"Senza
rancori, senza rimpianti, senza
rimorsi..."
di Don Sergio Messina
Intervento di Don Sergio Messina della Comunità L'accoglienza di Torino al seminario " Vivere il morire: un diritto fondamentale di ogni uomo" che si è svolto a Torino l'11/12/98. Quella che pubblichiamo è solo la prima parte.
Temere la morte non è che
credere di essere saggi senza
esserlo, di sapere ciò
che non si sa. Infatti, nessuno
sa che cosa sia la morte, se per
l'uomo il più grande dei
beni, eppure tutti la temono come
se fossero sicuri che essa è
il più grande dei mali.
E non è forse la più
riprovevole ignoranza, questa,
di credere di sapere ciò
che non si sa. E in questo, forse,
ateniesi, io mi sento diverso
dagli altri; e se dovessi credere
di essere più sapiente
di qualche altro sarebbe per il
fatto che, non conoscendo nulla
dell'aldilà, non presumo
di saperlo. (1)
Perché temiamo ciò
che non conosciamo? Mi faccio
tante volte questa domanda girando
tra i letti d'ospedale dove da
diciotto anni passo la maggior
parte del mio tempo. Spesso incontro
persone che non hanno paura di
parlare dell'aldilà perché
hanno letto dei libri e si sono
fatti una cultura che li aiuta
ad affrontare queste realtà
ultime con un certo distacco.
E così sento esprimere
sensazioni provate a leggere certe
riviste specializzate oppure seguo
le divagazioni di chi, parlando
di queste cose, fa uno zibaldone
di ricordi familiari legati a
riti o credenze religiose, di
spezzoni di film sui fantasmi
o sugli zombi e di goliardici
racconti di interrogazioni sui
miti dell'Antico Egitto o sulla
Divina Commedia.
Soprattutto però mi pare
di captare quasi sempre una richiesta
implicita. "Va bene - mi
sembra che dicano i miei interlocutori
- giochiamo pure a parlare del
dopo, tanto tutte le opinioni
sono 'vere', come lo è
altrettanto il loro contrario.
Ma per favore, non tocchiamo l'argomento
morte".
Oggi siamo qui invece per toccare
questo argomento che noi, come
i contemporanei di Socrate, "
per riprovevole ignoranza, pensiamo
di sapere".
Pensiamo di conoscerlo, di tenerlo
in pugno, ma in realtà
lo aborriamo, non vogliamo sentirne
parlare e di fatto lo etichettiamo,
lo banalizziamo, lo svuotiamo
del suo profondo significato.
Non conoscendolo, diamo per scontato
che "sia il più grande
dei mali" e così togliamo
alla nostra vita una delle sue
esperienze fondamentali, cioè
lo espropriamo alla nostra vita.
Sarebbe vita la nostra se ci espropriassero
la libertà, la possibilità
di autonomia, il bisogno di dare
e ricevere affetto? Non sarebbero
criminali coloro che ci impedissero
di esercitare queste nostre "
esperienze umane fondamentali",
solo perché sono dolorose
e difficili?
Allora perché fin da piccoli
non veniamo messi nell'occasione
di "conoscere questa esperienza
vitale" e chi ci educa dà
per scontato che è certamente
meglio lasciare al silenzio e
al destino l'incontro con la morte
e i morenti?
Attorno a me vedo tanto interesse
per ciò che va al di là
della nostra comprensione e di
cui possiamo solo tacere. Tanto
interesse per parole vuote e alienanti.
Mi pare davvero perdita di tempo
approfondire questioni che sono
sottratte alla nostra reale possibilità
di comprendere, di possedere pienamente,
essendo per loro natura inesprimibili.
Mentre il tempo guadagnato è
il tempo dato a guardare in faccia
la realtà e soprattutto
il tempo dato a fare chiarezza
dentro di sé per scandagliare
e interrogarsi. Per confrontare
i diversi modi di agire che la
antropologia ci permette di conoscere
e per utilizzare le esperienze
di vita di chi ci ha preceduto
per affrontare con successo le
situazioni difficili dell'oggi.
