Dissociazioni di presenza e di assenza
di Renato Curcio

Testo della relazione tenuta a Torino il 7 dicembre 2000 in occasione degli incontri su: "La trance, fra religione, scienza e utopia" promossi dalla S.I.S.S.C. (Società italiana per lo studio degli stati di coscienza) e dal centro sociale "Gabrio".


Vi racconterò una storia. Ambientata nel 2000. In una piccola cittadina del centro Italia. Cinque ragazzi tra i 15 e i 23 anni, tutti studenti, figli di famiglie benestanti, "fanno gruppo". E i loro legami s'istituiscono intorno a un'impresa comune: fare di un loro coetaneo handicappato il loro zimbello.
Lo legano alla maniglia di un'automobile e lo trascinano per centinaia di metri.
Lo gettano ripetutamente nei cassonetti della spazzatura, schernendolo: "Spaz-za-tu-ra, spaz-za-tu-ra…"
Lo torturano fino a lasciargli gravi ferite sulle gambe.
La vittima ha paura di denunciare quanto gli viene fatto e ciò incoraggia il gruppo a proseguire nel suo divertimento. Ci vorrà un anno perché, messo alle strette dai medici di un ospedale, egli finalmente dichiari cosa gli sta accadendo e per opera di chi.
I cinque studenti vengono arrestati. Piangono. Confessano. Dichiarano, separatamente, che per stare nel gruppo degli amici bisognava fare quello che hanno fatto. Certo infierire su un handicappato era una brutta cosa, ma perdere l'appartenenza al gruppo era sicuramente peggio. Una simile prospettiva, a quei cinque ragazzi, faceva paura.

Non ho raccontato questa storia per suscitare raccapriccio o riprovazione. Dopotutto ciò che hanno fatto quei ragazzi sta in me come in ciascuno di loro e in ciascuno di voi. Niente che faccia qualche umano è qualcosa di cui qualche altro umano possa tranquillamente dire: "Questo, io, non lo farei mai!" Ma non è questo il punto. La domanda che voglio porre in questo incontro è: c'è un dispositivo profondo che mette in relazione l'identità di una singola persona con l'identità di un gruppo?

Arnold Ludwig, un ricercatore americano che nel 1983 ha scritto un saggio importante sui dispositivi dissociativi (1), considera la sommersione delle identità individuali da parte di un'identità di gruppo un portato psicobiologico necessario del processo evolutivo della specie.
Affinché gli umani potessero aggregarsi in gruppi sociali coesi ed avviare azioni collettive - crociate, guerre, crimini di pace, ma anche chiese, partiti, istituzioni pacifiche e quant'altro - divenne a un certo punto necessario che essi potessero essere conformizzati entro gruppi d'identità specifici. E questo processo di conformizzazione, che passa attraverso trattamenti educativi e correzionali, oppure attraverso la realizzazione di un desiderio di affiliazione, implica la capacità di dissociarsi dalle proprie specifiche e particolari configurazioni identitarie.

Per Arnold Ludwig, come già per Ernest Hilgard (1977) (2) e, successivamente per Georges Lapassade (3), - tutti comunque debitori a Pierre Janet (1888) (4) - la dissociazione è dunque un dispositivo psicobiologico naturale, normale e universale. E la sommersione dell'identità personale da parte di un'identità di gruppo non è che una delle sue funzioni. Altre importantissime funzioni, che visto il tema di questa relazione mi limito a segnalare, sono: l'automatizzazione dei comportamenti; l'economia degli sforzi; la risoluzione di conflitti altrimenti inconciliabili; l'isolamento protettivo in caso di esperienze catastrofiche; la scarica catartica di talune tensioni. Tutte risorse di straordinaria importanza non tanto perché consentono di conformizzare i singoli entro gruppi d'identità, ma soprattutto perché, se ben padroneggiate, permettono ai singoli di neutralizzare in vari modi la sofferenza indotta da quei processi di conformizzazione che inevitabilmente riducono la loro vastità identitaria. A livello dei singoli, infatti, la riduzione della vastità ha proprio come equivalente quell'esperienza muta e sfuggente della sofferenza che penosamente avvertiamo senza saperla adeguatamente collocare.

