"L'inganno
droga"
Incontro con Don Gallo
Lo scorso 4 maggio, insieme alla Cooperativa Sensibili alle foglie, abbiamo invitato a Roma don Andrea Gallo, fondatore e animatore della Comunità di San Benedetto al Porto di Genova per presentare il suo libro uscito la scorsa primavera "L'inganno droga". Purtroppo la registrazione degli interventi è incompleta e quindi possiamo pubblicare solo una parte delle cose dette, ce ne scusiamo con i lettori.
Mi trovo a volte in situazioni
davvero eccezionali, perché
sono piccolo così, ormai
vecchio, e mi si chiede di raccontare
la mia piccola storia. Questo
libro, "L'Inganno Droga"
se c'è, lo dobbiamo a Renato.
Un giorno ero stato invitato dagli
studenti a parlare in quella specie
di cattedrale nel deserto che
è Tor Vergata e Renato,
dopo avermi ascoltato, mi disse:
"Ma queste cose sulla droga
non le dice nessuno". Da
quel momento iniziò la
raccolta di tutti i miei appunti.
Di inganni ce ne sono tanti, ma
l'inganno droga in particolare
è davvero colossale. Ce
ne sono altri, s'intende: abbiamo
visto l'inganno Ocalan, basta
pensare all'inganno di questa
guerra dei Balcani, l'inganno
del giubileo, l'inganno dei santi
addirittura, delle canonizzazioni.
Cercherò di dire chi sono,
brevissimamente. Ormai da trent'anni
sono sceso sulla strada con chi
ha voluto unirsi a me. Abbiamo
iniziato con il sacco a pelo e
adesso, via via, camminando, nella
nostra Comunità abbiamo
circa cento trenta residenti con
varie attività che vanno
dai due ristoranti sulla strada
alle iniziative in America Latina,
dove abbiamo messo su una clinica
rurale e tredici scuole per l'alfabetizzazione.
Stiamo inoltre consolidando la
nostra presenza anche a Bahia.
Raccontare la mia storia per me
è commovente.
Sono prete da oltre quarant'anni,
e mai che un superiore mi abbia
detto: va bene, bravo, mai. Sempre
richiami, sempre tribunali; ma
non mi hanno mai sospeso, e allora,
domenica scorsa mentre celebravo
la messa a porte aperte (sono
un cappellano) mi sono sospeso
da solo. Devo dire che dopo otto
giorni il mio cardinale arcivescovo
non ha ancora detto nemmeno una
parola. Sapete, le curie sono
nidi di vipere e questo uomo avrà
ricevuto chissà quante
proteste dai così detti
cattolici benpensanti, ma nello
stesso tempo mai una parola di
disapprovazione e già questo
mi sembra un piccolo segno. Forse,
diventando vecchio, sento il bisogno
tutte le volte che me ne viene
data la possibilità di
confessarmi.
Avete appena visto il film "Ultimo
treno" nato grazie a un regista,
di Gianfranco Miglio, che è
rimasto un po' di tempo con noi
e che in seguito, avendo raccolto
tutto questo materiale, ha deciso
di farne un documentario. Non
molto tempo fa il professor Alessandro
Del Lago mi ha invitato alla facoltà
di Scienze dell'Educazione a Genova
e io ho mostrato anche lì
questo filmato. Uno dei commenti
dei ragazzi è stato: "Ma
questo film non finisce in modo
trionfalistico". È
vero, l'abbiamo dedicato a due
ragazzi che non ci sono più.
E allora parliamone di questo
male.
Quando abbiamo cominciato questa
avventura eravamo consapevoli
di non saper risolvere il problema
del male, ma non per questo -
ci siamo detti - ci sentivamo
dispensati dall'occuparci dei
mali, giorno per giorno. Io all'inizio
avevo un motto: "Ama il tuo
sogno se pur ti tormenta".
