Islam,
violenza, non-violenza
di Enrico Peyretti
Breve resoconto sul convegno che si è tenuto
a Torino l'11 novembre con questo titolo.
L'Islàm,
come tutte le civiltà e le religioni storiche,
ha probabilmente entrambe le potenzialità, violenta
e nonviolenta. La nonviolenza è presente nel
cuore stesso dell'Islàm. Come il cristianesimo,
la cui ispirazione è nettamente nonviolenta,
si è veicolato nella storia anche su culture
violente e pratiche di conquista e di dominio, così
poniamo il problema se l'Islàm - che detta alle
persone precisi doveri di giustizia e pietà reciproca
- non si sia veicolato anche su culture, sistemi politici,
e condizioni storiche che hanno spinto determinate sue
componenti all'abuso della religione per giustificare
la scelta della violenza politica. Tutte le religioni
sono esposte a questo rischio. Chi usa la violenza ha
bisogno delle più forti giustificazioni, per
rendere giusto ciò che è ingiusto. Non
c'è giustificazione più forte di quella
religiosa. Così si arriva - in tante religioni,
anche recentemente - all'aberrazione di uccidere in
nome di Dio.
Il nuovo pluralismo religioso generato dall'immigrazione
islamica in Europa, gode oggi della conquista della
laicità, avvenuta ieri attraverso la tragedia
spirituale e civile delle guerre di religione. Negli
stati laici, dove la cittadinanza politica è
distinta dalla religione, è possibile essere
cristiani o musulmani, di una religione o dell'altra,
o di nessuna religione, ed essere garantiti contro ogni
discriminazione religiosa. In uno stato cristiano confessionale,
non laicizzato, i musulmani come i seguaci di ogni altra
religione, non potrebbero nemmeno pensare di praticare
pubblicamente il loro culto. La laicità della
società è una condizione favorevole alla
stessa autenticità della fede religiosa.
Ma c'è anche una versione fredda e spiritualmente
immiserita della laicità. Mentre Islàm
significa "abbandono in Dio", Occidente è
sinonimo per certi versi di "abbandono di Dio",
scrive Giancarlo Zizola (Una messa a Lodi, in Rocca,
15 novembre 2000, pp. 44-48, in cui denuncia una manifestazione
razzistico-religiosa della Lega Nord). All'Occidente
l'Islàm può dare un apporto nuovo di trascendenza
e di fede, e una nuova esigenza di giustizia sociale.
Un tale apporto religioso ed etico può rafforzare
le difese spirituali contro le violenze profonde, strutturali,
che avvelenano il nostro progresso materiale. La società
che ha perso il senso di qualcosa di sacro e inviolabile,
ha bisogno del contributo di tutte le religioni. Le
quali però dovranno rinunciare a farsi guida
unica, direzione egemonica della società, ma
dovranno rispettare il personale orientamento morale
e religioso delle persone, che non vale nulla se non
è libero e sincero, se è costretto dal
conformarsi alla società, se è imposto
da un obbligo civile.
L'Islàm, per le differenti vicende storiche e
culturali in cui si è trovato a vivere, comincia
oggi ad affrontare quel delicato e faticoso problema
dell'interpretazione storico-critica del testo sacro,
che il cristianesimo ha accettato, attraverso lunghe
e dolorose fatiche, imparando a distinguere tra ispirazione
divina essenziale e culture, linguaggi, condizionamenti
vari, attraverso i quali la Parola di Dio si è
espressa in parola umane. Le distinzioni che con questa
fatica si raggiungono valorizzano la purezza dell'ispirazione
religiosa e permettono la migliore difesa - non un'apologia
puramente reattiva - di quella ispirazione genuina dalle
contaminazioni storiche.
Per le religioni, la più grave di queste contaminazioni
è l'uso religioso della violenza e la giustificazione
religiosa della violenza politica. Questo è avvenuto,
e avviene, nella storia delle religioni. Chi è
senza peccato scagli la prima pietra. Qui ci incontriamo
per deporre ogni pietra dalle nostre mani e per fare
un lavoro di pace culturale. La ricerca nonviolenta
considera molto importante il capitolo delle religioni,
della loro qualità benevola e costruttrice di
pace, delle loro reciproche relazioni di rispetto, di
stima, di collaborazione per la giustizia e la pace.