Non è alienazione preoccuparsi
di cosa faremo nell'aldilà,
mentre così poco interesse
viene dato ad accompagnare chi,
nell'al di qua, sta progettando
un viaggio (cioè il proprio
morire) senza bussola e senza
"nutrimento"?
Faccio una premessa doverosa e
indispensabile. La realtà
del morire resta e resterà
sempre realtà che mette
a nudo i nodi irrisolti della
nostra vita. Questo, a mio parere,
è la sua tragicità
e la sua assurdità.
Una tragicità che nasce
dal fatto che esplodono tutte
insieme le contraddizioni che
non si sono volute risolvere nella
propria esistenza. O non si è
potuto, per educazione familiare
e religiosa, ad esempio. O per
troppa paura, per limiti caratteriali.
Se infatti non si è stati
capaci di metabolizzare correttamente
i segni della vita, che sempre
ci parlano di inizio e di termine,
di crescita e di perdita, di nascita
e di morte, diventa certamente
tragico affrontare in modo affrettato
e sofferto tutta una serie di
problematiche che si sarebbero
dovute interpretare a tempo debito,
confrontandosi, ad esempio, con
il pensiero e la prassi di qualche
'maestro' del morire oppure impegnandosi
a individuare per tempo, quando
il morire sembra ancora tanto
lontano, compagni di strada che
siano per noi sostegno sincero
e solido e non ci lascino soli
al nostro destino.
Se non siamo mai riusciti a passare
serenamente del tempo accanto
a un morente, se non abbiamo mai
veramente accompagnato chi lascia
la vita e non abbiamo mai voluto
pensare all'importanza e al dovere
di instaurare con lui comunicazioni
fondate sulla sincerità,
'penseremo' inevitabilmente al
nostro morire come a una lunga
serie di mesi di tragedia, ritmati
dalla sofferenza e dalla solitudine,
dall'angoscia e dalla incomunicabilità.
E la paura inquinerà la
nostra vita perché tenteremo
sempre di rimuovere questo pensiero.
E non è già una
tragedia questo? Quando poi verrà
il momento di vivere ciò
che per tanto tempo abbiamo paventato,
come farà a non esplodere
l'angoscia? Perché dovremo
dare risposta adeguata a domande
che abbiamo accantonato, a problemi
che ora dobbiamo guardare in faccia,
dobbiamo gestire. E coi quali
dobbiamo necessariamente imparare
a convivere. Forse viviamo nella
speranza o pretendiamo che alla
fine arrivi un deus ex machina
che ci tolga il fardello del morire.
Ma ciò significa comportarsi
da irresponsabili. Una irresponsabilità
che coltiva tragedie e sfocia
in tragedie.
Una assurdità perché
il peso da portare alla fine della
vita è certamente eccessivo.
Pensiamo alla sofferenza che non
sempre riesce a tenere sotto controllo
e che soprattutto in Italia non
viene combattuta dalla classe
medica con tutte le risorse disponibili.
Pensiamo al disfacimento di tutta
una serie di realtà che
fanno perdere al morente, a volte
in brevissimo tempo, ruoli e identità
lentamente costruite nel tempo.
Pensiamo alla delega quasi sempre
totale che colui che si sente
morire deve dare a apparati sanitari,
familiari, istituzionali, religiosi
che spesso non brillano per 'scienza
e coscienza'. Gli 'apparati' tendono
a nascondere le problematiche
legate alla fine della vita e
si adeguano facilmente al ruolo
di spettatori dell'evento-morte
e del resto l'amore dei parenti,
la competenza degli operatori,
l'impegno dei volontari, la disponibilità
dei religiosi di fatto risponde
spesso in modo assai poco adeguato
ai reali bisogni dei morenti.