E quale era il mio sogno? "Passione
della Libertà, dovere della
Liberazione". Le parole hanno
molti significati, non solo diversi,
ma anche contrapposti a seconda
delle situazioni e dei contesti
nei quali vengono usate, in rapporto
a chi le utilizza e rispetto alle
intenzioni reali che i soggetti
intendono rendere effettive nel
loro agire. Questo dato generale
acquista uno spessore quando si
pronunciano parole come Libertà
o Liberazione. Ho visto passando
con il treno una scritta: "Difendi
la tua libertà", mi
sembra sia una propaganda del
Polo della libertà. I rischi
di fraintendere questa parola-bandiera,
carica di usi storici sovrapposti
e cangianti, per me sono sempre
stati un'esperienza quotidiana.
Vengo dalla strada. Nel '60 ero
già tenente cappellano.
A Genova avevamo una nave scuola
dove venivano buttati i ragazzi
che vivevano nella strada: la
città li chiamava 'piccoli
delinquenti' e li isolava su quella
nave. Quello fu il mio primo contatto
con loro, ricordo che conobbi
lì Giovanni Senzani: venivano
dalla facoltà di criminologia
per studiare i ragazzi.
Quando cominciammo trent'anni
fa la matrice del gruppo era cristiana,
ma c'erano credenti e non credenti.
Ed ecco, la nostra comunità
è un po' come una barca;
l'immagine della nave scuola era
sempre presente in me. Tra l'altro
siamo lì vicino al porto
e quindi l'immagine della barca,
del veliero, vien fuori da sé.
A proposito di barche, avevamo
letto insieme ai ragazzi che sulle
galere che solcavano i mari, vi
erano sottocoperta vi erano i
rematori che remavano in squadra
alla cadenza dettata dal tamburo.
Erano incatenati (viene naturale
trasportare questo concetto alla
situazione vissuta dai tossicodipendenti,
per non parlare, non so, della
psichiatria). Non so se questa
immagine chiarificherà
il mio pensiero: erano incatenati
e avevano come unica opzione quella
di seguire il ritmo che in certe
circostanze diventava forsennato,
finché avevano fiato e
energia.
Un'altra associazione mentale
mi viene spontaneo farla con le
leggi. Ricordo il primo tossico
che ho raccolto: era collassato,
tra l'altro in quell'occasione
con me c'era un commissario giovane
e pieno di entusiasmo: "E
allora cosa facciamo?" Era
l'ottobre del '75, a Genova ce
n'erano ancora pochissimi. Ci
incamminiamo verso l'ospedale
più vicino, la Duchessa
di Galiera da dove ci hanno subito
cacciato via: "Un ospedale
non può accogliere un tossicodipendente
per legge". Abbiamo dovuto
camminare per oltre un'ora, di
ospedale in ospedale, mentre il
commissario gli faceva la respirazione
bocca a bocca. In fondo eravamo
un commissario e un prete!
Poi siamo dovuti andare in manicomio.
Benissimo, abbiamo iniziato così.
Vi dico che dopo tanti anni questo
ragazzo si è laureato:
è diventato professore,
ha famiglia, eccetera.
Ma riprendiamo l'immagine dei
rematori: nella battaglia di Lepanto
quelli cristiani erano sulle galere
turche e viceversa, i turchi prigionieri
remavano nelle navi cristiane.
Da una parte e dall'altra quando
lo scafo affondava, il destino
dei rematori incatenati ai remi
era segnato: nessuno li scioglieva
dalle catene. Stessa cosa con
la tossicodipendenza: nessuno
li vuole sciogliere dalle catene.
Siamo ancora a questi livelli,
ancora questa demonizzazione della
sostanza, ne parleremo magari
dopo.
Onestamente, se pensiamo a quelle
circostanze, chi si sarebbe oggettivamente
dato pensiero di salvare i rematori
prigionieri? Così si può
ragionevolmente immaginare che
i rematoti cristiani, se avevano
ancora un briciolo di voglia di
sopravvivere, erano costretti
a fare il tifo per la nave turca
sulla quale erano imbarcati, e
viceversa i turchi per quella
cristiana. Salvo quelli che erano
talmente stremati che speravano
di andare definitivamente a fondo
per farla finita.
Potrei leggervi una lettera di
un ragazzo che ha ancora due o
tre anni a San Vittore, è
anoressico, pesa 32 chili e non
c'è verso di avere una
sospensione della pena. E allora
ritorna il mio tema: cos'è
la libertà e la liberazione?
