandai: "E adesso, non perderle d'occhio e guarda che cosa succede". Quelle automobili furono vendute tutte e cinque nel 1991, e due anni fa, nel 1999 - vale a dire otto anni dopo - erano ancora in possesso del loro primo proprietario. A quanto dice lui, le trattano con grande rispetto. E quindi, secondo me, c'è uno spirito che opera.
Così, se io concentro la mia attenzione su un punto particolare, al centro dell'Isola delle Tartarughe, in un giorno importante in cui gli esseri umani non si sono prestati attenzione l'un l'altro, in cui ebbe luogo, secondo i miei canoni, una grande atrocità (molto simile alle grandi atrocità che si verificarono nel processo di formazione degli Stati Uniti, in cui morì molta gente e scorsero fiumi di sangue) sto facendo la mia parte per modificare le cose in meglio. Questo devo farlo tutti i giorni, ma scelgo quel giorno particolare per dedicarvi tutta la mia attenzione, e sento che è come se da ciò sgorgasse un rivolo d'acqua fresca.

D: Vorrei ora chiederti qualcosa sulla tua vita. In che modo hai iniziato a dedicarti al community building, alla 'costruzione della comunità'? Mi è sembrato di capire che all'inizio facevi un lavoro completamente diverso e che anche il tuo modo di concepire la famiglia era diverso. Potresti dirci qualcosa in proposito?
R: I miei sono stati degli ottimi genitori, anche se, specie mio padre, ha negato molte cose. Non sapevo che lui fosse un Indiano d'America; non me ne ha mai parlato. Morì ancora giovane, a 54 anni, nel 1964, e quando è morto non sapevo che lui era un Indiano e che nelle mie vene scorreva sangue indiano. Perciò, sono cresciuto come crescono mediamente i giovani negli Stati Uniti. Il valore più grande era guadagnarsi da vivere e lavorare. Mio padre lavorava sei giorni alla settimana per nove ore al giorno. La domenica mattina la trascorreva per lo più in chiesa, e il pomeriggio andava a fare i conti. Perciò, se vogliamo, tutta la nostra vita familiare ruotava intorno al guadagnare soldi. Era questo che contava. Quando mi sono laureato e ho lavorato come insegnante, non guadagnavo molto e quindi non mi sentivo stimato. Così, per sentirmi più stimato, ho iniziato a lavorare in banca e ho preso un diploma post laurea in scienze economiche. Contemporaneamente avevo messo su famiglia. Stavo ricalcando il modello familiare della mia infanzia. E quindi stavo negando me stesso come aveva fatto mio padre.
Mi resi conto di questi modelli di negazione quando mi fu chiesto di andare in India all'interno di un programma di scambio e di tenere delle conferenze presso alcune università dell'India centro meridionale. Dovevo parlare di economia. Alla prima conferenza c'erano circa cinquecento studenti. Avevo preparato due interventi, uno di venti e l'altro di cinquanta minuti, ma decisi di tenere prima quello di venti minuti e poi dedicare un po' di tempo alle domande e risposte per vedere se valesse la pena di fare l'altro. Alla fine del mio intervento qualcuno chiese: "Ci parli dei matrimoni d'amore. Perché vi sposate per amore? Di che cosa si tratta?". Sapevo di aver fatto anch'io un cosiddetto matrimonio d'amore, ma in realtà non ci avevo mai pensato. E per giunta, non avevo la più pallida idea di che cosa c'entrasse questo con l'economia. Ma tant'è, quella era la domanda. Così, per non sembrare cattivo (con il mio grosso ego e il mio orgoglio) gli diedi una risposta, che però non era una risposta onesta. Fu una risposta messa insieme per sembrare buono. Loro la presero per vera, e io provai un senso di imbarazzo. Poi venne la seconda domanda: "Ci parli del divorzio. Perché voi divorziate?" A quell'epoca io sapevo che il mio matrimonio non navigava in buone acque, anche se ne ignoravo il perché. Era semplicemente una sensazione, ma ancora una volta, per apparire buono, diedi una risposta che ritenevo intelligente. Vedevo bene che gli studenti mi ascoltavano veramente. Erano sul serio interessati alle domande che facevano. Ma ancora una volta, mi sfuggiva che cosa c'entrassero quelle domande con l'economia. Il corso di laurea in economia non prevedeva materie del genere. Poi un altro chiese: "Perché da voi, i vecchi vengono allontanati? Perché non li tenete a casa con voi?" Risposi anche questa volta, ma ignoravo tutto sull'argomento. Quando l'incontro fu terminato, gli studenti erano molto soddisfatti, e io ero distrutto, depresso. Avevo capito che quei ragazzi volevano sapere davvero in che cosa consistesse realmente l'economia (non soltanto il sistema monetario). Che cosa facciamo nella vita e qual è l'economia del vivere?