Forse perché non si può
dare ciò che non si è
o che non si è riusciti
a diventare. Chi non ha fatto
i conti con il proprio vivere
a termine, chi ha omesso di rispondere
alle domande che l'ineluttabilità
della morte pone, chi ha tralasciato
di dare tempo alla riflessione,
al dibattito su questi argomenti
non può che ritrarsi spaventato
davanti al pensiero della morte
e davanti al morire concreto di
un uomo, perché sarà
uno sperare ancora una volta di
essere esonerato dal cominciare
a vivere il proprio morire. E
tutto questo da una parte rende
assurdo il vivere che è
continua apprensione per la catastrofe
che può accadere travolgendoci
improvvisamente e lasciandoci
in balia del nostro nulla e delle
nostre paure irrisolte e dall'altra
renderà ai morenti ancora
più assurda l'esperienza
che stanno vivendo nella solitudine
e nell'abbandono.
Saint-Exupery esprime la difficoltà
che il Piccolo Principe ha nell'entrare
nel Paese delle Lacrime "Non
sapevo bene cosa dirgli. Mi sentivo
maldestro. Non sapevo come toccarlo,
come raggiungerlo" (2). Sì,
il Paese delle Lacrime è
dolorosamente misterioso perché
mette a nudo chi siamo e dove
andiamo con realistica brutalità.
Che infrange in mille pezzi il
nostro narcisismo e la nostra
presunzione. Che radica il nostro
esistere nell'impotenza e nella
vanità, secondo la felice
espressione del Qoelet (3).
Nessuno questo lo dimentica. Il
morire sarà sempre accompagnato
dallo strappo degli affetti, dei
progetti e delle speranze. Sarà
sempre doloroso, sempre alternativo
alla nostra mania di onnipotenza
che non vorrebbe mai lasciare
ciò su cui abbiamo costruito
la nostra storia personale e relazionale,
ciò che abbiamo conquistato,
ciò per cui abbiamo faticato.
Sarà sempre rompere tutta
una serie di legami che noi abbiamo
annodato con persone e con cose,
con avvenimenti storici e costruzioni
mentali che se da una parte ci
hanno immerso e legato alla vita
dall'altra ci hanno 'assicurato'
contro la paura del 'nulla eterno'
e hanno rimandato al 'poi' una
presa di coscienza della realtà
del nostro 'limite'. Il Paese
delle Lacrime è misterioso,
ma misterioso non significa impenetrabile,
né inaccessibile.
È
il 27 gennaio di quest'anno. C'è
un signore che mi cerca in portineria.
Ha letto il mio libro e ha pensato
di contattarmi per narrarmi una
storia, una esperienza di vita,
un cammino che lo ha portato,
dopo una lunga e faticosa escursione,
alla cime di una montagna sacra
dove ha esperimentato la gioia
di toccare l'infinito. Lo ascolto
con attenzione. Mi narra di un
padre e di una madre morti di
cancro, accompagnati nella loro
malattia dall'affetto sincero
dei figli.
Ricordi segnati dalla certezza
di aver seguito con tenera attenzione
i genitori morenti, ma anche nel
dispiacere di non essere riusciti
a trovare nel proprio cuore la
forza di riempire di verità
i giorni dolorosi e unici del
distacco annunciato. Una amarezza
che però si tramuta, dopo
la morte dei genitori, in un impegno
fecondo preso con la sorella più
grande di dirsi la verità,
nel caso un tumore avesse albergato
in futuro nella loro vita.
Dopo quattordici anni l'ospite
temuto si presenta e si insedia
nell'esistenza della sorella,
invitandola alla danza di coloro
che ballano nella verità.
E allora l'impegno preso anni
prima diventa per questo uomo
certezza morale di dover abbracciare
con sincerità la sorella
sussurrando parole non vuote,
né mistificatorie. Parole
che aiutano l'ammalata a dare
un nome preciso a quei dolori,
a quei farmaci, a quei silenzi
imbarazzati. Parole dure, ma che
trasformano i tre mesi della malattia.