Vi racconto ora un'altra storia. Quella di Claude Thomas, nato in Pennsylvania (USA) nel 1948. Claude "montato" da suo padre e dalla campagna massmediatica incalzante che chiede ai giovani di arruolarsi nell'esercito per difendere la libertà e la democrazia, va volontario in Vietnam, a 17 anni, nel 1965. Crede totalmente in ciò che sta facendo.
Viene prontamente addestrato a deumanizzare il nemico, a spersonalizzarlo, a uccidere, e diventa prima mitragliere sugli elicotteri e poi capo squadra. Il suo compito è quello di fare il maggior numero possibile di morti. Ed egli fa del suo meglio mandando all'altro mondo non meno di 350 persone. Lo sa perché con gli altri della sua squadra scommette a chi ne ammazza di più e si annota su un taccuino il numero dei cadaveri che lascia sul terreno.
Nel 1967, Claude - mi si passi il tono confidenziale ma ho incontrato due volte quest'uomo ed ho approfondito con lui questa forte esperienza - resta ferito ad una spalla, gravemente. Non può più combattere e viene rispedito in patria. Nove mesi di ospedale militare e poi a casa. Con tanto di ringraziamenti ufficiali, onori, banda e medaglie.
Rimasto solo però Claude comincia a stare male. Non più alla spalla ma nei luoghi della sua identità. "Di notte tornano i ricordi: l'elicottero abbattuto, le grida dei feriti, le urla delle persone uccise".
Si guarda intorno e vede che i reduci come lui si suicidano uno dopo l'altro: a fronte di 58 mila soldati dell'esercito USA morti in guerra ci sono 100 mila reduci che, tra il 1973 e il 1983, scelgono il suicidio.
Nel 1973 gli nasce un figlio ma lui non riesce a tenerlo in braccio quando piange. Scappa, il panico lo sconvolge.
Famigliari, amici e conoscenti gli ripetono fino all'esasperazione: "Sei troppo sensibile, dimentica, dimentica…"
Ma come dimenticare i morti, il sangue, i brandelli di carne umana sul giubbotto, la paura?

Vi sarete accorti che questa storia è simile alla prima: un'identità di gruppo che legittima i soldati ad ammazzare i nemici in nome della pace e della democrazia sommerge le configurazioni identitarie di Claude Thomas. O meglio, in questo caso, le affilia. Ma non appena Claude esce dalla scena della guerra e dall'esercito, l'istituzione che legittima la sua azione omicida, ecco che le sue specifiche configurazioni identitarie cominciano a farlo apertamente soffrire.

Cosa farà Claude per non sentire più la sua sofferenza, per dormire sonni più tranquilli, per dimenticare?
Farà né più né meno quello che, secondo l'ultimo Rapporto del Censis (dicembre 2000) si sta abituando a fare la maggior parte di noi: si affida alla farmacia dell'oblio.
Dicono le statistiche che nell'ultimo anno il consumo di cerebrofarmaci è cresciuto del 48% e quello degli antidepressivi del 40,5%. Per un mercato di duemila miliardi.
Claude dunque s'imbottisce di farmaci, legali ed illegali, e cerca di non trascurarne alcuno.

Ma alcol, cerebrofarmaci, eroina e simili possono soltanto funzionare come induttori chimici di uno slittamento identitario ulteriore. Di una nuova dissociazione. Per loro tramite infatti egli cerca di dissociare l'identità ferita, sofferente, e dislocarsi in un altro sito identitario entro cui regni una qualche forma di quiete temporanea. Cerca, in altri termini, di rendersi assente al luogo del malessere.