In questo momento, in Italia, c'è chi soffia
sul fuoco della paura dell'Islàm, della sua presunta
ineliminabile aggressività e assolutismo. Ha
paura una società senza spirito, insicura, soprattutto
per la disgregazione individualista, che getta ciascuno
nella solitudine. Questa paura spinge alla facile istintiva
ricerca di un capro espiatorio, nell'illusione di espellere
da sé il problema e il male: il diverso per lingua
e cultura, specialmente per religione, è facilmente
e stupidamente individuato come il portatore del pericolo
e del male. La paura genera razzismo ed esclusione criminale.
Antidoto a questa caduta, che ha orribili precedenti
storici, sono la conoscenza, il dialogo, l'ascolto e
la comunicazione; l'accoglienza dello straniero e del
culturalmente diverso non solo negli spazi di vita e
di lavoro, ma in quelli del discorso sociale. Ogni conoscenza,
libera e critica, ma nel rispetto, vale per snebbiare
la vista dalle immagini mitiche e ossessive.
Anche l'Islàm ha una paura storica dell'Occidente,
del cristianesimo, della colonizzazione, dell'attuale
dominio, dell'immoralità e dell'ateismo occidentali.
Ma, per altro verso, ne è anche affascinato e
tentato, come da un idolo brillante, che promette ricchezza
e forza se gli si vende l'anima.
Conoscersi, imparare gli uni dagli altri, rispettare
le diversità come doni aggiunti, tutto ciò
scaccia le paure, fa vedere la realtà nelle sue
ombre e luci, ed aiuta anche a fare l'esame di coscienza
su se stessi, perché tutti abbiamo pregi e difetti.
(Enrico Peyretti, Introduzione).
I
paesi islamici erano quasi tutti assenti dall'Onu nel
1948, quando si formularono i Diritti Umani. Quindi
questi sono sentiti come un portato della modernità,
che in quei paesi ha spesso un volto autoritario. Alcuni
comportamenti autoritari del potere politico violano
le stesse norme islamiche, altri contrastano con la
norma internazionale, ma non con la norma interna. La
legge religiosa islamica non contiene solo problemi,
ma anche valori di riferimento, come la persona umana,
che possono essere fondamento dei Diritti Umani.
(Roberta Aluffi, Società islamiche, politica,
diritti umani).
Lo
Jihad significa anzitutto sforzo e impegno spirituale
per la giustizia, "sul sentiero di Dio". Nelle
lotte di liberazione può assumere carattere violento
(come la "guerra giusta" in Occidente). E'
un lusso il nostro giudicare chi sta lottando. L'idea
di Jihad è usata a scopo demagogico da certi
governi, oppure per giustificare una guerra. Ma la guerra
agli infedeli è idea superata dal pragmatismo
musulmano.
Per molto tempo la terra dell'Islàm era terra
di pace, mentre quella degli infedeli era la terra della
guerra. Ma oggi molti musulmani osservano che è
vero il contrario: l'Occidente è casa della pace.
Un ruolo molto importante è quello delle minoranze,
che rimescolano le carte.
Il Corano vuole libertà religiosa per la gente
del libro (ebrei e cristiani), obbliga i musulmani a
dare loro luoghi di culto. "Non c'è costrizione
nella religione" (2,256, e vari altri versetti),
è il principio coranico, sempre da ricordare.
L'etica coranica sull'uso della forza è precisa,
e non è compatibile con la guerra moderna.
(Alì Schutz, Jihad, la cosiddetta guerra santa).
Modernizzazione
non significa democrazia. Per molti popoli islamici
modernità ha voluto dire colonialismo. La modernità
come urbanizzazione si è sviluppata nei paesi
islamici in forme europee. Perciò l'Islàm
entra nella modernità in modo periferico e con
disagio. Vanno in crisi i tre pilastri: l'unità
della comunità, la sacralità del territorio,
la specificità etnica. L'Islàm allora
si interroga su se stesso, con contrasti interni, mentre
l'Occidente lo disprezza, ed ha bisogno di rivendicare
la propria identità come chi si sente non riconosciuto.