Essi diventano... giorni riempiti
di tutto ciò che è
autentico, è vivo, è
spirituale. E ora i ricordi di
quei tre mesi sono rievocati come
segni, come impronte dello Spirito
che riesce a scaldare la vita
anche nei giorni più gelidi
perché la comunicazione
sincera è figlia di Dio
ed è veicolo del Suo calore
d'amore.
A settembre una ecografia rivela
che un rene di quest'uomo è
invaso dalla stessa malattia.
Il tecnico che esegue l'esame
se ne rende conto, ma non sa come
dirglielo. Tergiversa e non trova
nulla di meglio che domandargli
a più riprese se ha dei
parenti. Lui capisce che la domanda
è una implicita richiesta
da parte del tecnico di permettergli
di giocare con la verità
e di affidarla caso mai, solo
ai consanguinei. Lui si sente
condannato a morte, ma non solo
dalla malattia. E decide di non
fare lo spettatore. Insiste subito
che il giudice gli legga la sentenza
e vuole conoscere tutti i dettagli,
i passi, le eventualità
che lo attendono prima della sua
esecuzione. Oggi vuole ascoltare
il giudice con lo stesso sofferto
coraggio con cui domani guarderà
in faccia il carnefice.
Viene operato. L'operazione sembra
tramutare la condanna a morte
in una condanna all'ergastolo.
Domani forse verrà la grazia,
più bella perché
non attesa.
Sente in questi giorni la necessità
di parlare con qualcuno che capisca
la sua ricerca, che incoraggi
la sua sete di sincerità,
che sostenga il suo passo su questo
sentiero così poco battuto.
"Mi sento - dice - come un
giocatore di calcio che ha visto
l'arbitro estrarre il cartellino
e ha subito pensato che fosse
un cartellino rosso. Era invece
un cartellino giallo. Ho ancora
un po' da giocare, ma ho preso
coscienza che basta una minima
infrazione e... non sarò
più della partita."
Salutandolo e ringraziandolo ho
pensato che quest'uomo aveva già
vinto la sua partita, perché
la morte per lui era diventata
solo un avversario con cui giocare
nel bellissimo gioco della vita.
Tutti i discorsi che a mio parere,
vengono fatti in questo convegno
hanno senso solo se noi crediamo
al dovere di vivere il nostro
morire. Solo se noi consideriamo
il nostro morire un bene intangibile
e indisponibile. Un bene cioè
che cade sotto il principio fondamentale
dell'etica: quello dell'autonomia.
Compete essenzialmente a noi la
piena e completa decisione su
come gestire questa fase della
vita. Qualsiasi atteggiamento
noi ci proponiamo di tenere al
termine dell'esistenza deve essere
da noi scelto per tempo e deve
essere da noi per tempo comunicato
a coloro che noi pensiamo capaci
di sostenerci nel nostro 'morire'
e disponibili a 'comprendere',
a prendere con sé il fardello
di accompagnarci fino alla fine.
Dobbiamo rassicurarci: non porta
male. Serve solo a non essere
poi trattati male da coloro che
altrimenti vivranno con noi questa
esperienza così dolorosa
senza punti di riferimento e con
poche possibilità di rompere
il muro di impenetrabilità
che l'angoscia di morte quasi
inevitabilmente pone tra viventi
e morenti. Non possiamo sperare
che le cose prendano da sole una
piega favorevole. Non possiamo
comportarci da vili. Perché
"fatti non foste per vivere
come bruti, ma per seguire virtude
e conoscenza" (4)
Una virtù e una conoscenza
che non può esimerci dal
guardare in faccia la propria
morte e decidere con quali interlocutori
appropriati comunicare e con quali
accompagnatori qualificati percorrere
questo segmento di esistenza.
Qui per me sta la soluzione al
nodo più angoscioso, ma
anche più nostro della
vita. Il primo che deve salvaguardare
il principio di autonomia sono
io per me . Perché se non
lo faccio io, nessuno può
a me sostituirsi.