Una cosa si può affermare,
quando la vita è deprivata
nella sua sostanza, e questo riguarda
generazioni intere, al punto da
non potersi più chiamare
vita, il parlare di libertà
sembra appartenere a quel genere
di discorsi salottieri, vuoti
di sostanza.
Liberazione intesa come riscatto
da una condizione di non vita
è certamente più
aderente e pertinente alla realtà.
È aderente soprattutto,
e lo dico io che sono cristiano
e cattolico: è aderente
al pensiero ebraico, che è
la fonte privilegiata della nostra
cultura occidentale.
Il centro del pensiero ebraico
è la vita, la vita soprattutto.
Ciò viene espresso nel
Deuteronomio in modo folgorante:
"Ho posto di fronte a te
la Vita e la Morte, ma tu sceglierai
la Vita". Tu sceglierai la
vita, questo è l'ipercomandamento
sotto il quale verranno tutti
gli altri. Il discorso ebraico
sulla libertà entra a questo
punto, la libertà esiste
solo se c'è vita, se la
vita è intoccabile, sacra
ed integra.
In concreto, per dirla in soldoni,
prima stabiliamo da che parte
ci schieriamo, su che fronte stiamo,
poi si può discutere sulla
libertà. Però quanto
parlare di libertà! È
una bandiera che tutti tirano
dalla loro parte, ma è
una coperta corta. E quanti secoli
e secoli di galera hanno pagato
i ragazzi e le ragazze italiane,
oggi sono 23.000 in galera in
Italia per reati annessi e connessi
alle così dette droghe.
E quanti i morti, gli ammalati,
non solo di HIV!
Ho detto tutto questo al vicario
generale, vescovo di Bergamo,
e così il mio curriculum
è cresciuto. È stato
molto duro, rifiutando qualsiasi
esperienza scientifica alla fine
mi ha detto: "Tu sei uno
che aiuta davvero la mafia".
Altra materia di riflessione:
tutti i soldi che finiscono al
narcotraffico. È una rappresentazione
efficace per me segnalare la scissione
che attraversa l'umanità
tra quanti stanno sotto e quanti
stanno sopra e tra i loro rispettivi
sguardi che manifestano la loro
appartenenza. Normalmente avviene
che quelli che stanno sotto siano
per lo più invisibili e
soprattutto senza voce. Così
avviene che la realtà è
ricostruita da quelli che stanno
all'aria aperta tanto da imporsi
come l'unica realtà ed
è per questo che la cultura
generale è demonizzazione,
e chi demonizza una sostanza finisce
per demonizzare chi la usa.
Altra cosa importante di cui nessuno
parla mai in questo sistema di
isterico proibizionismo riguarda
le fasce di giovani che sono invase,
assalite dalla mitizzazione e
come sia facile in questo clima
diventare adoratori del farmaco,
data la distorta educazione alla
salute che tutti subiamo. Certamente
libertà e liberazione acquistano
un ben diverso contenuto nei due
gruppi umani.
Ho stampata in mente un'altra
immagine, l'ho presa da Simone
Weil quando parla della sua esperienza
in fabbrica: "In conclusione
ho tratto due insegnamenti dalla
mia esperienza, la prima, la più
amara e la più impreveduta,
è che l'oppressione a partire
da un certo grado di intensità
non genera una tendenza alla rivolta,
quindi alla emancipazione e alla
liberazione, bensì una
tendenza irresistibile alla sottomissione."
Chi ci ha seguito via via in questi
anni ha visto che l'umanità
si divideva in due categorie:
le persone che contano qualcosa
e quelle che non contano nulla.
E allora ecco che quando si appartiene
alla seconda categoria, si arriva
a trovare naturale non contare
nulla. Ma ciò non toglie
che si soffra.
Ora vorrei ricordare un'altra
testimonianza, di don Milani.
A proposito del diritto di dividere
il mondo in italiani e stranieri,
quindi in ragazzi normali e non
normali, don Milani diceva: "Allora
io reclamo il diritto di dividere
il mondo in diseredati e oppressi
da un lato e privilegiati e oppressori
dall'altro, gli uni sono la mia
patria, ecco la mia scelta, gli
altri i miei stranieri".