È stato questo che ha innescato il cambiamento dentro di me. Quando tornai negli Stati Uniti - all'epoca avevo ancora un ottimo posto in banca - avevo ormai capito che scopo della mia vita era di cercare di compiacere gli altri in modo da apparire buono, che in quello consisteva la mia vita. Non sapevo davvero chi fossi. Ero un'anima persa. Cercai aiuto. Mi rivolsi a psicologi. Mi rivolsi a consiglieri spirituali. Mi rivolsi a chiunque e a qualsiasi cosa potesse aiutarmi a dare risposta ai miei interrogativi: "Che cosa sto facendo? A che cosa mi sto applicando? Che cosa è reale per me? Che cosa è importante per me?" Da bambino avevo sempre avuto la sensazione di non star facendo quel che veramente avrei dovuto fare, di non essere perfettamente inserito nella cultura dominante, ma non sapevo perché.
L'evento che mi aiutò a trovare una risposta a queste domande accadde nel 1986, quando ricevetti alcune informazioni da parte di una zia di mio padre, sorella di mio nonno. Queste informazioni riguardavano il mio retaggio di indiano d'America. Scoprii più tardi che mia zia viveva nella Riserva Indiana di Ponca, nel nord dell'Oklahoma. L'avevo vista soltanto due volte in vita mia. Una volta partimmo in macchina da Tulsa in Oklahoma, la città dove sono nato. A un certo punto mio padre fermò la macchina sul ciglio di una strada sporca, e una donna indiana venne fuori dai boschi. Mio padre scese dalla macchina e fece una passeggiata con lei. Io, mia madre e mia sorella rimanemmo in macchina e mia madre, che ha nelle vene sangue scozzeze, irlandese, olandese e inglese, era molto agitata. Al che, io e mia sorella che sedevamo sul sedile posteriore, ci paralizzammo, ben sapendo che qualsiasi cosa avessimo fatto, nostra madre si sarebbe arrabbiata moltissimo. Mio padre risalì in macchina ma con mia madre non si scambiarono una sola parola. Lui guidò per circa un'ora prima di dire qualcosa, ma non fecero menzione di chi fosse quella persona. Io avevo capito che si trattava di una donna indiana perché tale sembrava nelle movenze, ma chi fosse non lo sapevo. Ricordo che una cosa analoga accadde due volte, quando ero ancora alle elementari.
Da questa esperienza appresi che fra i miei genitori c'era tensione per il fatto che mio padre era indiano. Avevo circa sei anni quando feci un'altra esperienza che rimandava alla mia eredità indiana: ebbi delle visioni che mi terrorizzarono. Normalmente, accadeva quando andavo a letto. In quel momento, sembrava che la stanza si allontanasse, e allora chiamavo i miei genitori gridando: "La stanza si sta allontanando!" Loro mi portarono da uno psicologo, una persona molto gentile, che mi prestò molta attenzione. Non mi faceva paura, ma, in qualche modo, sapevo che non capiva quel che stava accadendo. E neanche i miei lo sapevano. Compresi che la cosa importate da fare era lasciare che la stanza si allontanasse. Compresi che se non l'avessi detto a nessuno, nessuno se ne sarebbe preoccupato (è così che sono cresciuto: se non mi preoccupavo io, nessun altro lo avrebbe fatto, perché tutti erano occupatissimi). Così, lasciai che la stanza si allontanasse; in pratica, era un po' come quando si guarda una strada molto dritta, e quella, sulla distanza, diventa sempre più stretta. La stanza si allontanava un po' in questo modo. Poi tutto diventava buio e dopo apparivano forme evanescenti di piccoli cuccioli di animali, feroci e domestici. Erano molto confortanti; mi facevano sentire tranquillo e rilassato. Per non sentirmi un disadattato, imparai ad accedere a quella visione in qualunque luogo mi trovassi. A scuola, seduto al mio banco, riuscivo a far sì che la stanza si allontanasse. La cosa strana era che quando mi trovavo in quello stato a scuola non venivo mai disturbato. Non so se ho risposto alla domanda; forse ho divagato.