Nella fase terminale basterebbe
che ciascuno si impegnasse a essere
se stesso e a non delegare a nessuno
la propria autonomia per ridimensionare,
almeno in parte, tutto un carico
di incomprensioni, di sofferenze,
di solitudini. Basterebbe assumersi
l'impegno di non lasciare alla
casualità o al destino
questo 'suo pezzo' di vita così
importante.
Per vivere il proprio morire però
è necessario credere. Perché
credere significa fare chiarezza
dentro di sé in modo che
ciò che deciderò
di compiere diventi veramente
'mio', frutto di una riflessione
in cui io ho messo in discussione
valori e comportamenti. Credere
vuol dire scegliere su cosa giocare
il vivere e il morire non accettando
interferenze esterne e neppure
dando deleghe in bianco ad altri.
Credere comporta dare tempo alla
riflessione, allo studio, all'analisi
dei condizionamenti che hanno
segnato il nostro percorso formativo
e poi imboccare la propria strada
senza tentennamenti. Autonomamente
senza rancori, senza rimpianti,
senza rimorsi. Non perché
si è convinti di essere
sempre nel giusto tout-court,
ma perché ogni scelta fatta
con coscienza da me è mia
e nessuno mi può espropriare
questo compito gravoso ed esaltante.
Nessuno potrà mai decidere
per noi, a meno che noi non abbiamo
delegato coscientemente questa
nostra prerogativa. Ma la delega
l'ha data la nostra coscienza.
Il che significa che siamo stati
noi a decidere, cioè abbiamo
salvaguardato il principio della
autonomia.
Il principio di beneficialità
Nessuno può interferire,
senza il nostro permesso, in questo
nostro ambito, neanche in nome
di una presunta beneficialità.
Se il malato stesso non prende
in mano il proprio morire correrà
il rischio che il suo entourage
si sostituirà a lui nelle
decisioni che lo riguardano. Sembra
infatti che tutti sappiano ciò
che è bene per il malato.
Sembra che non ci sia bisogno
di dibattito etico su questa terra
di nessuno, perché tutti
paiono aver deciso per tempo quali
sono i valori, le scelte da fare,
gli atteggiamenti da tenere. Si
dà per scontato che il
silenzio del malato è la
scelta di chi non vuole fare domande,
che gli scatti d'ira sono dovuti
solo al male fisico e che il non
volersi più nutrire è
solo causato dalla stanchezza
o dalla poca volontà di
collaborazione. La famiglia difficilmente
ripensa in un'ottica di ascolto
ai piccoli segnali inviati dal
malato, né si sforza di
immedesimarsi nello status di
un morente.
Anzi ci si vanta di tenere tutto
sotto controllo e di riuscire
a interpretare sempre correttamente
i bisogni del malato. È
chiaro che se il morente per primo
non ha mai espresso opinioni in
proposito, significa implicitamente
che ha delegato ad altri questo
compito. Ma la delega deve essere
chiara e precisa, oserei dire
firmata e consacrata dalla presenza
di testimoni. E non certamente
in senso giuridico, ma etico.
È il malato che deve esplicitare
cosa lo aiuta a vivere in pienezza,
cosa lo conforta, cosa lo assilla.
E non è lecito a nessuno
dettare legge o peggio dare interpretazioni
personali sul senso che il malato
ha voluto dare alla sua vita e
sul valore delle sue scelte, indirizzandole
magari verso mete consacrate dall'uso
culturale o religioso. Le interpretazioni
personali possono essere molto
gratificanti per chi ne fa uso,
ma sono certamente fuori dalla
verità.