Coloro la cui voce si sente bene
non vogliono sentire parlare di
sperimentazione scientifica nei
confronti delle droghe. Dal '90
c'è la carta di Francoforte
(forse sarebbe il caso di pubblicarne
il testo), ci sono incontri in
tutte le capitali europee, ma
qui la gente sta ancora crepando,
perdendo il senso della vita Ma
esistono cittadini di serie A
e cittadini di serie B ed è
questa l'esperienza più
amara. Al dominio della forza
di chi possiede il diritto di
parlare e nel suo dispiegarsi
in tutte le possibili varianti
non è garantita la vittoria
in assoluto. Intendendo per assoluto
l'inclinarsi totale del soggetto
umano sino a dare il proprio consenso
o addirittura la propria complicità.
C'è un quasi, ecco noi
viviamo sul quasi, che persiste
anche nelle situazioni di notevole
grado di intensità dell'oppressione.
Noi siamo una fessura, abbiamo
scoperto che c'è una fessura
che annuncia la possibilità
della libertà personale.
La libertà è la
possibilità di sbagliare
per far tesoro degli errori, addirittura
nella mia chiesa almeno da cent'anni
è dottrina certa la libertà
di coscienza. Un cardinale, non
quello di adesso, una volta mi
ha richiamato e mi ha detto: "Sì,
sì, è vero, però
una coscienza è retta se
fa riferimento alla verità".
"D'accordo, eminenza, perché
non la cerchiamo insieme la verità?"
Non mi ha più risposto.
Trent'anni fa in un incontro dove
c'era anche don Ciotti, che considero
un fratello, ho detto: "Voi,
ragazzi, avete la libertà
di drogarvi" Apriti cielo,
è successo il finimondo.
"Ma cosa dici?" "Guarda
che tutti gli altri cittadini
si drogano come vogliono, tutte
le altre sostanze sono legali,
mentre loro non hanno questa libertà.
E allora ecco l'oppressione che
continua, la mitizzazione invece
della possibilità di cercare,
di sperimentare, di dire no a
una qualsiasi autorità
artistica, filosofica, religiosa,
scientifica. Noi riconosciamo
criticamente l'autorità
della scienza, quella sociale
e anche politica. La libertà
quindi anche di autogestirsi,
una possibilità di opposizione,
un adattamento non per integrazione,
ma per opposizione. Dire di no
a una qualsiasi autorità,
non indica qualcosa di puramente
negativo, ma può essere
l'adesione doverosa a un sì
che porta con sé il carattere
della riflessione per la quale
vale la pena di impegnare la propria
esistenza.
Tra le nostre letture c'era anche
"I fratelli Karamazov"
di Dostojevskij, soprattutto per
il gruppo cristiano nella comunità,
era di grande interesse il punto
in cui il grande inquisitore rinfaccia
a Gesù di aver dato la
libertà, e per questo fu
necessario emendare il Vangelo.
Noi nella nostra comunità
come cristiani abbiamo cercato
di non emendare il Vangelo.
E ora vorrei terminare con alcune
note personali. È un'occasione,
chissà se domani sarò
vivo, sono vecchio, mezzo malandato.
Vivo cercando continuamente una
composizione, una sintesi, un
ricondurre ad una unitarietà.
Nel frattempo ricevo messaggi
del tipo: "Nel nome della
santissima trinità Dio
ti maledica". L'ultimo diceva:
"Evito il don, signor Gallo,
per non offendere la religione".
Cerco cioè un et et che
riconduca la mia vita alla ricerca
di ciò che è essenziale,
e così si purifica il mio
camminare dentro la compagnia
di tutti, mentre va emergendo
l'originale che è in me
e si libera il messaggio che è
contenuto nel Vangelo. Mi sono
trovato a vivere proprio l'avventura
di un povero cristiano, ricondotto
alla dimensione di discepolo credente
alla scuola di uno stile di vita
che mi supera e mi indica spazi
e orizzonti tutti da scoprire:
normalità, quotidianità,
fedeltà, gratuità,
dono, piacere. Un povero cristiano.
A volte vorrei una indicazione
di come essere cittadino di questo
mondo.
Come abitare la terra e vivere
di fede, essere nella compagnia
di tutti. Questo è il punto.
