Pena di morte: una domanda a Thich Nhat Hanh


D: Cosa pensi della pena di morte? Mettiamo che qualcuno abbia ucciso dieci bambini: perché dovremmo lasciarlo vivere?

R: Già dieci persone sono morte e tu vorresti farne morire un'altra, l'undicesima. Un uomo che ha ucciso dieci bambini è una persona malata. Certo, tutti noi vogliamo rinchiuderlo per impedirgli di uccidere ancora, ma si tratta di una persona malata e dobbiamo trovare dei modi per aiutarla. Ucciderlo non è un modo per aiutarlo, né per aiutare noi stessi.
Nella società ci sono altre persone come lui; osservandolo in profondità ci accorgiamo che c'è qualcosa che non va nella nostra società, una società che ha creato persone come lui. Quindi, guardandolo possiamo vedere alla luce dell'interessere gli altri elementi che lo hanno fatto diventare quello che è. È così che cresce in te la comprensione e allora capisci che quella persona è lì per te, per aiutare e non per punire. Certo, è necessario rinchiuderlo per la sicurezza di altri bambini, ma questa non è l'unica cosa che si può fare. Possiamo fare altre cose per aiutarlo. Punire non è l'unica possibilità, possiamo fare molto di più.
Di recente nelle prigioni sono stati offerti riviste e libri buddhisti sulla meditazione e anche discorsi di Dharma, e numerosi detenuti hanno iniziato a metterli in pratica.
Molti di loro ne hanno tratto sollievo e sono riusciti a vivere in prigione con maggior pace. Io stesso ricevo tante lettere di detenuti che hanno letto i miei libri, molti dei quali nord americani. Uno di loro mi ha scritto: "Thây, quando sto in cima alla scala e guardo in basso, e vedo gli altri detenuti che corrono su e giù, riesco a vedere la loro sofferenza e irrequietezza. Spero che possano fare come me, salire e scendere le scale in consapevolezza, seguendo il respiro. Quando lo faccio, mi sento in pace quando mi sento in pace riesco a vedere con chiarezza la sofferenza dei miei compagni." Questa persona è riuscita a generare, a far sorgere la compassione dentro di sé. Quando nei nostri cuori c'è compassione soffriamo di meno. Quando la compassione è nei nostri cuori non siamo noi la persona che soffre di più.
C'è un altro detenuto che ha ricevuto il libro Essere Pace in fotocopia, e più tardi ha avuto anche l'originale. Così ne aveva due copie. Aveva smesso di fumare, ma aveva ancora con sé del tabacco. Un giorno il compagno della cella accanto picchiò contro il muro e gridò chiedendogli un po' di tabacco. Benché non fumasse più, il detenuto volle offrire del tabacco al suo compagno e gliene passò di nascosto una presa, usando come involucro la fotocopia della prima pagina di Essere Pace. Sperava così che l'altro potesse trarne giovamento, come era successo a lui, che aveva preso l'abitudine di praticare la meditazione seduta nella sua cella. Avendo passato al compagno solo una piccola quantità di tabacco, ebbe modo di offrirgliene ancora, usando pagina due, pagina tre. Era nel braccio della morte. Alla fine aveva passato al suo compagno, una per una, le fotocopie dell'intero libro. Fu meraviglioso: l'altro aveva cominciato a praticare nella sua cella ed era diventato molto più calmo. Mentre le prime volte picchiava contro il muro con violenza, urlava e imprecava, a poco a poco si era rasserenato, calmato e rilassato. Un giorno passò davanti alla cella del compagno per ringraziarlo: i due si guardarono e recitarono insieme una frase del libro che tutti e due sapevano a memoria.
Quel detenuto nel braccio della morte è riuscito a scrivere un intero libro sulla sua pratica all'interno della cella, e questo libro è stato pubblicato da un editore esterno.
Dunque è evidente che punire non è la sola cosa che possiamo fare. Possiamo fare molto di più per aiutare. La trasformazione e la guarigione sono possibili anche in situazioni così difficili. Un altro detenuto mi ha scritto: "Thây, sono molto sorpreso per aver scoperto che riesco a conservare in carcere la mia umanità, senza impazzire ed è stato grazie alla pratica. La mia sola speranza è che un giorno, quando uscirò dal carcere, se qualcuno mi verrà a trovare, guardando il mio viso dica: 'Come è possibile che abbia questo aspetto, con tutta la sofferenza che ha dovuto sopportare in prigione?' Sarebbe meraviglioso, sarebbe per me la soddisfazione più grande."
Diceva che non si possono immaginare le condizioni di vita e la sofferenza che stava sopportando in carcere. Ma lui riusciva per poter sopravvivere a tener viva la sua umanità attraverso tutte queste difficoltà.
Se noi qui fuori soffriamo meno, e abbiamo appena un po' di tempo, certamente possiamo fare qualcosa per aiutare quelli che sono dentro. Ecco perché uccidere quell'uomo non fa altro che rivelare la nostra debolezza: ci arrendiamo, non sappiamo più cosa fare e rinunciamo. Dover uccidere una persona è un grido di disperazione. Spero che potremo praticare insieme il guardare in profondità per trovare soluzioni migliori, piuttosto che approvare la pena di morte. La mia risposta alla domanda è che possiamo riconciliare giustizia e compassione. Ma non solo: possiamo anche dimostrare che la giustizia autentica deve avere in sé compassione e comprensione.

Traduzione di Alessandra Maggi