D: Ci sono alcuni punti importanti nella tua vita che ti hanno portato in una certa direzione. Mi piace l'espressione "economia del vivere". Quando hai incontrato il community building, il metodo che ora stai promuovendo in tutto il mondo?
R: Sì, quando mi sono imbattuto nel community building avevo già dato le dimissioni dalla banca, ero entrato in seminario e avevo completato gli studi. Tuttavia, al momento dell'ordinazione, quando lessi i voti, capii che non facevano per me. Mi sembrava un cammino troppo esclusivo, per lo meno nel modo in cui lo interpretavo io, e quindi decisi di non proseguire. Finii a lavorare per un'organizzazione che si occupava di alcolismo e tossicodipendenze, che contava dodici centri di cura in sette stati. Frequentai alcuni corsi per diventarne operatore e poi, data la mia precedente formazione, ben presto mi nominarono amministratore. C'era un grande divario fra come noi amministratori ci relazionavamo gli uni con gli altri e ciò che insegnavamo. Insegnavamo principi che mi parevano ottimi, buoni ideali, basati sostanzialmente sui principi dell'Anonima Alcolisti e sui 12 passi, ma noi che lavoravamo là, non ci trattavamo reciprocamente secondo quei criteri.
Mi misi quindi all'opera per cercare un'alternativa a quel comportamento, da poter presentare al nostro gruppo così da riuscire a comunicare in maniera più efficace. Mia moglie se n'era resa conto. Lei gestiva una libreria e un giorno portò a casa un libro intitolato The Different Drum (Il tamburo diverso) di Scott Peck. Io lo lessi tutto d'un fiato il giorno dopo: mi chiusi a chiave in ufficio per farlo. Alla fine del libro c'era un numero di telefono. Chiamai perché volevo fare esperienza di ciò che Peck aveva scritto, e lui mi disse che il libro non bastava. Per comprendere veramente dovevo farne esperienza diretta. Io gli credetti, e quello fu il primo passo verso la comunità, che corrispondeva di più a ciò che io ero veramente. Mi diede grande energia e mi rese più presente alla vita quotidiana.

D: Come puoi descrivere il processo del community building? Noi ne abbiamo appena fatto esperienza a Roma e a giorni ti recherai a Torino per un altro seminario. Qual è il legame fra questa esperienza di tre giorni molto dura, molto forte, e la vita ordinaria della gente?
R: Rifacciamoci un attimo all'India. Quando tornai dall'India mi resi conto che stavo vivendo una vita che negava alcune realtà. Che c'erano cose che ci si aspettava che io facessi che non erano veramente reali, che non mi permettevano di essere la creatura umana reale, lo spontaneo spirito creativo che ero. Nella mia vita privata con mia moglie, stavo negando un problema di alcool. Sono cresciuto nella negazione: mio padre negava il suo retaggio. Mi sono guardato intorno e ho pensato che questa cultura vive nella negazione. Non solo io. Noi non siamo autentici gli uni con gli altri; i rapporti sono molto superficiali. Io sono un banchiere, salgo in cattedra, parlo continuamente alla gente ma non sto comunicando veramente. Di certo, non c'era alcuna intimità in nessuno dei miei rapporti, neanche con mia moglie. Me ne sono reso conto quando sono stato in India.