Qualche anno fa, mi dissero: "Eh
don Gallo, devi prenderlo tu questo
tossico, non lo vuole nessuno"
Era un brasiliano, un transessuale
e le altre comunità lo
avrebbero accettato se in comunità
si fosse vestito da uomo, si faceva
chiamare Stella. È stato
con noi un anno e mezzo, è
stato la stella di tutti. Erano
otto, nove anni che era in giro
per l'Europa, era venuto per fare
la ballerina. Ora ogni tanto ci
scrive.
E noi continuiamo ad essere una
compagnia di donne e uomini di
altre culture, religioni. Una
volta c'era uno che non lo prendeva
nessuna comunità e sapete
perché? Era sordomuto,
tossicomane sordomuto. Mi sono
divertito tanto in comunità
con lui, ormai avevo imparato,
c'era una comunicazione bellissima.
Vive ad Albenga anche lui.
Educando a imparare ad ascoltare,
a fare silenzio, a restare in
attesa, cresce la gioiosa consapevolezza
che io non salvo nessuno, e questo
libera energie. Sono diventato
di più mendicante, cercatore
di senso, interrogante la vita,
e meglio percepisco che la vita
è grazia, che è
dura e forte insieme. È
festa quando si fa incontro; scambio;
accoglienza. Io penso che a settant'anni
mi sento un bimbo, spero ad ottanta
di essere giovane e a novanta
dirò all'angelo che mi
chiamerà dal paradiso:
"Senti un po', vieni a cent'anni".
Vorrei davvero recuperare e attualizzare
alcune passività, con la
pazienza di cercare, la perseveranza
di seguire intuizioni sapendo
di non esaudirle, operare e saper
attendere che qualcosa o qualcuno
si mostri, l'umiltà di
esserci rallegrandosi della presenza
di tutti gli altri, di tutti i
diversi da me, restare indicatore
leggero di una luce e, attendere
di ricevere un senso, una pienezza
di senso. Grazie dell'ascolto.
Se c'è qualche domanda
o Renato ci vuole raccontare le
sue impressioni quando ha visto
tutti quegli scarabocchi...
Renato Curcio: Sugli scarabocchi
non dico niente: gli scarabocchi
di Andrea potrebbero rapirci.
Vi dico invece un'altra cosa.
È una domanda che faccio,
ed è una domanda che non
so nemmeno io come formulare perché
la sto vivendo in questo momento.
Non l'ho pensata, e nasce da un'esperienza
piccola piccola, forse, ma molto
importante nella mia vita. Alle
tre di oggi pomeriggio è
morto il mio cane, uno dei miei
cani. Si chiamava Dingo e aveva
due anni. Prima che la morte lo
accogliesse mi sono rivolto al
mondo del sapere medico, ho cercato
di vedere se esistevano delle
conoscenze con le quali affrontare
il problema della sua vita minacciata
da un virus. I veterinari mi hanno
dato tanti consigli, tante medicine,
tanti antibiotici e così,
in qualche modo, su questo cane
stremato è iniziato un
esercizio terapeutico che tuttavia
non lo ha salvato. Dingo è
morto. Di fronte alla sua morte,
che è stata anche un'agonia
durata diversi giorni, e che ho
vissuto con mia moglie, mia figlia,
i gatti e l'altro cane che abbiamo,
tutti insieme, mi sono posto allora
una domanda sul senso dell'accanimento
terapeutico che si era abbattuto,
anche per mia richiesta, su questo
cane e, più in generale,
sul senso della sua morte.
Dingo, se posso permettermi questa
bestemmia, appariva ai miei occhi
spiritualmente molto più
evoluto della gran parte degli
umani della società in
cui vivo. Questo cane non sosteneva
alcuna guerra nel mondo, non pensava
minimamente in termini di guerra
la sua presenza sulla terra. Si
presentava invece, nella sua differenza
canina, con amicizia, con proposte
di gioco, senza ipocrisia né
arroganza. Ma questo suo essere
cane lo gettava in una condizione
di irrilevanza. Per farla breve
voglio dire che tra le specie
viventi che accompagnano la nostra
avventura sulla terra ce ne sono
molte, o moltissime, o forse anche
tutte, spiritualmente più
evolute della nostra, che invece
ritiene di avere il monopolio
della spiritualità e in
nome dei più alti valori
umanitari riesce a seminare la
morte tra i propri simili e sulle
altre specie. Seminare la morte,
nel preciso momento in cui vi
sto parlando, su tutto il teatro
dell'Europa, perché penso
che le bombe Nato uccidano prima
che in Kossovo o in Serbia o da
qualche altra parte, delle zone
vitali dentro ciascuno di noi,
imprigionati come siamo, senza
scampo, nella complicità
con questo gioco di morte.
