"Riflessioni su alcune affermazioni del Dalai Lama"
di Stephen Batchelor


Durante la sua recente visita in Inghilterra, l'affermazione del Dalai Lama secondo cui egli non vorrebbe incoraggiare nessuno a convertirsi al buddhismo è stata largamente ripresa. Egli ha sottolineato piuttosto l'importanza per ognuno di rimanere nella religione in cui è cresciuto.
Apparentemente sembra un consiglio ragionevole e anche responsabile. E forse ha rassicurato un po' i leader della chiesa sul fatto che il declino delle loro congregazioni non sarebbe stato ulteriormente accelerato dal richiamo di questo "papa" buddhista, così carismatico e affascinante. Rimane tuttavia il fatto inquietante che esistono pochi altri a capo di una delle principali religioni mondiali capaci di riempire l'Albert Hall - e ancora meno se sono proprio loro a dire al pubblico di non cercare le risposte nella tradizione da loro rappresentata. Sembra che non sia tanto quello che il Dalai Lama dice ad attrarre la gente ai suoi incontri quanto l'autorità con cui lo dice.
Il consiglio del Dalai Lama sembra attribuire un valore equivalente alle grandi religioni nel mondo fino al punto che non conta poi molto molto la religione in cui si è nati. Mentre incoraggia la tolleranza reciproca e il dialogo continuo tra le diverse fedi, il Dalai Lama non sembra affatto disposto a sfidare lo status quo. Eppure uno dei motivi per i quali un esiguo, ma sempre crescente numero di europei e americani si sente attratto verso il buddhismo e le altre tradizioni non ebraico-cristiane è proprio il desiderio di mettere in discussione questo status quo.
Il Dalai Lama ormai rappresenta molto più del solo buddhismo tibetano; che lo voglia o no è diventato un'icona post-moderna, un attore di raro successo sul palcoscenico di un mondo pluralistico e individualistico. La credenza religiosa e la pratica spirituale non vengono più considerati elementi di una fede trasmessa da generazioni e da accettare in modo acritico, ma piuttosto delle scelte da fare con senso di libertà e con responsabilità. È troppo facile per figure religiose tradizionali (compreso lo stesso Dalai Lama) parlare in maniera liquidatoria di una "spiritualità da supermercato". Così facendo rischiano di alienarsi ulteriormente da coloro che mettono in questione l'autorità della propria religione ancestrale per cercare invece un impegno e un coinvolgimento in una pratica che risponda alle domande specifiche della propria esperienza personale e sociale.
Se l'esortazione del Dalai Lama è valida ora, presumibilmente lo sarebbe stata anche nel passato. In questo caso, si dovrebbe presumere che il Dalai Lama disapprovi i tibetani che si convertirono dalla loro originaria fede animista al buddhismo nell'ottavo secolo? Se, invece, come sarebbe del tutto normale aspettarsi, il Dalai Lama considera la trasmissione degli insegnamenti buddhisti dall'India al Tibet come l'inizio glorioso della cultura religiosa per la cui preservazione adesso lotta in esilio, allora con quali argomenti scoraggia i suoi ammiratori occidentali dall'adottare il buddhismo oggi?
In passato, sia a Lhasa sia a Roma, i popoli soggetti venivano costretti alla conversione da una retorica della superiorità e unicità o dalla repressione delle alternative, dalle minacce dell'inferno o semplicemente da un decreto imperiale. Ma oggi, dove la libertà di scelta viene ritenuta una delle grandi realizzazioni delle democrazie liberali, perché l'esercizio di questa libertà non viene incoraggiato in modo più attivo nell'affrontare le domande più profonde e importanti della nostra esistenza? Un simile incoraggiamento potrebbe ispirare ognuno di noi ad affrontare queste domande con onestà e in modo diretto invece di accettare semplicemente le credenze stabilite delle istituzioni tradizionali, secolari e religiose.
Indirizzandosi una volta a delle persone che si sentivano confusi circa il sentiero da seguire nella vita, il Buddha così si espresse: "Non accontentatevi del sentito dire o della tradizione o delle storie leggendarie o con ciò che ci è stato trasmesso nelle scritture o con la congettura o l'inferenza logica o con il pesare l'evidenza o con il preferire un punto di vista dopo averlo meditato a lungo o con l'abilità di un'altra persona o con il pensiero che: "Il monaco è il nostro maestro". Quando capite dentro di voi che certe cose sono sane, degne, approvate dai saggi e dopo averle messe in pratica e realizzate capite che portano al benessere e alla felicità, solo allora dovrete praticarle e dimorare in esse".
Sebbene offerto a un pubblico nel nord dell'India più di duemila e cinquecento anni fa, il consiglio scettico e pragmatico del Buddha ha un suono straordinariamente contemporaneo. Invece di suggerire ai suoi ascoltatori di rimanere con la tradizione in cui erano nati o di convertirsi a una nuova perché colpiti dalla credibilità delle dottrine o dall'autorità del maestro, il Buddha li consiglia a scoprire da soli quali siano i veri benefici che la pratica di un tale insegnamento può portare.
Coloro che oggi in occidente adottano le idee, i valori e le pratiche del buddhismo non hanno necessariamente interesse ad aderire a una nuova istituzione religiosa. Trovano che l'approccio del Buddha "di sperimentare e vedere" sia perfettamente compatibile con un sano scetticismo. Se si interpreta il consiglio del Dalai Lama come un incoraggiamento agli occidentali di rimanere dentro le loro tradizioni secolari, allora atei e agnostici possono sentirsi rassicurati nello scoprire che l'approccio non teistico e basato sulle proprie forze del buddhismo è grosso modo in sintonia con il loro punto di vista. Allo stesso tempo, il buddhismo potrà essere in grado di recuperare il suo punto di vista critico e pragmatico che spesso storicamente è stato messo in secondo piano dall'aver assunto l'identità di un credo religioso.

da: The Indipendent 29 maggio 1999