Il contrasto con questo modo di vivere è scoppiato quando sono andato a fare la mia prima esperienza di community building: le persone parlavano della loro vita reale; parlavano di quella che per loro era la realtà presente e di tutto quello che nascondevano agli altri. Parlavano di come eventi della loro infanzia condizionavano il loro comportamento odierno; insomma, parlavano di tutto ciò che comunemente si pensa faccia parte di una seduta terapeutica. E invece lo facevano fra di loro, onestamente, e a me piacque. Desiderai moltissimo farlo anch'io. Nel seminario potevo parlare in maniera autentica e gli altri non mi criticavano; ascoltavano semplicemente e accadeva che uno spirito tangibile entrava nella stanza, entrava nel gruppo. Furono gettati i semi per un ulteriore approfondimento. Quando ci lasciammo non eravamo euforici, ma provavamo un senso di collegamento con la realtà. Le cose erano reali; noi eravamo onesti gli uni con gli altri. Non ci nascondevamo a vicenda; qui era diverso, corrispondeva a ciò che io ero e sentivo che non sarebbe svanito. Nella mia vita quotidiana mi dicevo: "Non sono una persona autentica; non sono onesto con le persone con cui lavoro". Allora ho cominciato a farlo, e questo ha spaventato tutti. Dicevano: "Amico, non voglio sentire queste cose". E io rispondevo:" Ma io voglio sentire quel che hai da dirmi". Allora mi guardavano in modo strano, come per dire: "Stai scherzando? Non ho la minima intenzione di parlare con te in questo modo!". E tuttavia, prima o poi, tornavano a gironzolarmi intorno perché, prima di tutto, sapevano che non avrei tradito la loro fiducia e secondo poi, sapevano che non li avrei criticati, qualsiasi cosa mi avessero detto. Che si fosse trattato delle brutture della loro zona d'ombra o delle belle cose della loro gioia, io avrei prestato attenzione. Io mi svelavo a loro e loro si svelavano a me, e così mi giovavo dell'essere onesto e reale con loro. Io vivo così. Spesso, quando mi trovo insieme agli amici in pubblico, degli estranei iniziano a raccontarmi la storia della loro vita, e gli amici che sono con me non riescono a crederci, perché a loro non succede mai. Ma io sono aperto a questo genere di cose, e così, grazie a questo, la mia vita è cambiata. Persone appena incontrate prendono subito a parlarmi delle difficoltà della loro vita, senza la minima esitazione. Penso che ciò accada perché sono disponibile a fare questo con loro, perché c'è un certo spirito nel farlo. Non è che io lo chieda. Quello spirito lo porto con me. Ed è anche il mio lavoro come uomo di medicina, il lavoro dello spirito.

D: Il tuo lavoro ti porta in luoghi di grande sofferenza: per esempio, nelle prigioni o in paesi del mondo che hanno fatto esperienza di grandi distruzioni come la Russia. Puoi parlarci di questo?
R: Un tempo ero un grande realizzatore di traguardi. Stabilivo i miei traguardi e individuavo gli ostacoli, quindi creavo gli obiettivi adatti a superarli. Finché mi sono mosso in questa ottica, non avrei mai potuto finire in altri paesi. Abbandonare quell'atteggiamento di controllo e permettere allo spirito di farmi da guida - che è quanto faccio nel partecipare al community building - mi hanno portato in tutto il mondo. Non avrei mai neanche immaginato di poter lavorare nelle prigioni o in paesi di tutto il mondo. Ecco come mi hanno chiamato a lavorare nelle prigioni: una sera, mi stavo preparando per andare a letto quando ha squillato il telefono e la persona all'altro capo mi ha detto: "Qualcuno mi ha parlato di lei; vorrebbe prendere in considerazione di lavorare nelle prigioni?" Non avevo nessuna passione e nessuna particolare comprensione delle prigioni, per cui ho risposto esterrefatto: "Cosa?" E lui: "Ho ottenuto dei fondi dal Ministero del Lavoro che sta esplorando modi diversi di lavorare con i detenuti al fine di influire sui comportamenti recidivi e vorrei che lei lavorasse con me utilizzando il community building.
Non accettai immediatamente ma dissi che avremmo potuto incontrarci per parlarne. Infatti così facemmo. Mettemmo a punto una strategia, e io finii per andare a lavorare al Dixon Correctional Institute (DCI), che è una prigione sussidiaria di Angola. Angola è una prigione di massima sicurezza, durissima, dove si sono verificate molte atrocità, e quando un detenuto lascia Angola viene mandato al DCI per circa cinque anni prima di venire rimesso in libertà. Elaborammo un progetto di ricerca usando come base il community building e, insieme a quello, un programma di istruzione.