Per rientrare nel tema di questo
incontro dico allora che la parola
inganno m'appare inadeguata e
incapace di significare la consapevole
pratica di chi manda qualcuno
nell'alto dei cieli con l'ordine
di sganciare esplosivi, veleni
e radiazioni mortalmente umanitarie.
Come, forse, risulta insufficiente
a fare risaltare il buio spirituale
in cui s'aggirano altri e diffusi
e accettati trattamenti umanitari:
nelle carceri, nei nuovi manicomi,
negli ospizi, nelle comunità
terapeutiche, negli ospedali.
Trattamenti che vorrebbero nobilitarsi
ricorrendo ad una giustificazione
terapeutica ma il cui unico vero
risultato consiste nell'aumentare
i profitti delle imprese farmaceutiche
che li sponsorizzano.
Non penso affatto che, per fare
un esempio, spacciare a piene
mani nelle carceri dove sono stato,
ma anche fuori, dove sono adesso,
tonnellate di cerebro farmaci,
medicine, droghe di tutti i tipi
sia un inganno. _ qualcosa di
più e di peggio: una ideologia
di adattamento al vivere penoso
della infausta normalità
dell'Occidente.
Che pillole, farmaci e droghe
siano o meno di qualche utilità,
questo è davvero irrilevante
per chi li smercia e produce.
Ma questa perdita artefatta del
senso del dolore e della morte,
della propria presenza al loro
attraversamento della vita, è
invece il primo e più rilevante
problema di chi a questa ideologia
si consegna.
Il mio cane, Dingo, non aveva
il problema dei farmaci. Come
infinite generazioni di cani che
lo hanno preceduto, sarebbe anch'esso
(o anch'egli?) tranquillamente
morto nel giorno e nell'ora di
questo appuntamento. Ma il suo
destino è stato per così
dire perturbato, attraversato
invasivamente da qualcuno che
ha detto: no, un momento, prima
di morire per la puntura di quell'insetto
prenditi questa bella massa di
medicine, riempiti bene lo stomaco
e il cervello di questi farmaci
che ti somministriamo, e se poi
non guarisci, amen, le vendite
intanto sono in qualche modo salite.
È lo stesso discorso che
da infiniti canali e da impercettibili
suggeritori ci viene quotidianamente
sussurrato nell'orecchio: Sei
depresso? Non cè motivo,
prenditi un Prozac, o se preferisci
un altro farmaco, fatti una canna,
sparati una siringa nella vena,
qualunque cosa.
Non voglio tuttavia proseguire
su questo indirizzo. Lo farà
Andrea con tutta la sua passione
e competenza. Come ho detto all'inizio,
voglio piuttosto porre una domanda
di ordine spirituale, e uso questa
parola in senso molto laico, non
religioso, semmai con l'intenzione
di sollecitare il sacro che attiene
all'ordine del vivere e del morire
di qualsivoglia presenza sulla
terra. Ricorro a questa parola
per vincere l'orrore che la spietata
riduzione a merce e denaro degli
eventi che ci succedono e che
contribuiamo a far succedere mi
suscita. Ed infine, ancora, per
non consegnare all'ordine del
banale, dello scontato, l'infimo
quotidiano. Come dire che non
posso e non voglio banalizzare
la morte di Dingo perché
questo evento è parte fondamentale
di questa mia giornata, non meno
fondamentale dell'essere qui a
parlare con voi del libro di Andrea;
non posso e non voglio tacere
questa morte perché l'ideologia
terapeutica che l'ha attraversata
non riguarda soltanto i cani ma
in forme molteplici, e sofisticate
varianti, ciascuno di noi, nessuno
escluso.
E penso che sia (...)