E poi non scegliere molte volte
può significare lasciare
tante cose incompiute, arruffate,
confuse. Pensiamo, per esempio,
alla mancanza dei testamenti scritti
che chiudono le famiglie in spirali
di odio e di ripicche per intere
generazioni. Oppure ai sensi di
colpa che devastano l'intimo di
persone che, ancora a distanza
di anni, si domandano che cosa
sarebbe stato meglio fare. Perché
la fase terminale è momento
unico e occasione irripetibile
che non tornerà più,
'talento' da far fruttare se non
si vuol vivere da "servo
malvagio e infingardo". (5)
Troppo spesso, mi pare, noi tendiamo
a giustificare atteggiamenti presi
dalle équipes mediche o
dai parenti nei confronti dei
morenti perché riconosciamo
loro una certa buona fede o, tutt'al
più, una mancanza di coraggio.
La mia esperienza mi porta invece
a riconoscere in questi atteggiamenti
quasi sempre la paura che attanaglia
malati e sani in una spirale di
'morte' che paralizza ogni moto
di sincerità in nome di
un presunto bene o beneficio dell'altro.
È il suo bene, si sente
dire e tutti accorrono ad abbeverarsi
a questo principio, a questa oasi
che lenisce la sete di chi da
tempo cammina in una landa assolata
e desolata. Ma forse ci si potrebbe
trovare in un'altra terra, magari
rigogliosa e ricca di acque. Basterebbe
forse essere riusciti a coinvolgere
il malato, a interpretare le sue
parole e i suoi silenzi, le sue
bestemmie e le sue preghiere.
Lo so che non è facile.
Non per nulla ho definito "landa
assolata e desolata" il tempo
dell'accompagnamento dei morenti.
Ma forse si possono ipotizzare
altri percorsi, altri sussidi,
altre comunicazioni.
E ancora una volta il responsabile
principale di questa fase deve
essere il malato, perché
compete a lui, come dovere cui
non può eticamente sottrarsi,
chiedere rispetto per sé,
per le sue paure e le sue speranze,
le sue decisioni e le sue aspettative
di vita. Ha ben sintetizzato questo
pensiero la Kübler-Ross:
"Se quando vai a trovarlo,
il paziente ti dice: 'So di avere
un cancro. Non uscirò mai
più da questo ospedale',
allora tu lo sentirai, lo aiuterai,
perché ti rende le cose
facili. È lui a dare inizio
alla comunicazione a dire pane
al pane e vino al vino... I pazienti
terminali che sanno parlare chiaro
della loro malattia mortale sono
quelli che hanno già superato
la loro peggior paura, la paura
della morte. In realtà
sono loro che aiutano te, non
il contrario. Sono loro i tuoi
terapeuti, sono loro che ti fanno
un regalo". (6)
Non è facile guardare in
faccia la propria morte. Forse
molti non ci riusciranno mai perché
non è proprio facile improvvisare
al termine della vita atteggiamenti
e comportamenti. Ma non possiamo
dare per scontato che di questa
fase della vita nessuno sia veramente
e assolutamente responsabile.
Da sempre è stato individuato
l'attore principale che può
dare senso e significato al lasciare
la vita: è il malato che
non deve svendere, almeno alla
fine, il suo essere persona. Deve
decidere, appena ne prende coscienza,
e impegnarsi a salvaguardare la
capacità di riflettere
su se stesso e sul proprio agire,
di prendere decisioni autonome
e libere, di inventare come essere
e come agire nella fase terminale
della vita senza aspettarsi dagli
altri niente altro che essere
ascoltato, accompagnato, supportato,
per tutto ciò che è
il suo benessere.
Ogni persona, per quanto condizionata
da un programma biologico e culturale,
infatti ha sempre la possibilità
di scegliere, almeno parzialmente
ed ha sempre una libertà
interiore che lo porta a pronunciare
sì o no, a progettare,
a decidere autonomamente cosa
è giusto e cosa è
sbagliato. Perché è
l'unica creatura che fa etica.
Fare etica, giocarsi la vita sulla
salvaguardia di ciò che
abbiamo di più intimo e
invendibile: la nostra coscienza.