Con un gruppo facemmo l'esperienza di community building della durata di tre giorni, seguito da un programma di lettura di sei settimane. Qui, la capacità di lettura veniva controllata prima e dopo l'esecuzione del programma. Con un altro gruppo demmo corso al programma di lettura di sei settimane (senza community building), e anche qui controllammo le capacità di lettura prima e dopo. Nell'ambito del programma di lettura di sei settimane i detenuti si incontravano due volte alla settimana per due ore (per un totale di quattro ore alla settimana). Alcuni sapevano leggere abbastanza bene (anche se erano in pochi a saper leggere al di sopra del livello ginnasiale, alcuni non sapevano leggere affatto e altri si collocavano a metà strada fra questi primi due gruppi (intorno al livello di terza elementare). Li dividemmo in piccoli gruppi dei quali faceva parte almeno una persona che sapeva leggere abbastanza bene e una che non sapeva leggere affatto. Dovevano leggersi a vicenda dei brani e li stimolammo dicendo che il più grande dono che fosse capitato al gruppo era la persona che non sapeva leggere e che se il gruppo fosse riuscito a trovare il modo di insegnare a quella persona a leggere ognuno ne avrebbe tratto beneficio. Nel gruppo che aveva fatto l'esperienza del community building le paura degli altri era sparita e tutti si rispettavano e si fidavano reciprocamente. Quando si costruisce una comunità in prigione, fondamentalmente, il processo diventa un po' come una confessione e noi mantenemmo la massima riservatezza. Dicemmo loro che le telecamere erano state spente e per dimostrarlo le coprimmo con dei teli e mostrammo loro che i microfoni erano spenti. Nessuno poteva lasciare la stanza e tutto ciò che veniva detto là dentro sarebbe stato considerato riservato. Spiegammo anche l'importanza del discernimento e del giudizio personale su quanto avrebbero condiviso. Alla fine delle sei settimane di lettura, il gruppo che aveva vissuto l'esperienza del community building migliorò di due livelli le proprie capacità di lettura (il che non si era mai sentito) e tutte le persone che non sapevano leggere ora leggevano e ne traevano piacere. Nell'altro gruppo le capacità di lettura si abbassarono un poco.
L'invito a recarmi in Russia mi venne da un amico che mi chiamò e mi disse di aver appena finito di parlare con un professore dell'Università di Mosca che aveva letto i libri di Scott Peck. La Russia aveva vissuto un grosso sconvolgimento e gli stati dell'ex Unione Sovietica stavano vivendo gravi conflitti. Volevano fare un accordo di pace e intendevano invitare due rappresentanti di ogni stato. Il professore voleva sapere se avremmo potuto usare il metodo del community building per facilitare un processo volto ad avviare quello sforzo di pace. Io dissi di sì, pur non sapendo parlare il russo e non possedendo informazioni precise sulla situazione.
Quando arrivammo a Mosca mi fu chiesto di fare un discorso a coloro che partecipavano all'incontro. Eravamo in tre con il compito di favorire la pace, e uno di noi era sostanzialmente un teorico: aveva compreso e amava la teoria del community building. Fu dunque lui ad alzarsi in piedi per parlare ma il traduttore non riusciva a tradurlo. Dunque, la situazione era la seguente: noi tre sul podio, insieme ai rappresentanti dell'ufficio del Presidente, dell'ufficio del Primo Ministro, il rettore dell'università di Mosca; tutti avevano pronunciato il loro discorso, e ora toccava a noi, a quelle persone venute dall'America, che avrebbero agevolato la creazione di un accordo di pace. Nella sala il conflitto era palpabile, ma tutti si comportavano con molta cortesia, una cortesia diplomatica. Non so se mi capite. Mentre stava parlando, il mio amico mi guardò e mi chiese: "Questo lo capiscono?" Io dissi: "Non hanno la più pallida idea di quel che stai dicendo". Lui allora annunciò: "Desidero fare una breve interruzione per parlare con i miei colleghi". Ci riunimmo tutti e tre sul podio e lui disse: "E ora, che cosa facciamo?" E io dissi: "Non siamo venuti qui per fare discorsi, non siamo dei conferenzieri e non è questo il modo per fare community building. Il community building consiste nel modo di stare insieme ed è questo che siamo venuti a fare." E allora lui chiese: "E allora cosa dovremmo fare?" "Siediti" gli dissi "parlerò io". Andai al microfono e dissi: "Siamo venuti dagli Stati Uniti con un modello per la costruzione la comunità e non è questo il modo per realizzarlo. Io non sono un gran parlatore e non so fare discorsi, ma conosco un modo di stare insieme. Se volete partecipare a un processo di apprendimento di tipo esperienziale sono qui per farlo insieme a voi. Ma non possiamo avere questi microfoni e i traduttori in cabina. Ci dobbiamo disporre in cerchio e guardarci gli uni con gli altri, ed essere autentici. Siete disposti a farlo?"