La maggioranza popolare musulmana, esclusa dai vantaggi
della modernità, ha sospetto e avversione, ha
un vissuto da esclusi. Per l'Islàm è la
modernità degli altri. Ci sono tre correnti:
i riformatori (intellettuali, non passano alla prassi,
adattano la modernità); chi ripensa la vecchia
gloria islamica (religiosità popolare, anche
mistica); modernisti, europeizzanti. Questa è
la corrente vincente, esce dalla periferia verso il
centro. I suoi interpreti sono di cultura autoritaria
e militarista: urbanizzare, industrializzare, sistemi
educativi europei.
Nell'immaginazione occidentale l'Islàm è
passato dall'immobilità alla ribellione, ed ha
facilità alla violenza per ragioni "teologiche";
non si cerca mai una lettura sociologica dell'Islàm.
Come il terrorismo non rappresenta l'Occidente, così
l'integralismo non rappresenta l'Islàm. L'immigrato
è in una condizione sociale di debolezza. Bisogna
aprire un terreno di dibattito per trovare regole comuni.
Il dialogo non ha da essere teologico, ma su queste
domande: quale sviluppo sostenibile? Quale democrazia?
L'Onu col diritto di veto è forse un esempio
di democrazia? E i G8?
(Adel Jabbar, Islàm, nonviolenza e modernità).
Il
concetto di pace nel Corano è centrale e ricco
di sensi (dalla pace escatologica al rispetto anche
per i nemici), quanto basta per fondare una via islamica
alla pace. Pace è uno dei nomi di Dio. La pace
nella vita futura è sempre in relazione con le
opere di giustizia. La pace è la benedizione
sui profeti, ed è invocata sui popoli. Nei conflitti,
bisogna accettare la pace. Lo jihad è anzitutto
lo sforzo interiore, e poi anche l'impegno militare.
Contraddirebbe la storia dire che sono state sempre
solo guerre di difesa. Sono state solo guerre di liberazione?
Dove ci sono conflitti antichi e senza speranza è
difficile leggere i versetti coranici di pace. A differenza
del cristianesimo, non c'è l'idea della sconfitta
degli uomini di Dio.
(Paolo Branca, Il concetto di pace nel Corano).
Con
una suggestiva ed evocativa lettura di molti testi del
Corano, della tradizione, e di maestri spirituali, Mandel
ha ulteriormente illustrato le immagini musulmane della
pace: pace interiore; pace tra le religioni, che sono
tutte tentativi di avvicinarsi all'unico Dio; pace tra
i popoli e le loro culture; rispetto anche per i nemici.
Per il Corano i credenti sono coloro che "respingono
il male con il bene, ed elargiscono di ciò che
Dio ha dato loro; e quando sentono vanità, se
ne allontanano e dicono: A noi le nostre azioni, a voi
le vostre. Pace a voi" (28, 54-55); "Ecco
come sono i servi del Misericordioso: camminano sulla
terra con umiltà; quando gli ignari si rivolgono
loro, dicono loro: Pace" (25, 63). "Gli integralisti
- dice Mandel - non sono tali per eccesso di Islàm,
ma per totale mancanza di Islàm".
(Gabriele Mandel, Figure di pace nel Corano).
Non
avendo potuto, all'ultimo momento, arrivare al convegno
Chaiwat Satha-Anand, dell'Università di Bangkok,
Thailandia (Nonviolenza e movimenti per la pace nell'Islàm
era la sua relazione), si sono lette alcune pagine
centrali (da 6 a 13; da 29 a 31; da 31 a 33) del suo
libro Islàm e nonviolenza (Ed. Gruppo Abele,
1997), che illustra il fondamento islamico della nonviolenza
("i cinque pilastri dell'azione nonviolenta dei
musulmani"), la rigorosa etica islamica (le sue
"otto tesi sull'azione nonviolenta nell'Islàm"),
che sanziona l'immoralità della guerra moderna,
e alcune esperienze storiche nonviolente islamiche.
Per informazioni:
Centro Studi Domenico Sereno Regis
regis@arpnet.it
web:http://www.arpnet.it/~regis
Telefono 011-53.28.24