Ho introdotto, come avrete notato, una nuova parola, - assenza - ambigua come tutte le parole. Consentitemi perciò di dichiarare, prima di proseguire, il significato d'uso che gli attribuisco.
Secondo alcuni psichiatri gli stati di assenza sono fugaci sospensioni della coscienza: la coscienza ordinaria di veglia in essi verrebbe sospesa.
Nel contesto che vi propongo l'assenza non è una sospensione bensì un allontanamento: un allontanarsi da una certa configurazione identitaria sofferente per recarsi in un'altra configurazione identitaria.
Detto altrimenti, l'identità di assentamento non è vuota ma, proprio come ogni altra configurazione identitaria, per quanto poco elaborata e sviluppata, consiste in un "io", una storia di quell'io, una storia sociale, un linguaggio verbale o non verbale, una memoria.
E tutto ciò costituisce, per usare il linguaggio di Pierre Janet, una esistenza psicologica simultanea. Simultanea alle altre esistenze psicologiche di cui si compone il nostro complesso identitario.

L'allontanamento dall'identità ferita e sofferente può essere definitivo solo nel caso del suicidio. In tutti gli altri casi non può essere che temporaneo. Ad esso segue inesorabilmente il ritorno. E, col ritorno, una nuova tensione a dissociare.
L'implicazione più rilevante di questa dinamica circolare è che le dissociazioni assenteizzanti, qualunque forma assumano, non possono soddisfare la richiesta che le muove. Possono essere ripetute, socializzate e ritualizzate, è vero, ma il ciclo spiraliforme delle ripetizioni nulla può mutare della loro sostanziale impotenza. Temporaneamente esse procurano un sollievo, un lenimento, un'anestesia, ma col venir meno dell'atto che le instaura anche questo vantaggio impietosamente svanisce.
Alcune persone che hanno praticato questa via, dopo aver ripetuto molte volte la stessa dinamica identitaria, di fronte a un certo evento esistenziale traumatico (ad esempio una malattia) o relazionale (ad esempio un incontro), hanno cominciato a confrontarsi con essa. Altre persone sono giunte "spontaneamente" al punto di non poter fare a meno di guardarla. Entrambi i gruppi, comunque, per poterlo fare hanno dovuto dissociarla e porsi nei suoi confronti come testimoni.
Questo passaggio esperienziale, non importa come indotto, inaugura una nuova configurazione identitaria che chiamerò testimone consapevole.

A differenza delle identità assenteizzanti o di allontanamento il testimone consapevole entra in relazione riflessiva, lucida e aperta con le configurazioni identitarie in cui ci collochiamo per allontanarci e assentarci.

Non giudica.
Non condanna.
Non annulla.
Non espelle
.

Il testimone consapevole accoglie la nostra dinamica identitaria, le diverse configurazioni in cui volontariamente c'imprigioniamo, a cui ci aggrappiamo o in cui restiamo impigliati; le accoglie perché ognuna di esse ha la sua buona ragione per esistere.
Esso è inoltre l'interprete dei linguaggi diversi di cui le nostre configurazioni identitarie si servono e il grande esploratore dei territori sconfinati in cui spesso si disperdono le nostre esperienze e le nostre memorie.
Ancor più esso è il nostro guaritore. Perché c'induce ad accogliere con lucidità e compassione tutto ciò che noi siamo, anche ciò che con qualche identità neghiamo perché non siamo capaci di aprirci alla sua verità, e con qualche altra esaltiamo.
Ma più di tutto esso è il miglior maestro di vita, perché limitandosi alla nuda testimonianza, ci indica la via da seguire per migliorare l'ecologia della nostra vita relazionale: testimoniarci nudamente in essa, testimoniarci interamente, e testimoniare gli echi e gli esiti, su di noi e sugli altri, di questa nostra testimonianza.



(1) Arnold M. Ludwig, The Psycobiological Function of Dissociation, American Journal of Clinical Hypnosis, 2/1983

(2) Ernest R. Hilgard, Divided Consciousness, John Wiley & Son, 1977, University of Minnesota

(3) Georges Lapassade, Transe e dissociazione, Roma 1996, Sensibili alle foglie

(4) Pierre Janet, l'Automatisme Psychologique, Paris 1988; trad. it.: Disaggregazione Spiritismo Doppie Personalità, Roma 1996, Sensibili alle foglie