Tutti volevano farlo, e così scomparvero i tavoli e scomparvero anche i microfoni. Tirammo la grande tenda grigia che copriva il muro e si scoprirono alcune finestre che si aprivano su un bellissimo cortile. Ci disponemmo in circolo e cinque giorni dopo… - ci credereste? - fra di loro era nato un legame profondo. E tuttavia credo fermamente che se all'inizio di quel laboratorio avessero avuto per le mani dei fucili non avrebbero tardato a spararsi a vicenda. Questo per dire quanto fosse difficile il conflitto e aspra la tensione.
Un'altra volta - ero in Sud Africa - ricevetti la telefonata da un tizio, un inglese, cui era stato chiesto di adoperarsi per creare una comunicazione fra le persone che avevano occupato una posizione di potere e i cittadini. Mi invitò a unirmi a loro. Era un'iniziativa che nasceva dalla base, il che significava che non saremmo stati pagati. Accettai, senza dubbio vi avrei partecipato.

D: La mia ultima domanda riguarda il cerchio e la paura. Intendo dire che il più grosso ostacolo nel raccontare con onestà la nostra storia sembra essere la paura. Perché il cerchio? In che modo il cerchio ci sostiene nella lotta con la paura?
R: Il cerchio è sacro in molte tradizioni spirituali perché ci mette su un livello o su un piano di parità. Tutti possono vedere tutti. Non c'è una disposizione gerarchica. È un contenitore che accoglie le persone impegnate in una comunicazione difficile e include tutto. Non esclude niente e quindi, con quella forma che fa parte della struttura, le persone cominciano a vedersi a vicenda. Se vuoi, il cerchio favorisce l'inclusione. Questo spezza alcune barriere della paura e così, quando presentiamo le linee guida e gli strumenti necessari a costruire la comunità, le persone non sentono di avere qualcuno sopra di sé che dice loro cosa fare, dove andare e come arrivarci. Il passo successivo è che la facilitazione è facilitazione che proviene dal vuoto, non dalla gerarchia. Questo è diverso e può far paura perché la maggior parte di noi non è abituata a questa forma di facilitazione. Siamo abituati a vedere una persona che entra e che si pone come l'esperto. E benché io riconosca di essere in un certo senso un esperto - vale a dire che so di essere necessario nel processo di costruzione della comunità, che ho molta esperienza in questo senso - non sono depositario di un ruolino di marcia o di un piano preciso su come andranno le cose. Mi fido del processo di costruzione della comunità, dello spirito di tale processo. Perciò, la costruzione della comunità come ne abbiamo fatto esperienza a Roma si apprende nel farne esperienza. Ma mantenerla nel tempo è cosa del tutto diversa. Richiede una disciplina, una pratica nell'usare le linee di guida e nel fidarsene. E ciò rende necessario che noi continuiamo a costruire la fiducia, perché la fiducia svanisce; se ne va. Perciò non è una cosa che potete fare una volta e pensare: "Fatta una volta, la possediamo per sempre". Non funziona così. Non è una religione. È qualcosa che assomiglia allo Zen. È una via. La potete usare in qualsiasi circostanza. La potete usare in organizzazioni di affari e non profit. La potete usare per creare un legame con gli altri, per sentirvi veri e per avvicinarvi gli uni agli altri in maniera reale.

Traduzione di Cristiana Maria Carbone

(1) Secondo un'antica profezia Hopi, una 'zucca delle ceneri' capace di bruciare la terra e di far ribollire le acque degli oceani potrebbe un giorno essere lanciata dal cielo. La 'zucca delle ceneri' è l'arma nucleare e il suo uso è uno dei segni della 'grande purificazione', con fenomeni collaterali quali il cambiamento di clima, l'aumentata frequenza e gravità dei disastri naturali, e la scomparsa di specie animali. (N.d.T.)