Sensibilizzarsi per tempo per
sapere affrontare con umiltà
e determinazione la sfida centrale
della nostra esistenza. Illuminarsi
la strada per decidersi e sapere
dove andare, equipaggiarsi per
evitare sorprese e proporsi un
progetto di vita che valorizzi
e giustifichi, definisca i confini
e gli orizzonti dei valori e dei
comportamenti che identificheranno
autonomamente il nostro morire.
Fare etica per non lasciarsi irretire
dai falsi profeti che senza chiederci
il permesso, si introducono nella
nostra visione della vita e della
morte per irridere la verità,
preoccupati come sono solo delle
loro paure. Persino con Francesco
d'Assisi, alla fine della vita,
per il suo bene, hanno tentato
di barare.
"In questi giorni un medico
di Arezzo, di nome Bongiovanni,
molto amico di Francesco, venne
a visitarlo nel palazzo vescovile
di Assisi. Il santo lo interrogò.
'Che ti sembra Benvegnate, della
mia idropsia?' Il medico rispose:
'Fratello,con l'aiuto del Signore
starai meglio'. Francesco insistette:
'Dimmi la verità. Qual
è il tuo parere? Non aver
paura a dirmelo, poiché
con la grazia di Dio non sono
un pusillanime che teme la morte;
per dono dello Spirito Santo sono
così unito al mio Signore
da essere ugualmente felice sia
di vivere che di morire'.
Allora Bongiovanni parlò
senza reticenze: 'Padre, secondo
la nostra scienza la tua malattia
è evidentemente incurabile.
Penso che per la fine di settembre
o ai primi di ottobre tu morirai'.
Allora Francesco, steso sul letto,
levò le mani verso il Signore
con grande fervore e riconoscenza
e pieno di gioia d'anima e corpo
esclamò: 'Sii la benvenuta,
sorella mia Morte".(7)
Un detto sufi che mi è
molto caro afferma: "La cosa
di cui parliamo non si potrà
mai trovare cercandola, eppure,
solo coloro che la cercano la
trovano". Un detto che esprime
la inadeguatezza di tutti i nostri
strumenti per infrangere il velo
dell'impenetrabile, ma nello stesso
tempo lo stimolo a rendere carne
e sangue, cioè vivibile,
ciò che in ogni caso ci
appartiene.
Sì, la morte ci appartiene,
come ci appartiene il morire.
La morte è vivibile come
è vivibile l'accompagnamento
al morire dei nostri cari. Basta,
l'ho scritto sul manifesto del
progetto hospice della nostra
associazione, "rompere lo
schema che accomuna fase terminale
con incomunicabilità e
con insincerità e che squalifica
a priori tentativi nuovi di rendere
tutti più consapevoli e
coinvolti nell'accompagnamento
dei morenti".
Dobbiamo guardare in faccia la
morte, perché essa è
parte integrante della vita come
la libertà, la sessualità
e la ricerca sincera e appassionata
di conoscere il volto autentico
di Dio. Per fare questo occorre
smantellare ciò che ci
ingabbia in nome del "si
è sempre fatto così"
o del "è impossibile"
e riuscire così a esprimere
le nostre più recondite
aspirazioni. Dipende da noi e
da quando margine di manovra riusciamo
a ritagliarci per vivere appieno
e per fare del nostro morire uno
strumento essenziale del nostro
vivere. Forse dovremmo cominciare
a pensare che nei primissimi anni
di vita la famiglia, la società
e la religione ci passano le loro
paure, le loro zone tabù,
le loro opzioni che così
poco si sposano con la razionalità
e la ricerca della verità.
E forse allora la nostra vera
vita inizia quando cominciamo
con coraggio a liberarci di questi
fardelli che paralizzano il nostro
lento aprirci alla realtà
di un'esistenza che è avventura,
ricerca e ritrovamento di tesori
nascosti per acquistare i quali
vale la spesa vendere tutto.
Sarà per questo che Cecov
ha scritto che "la morte
non vuole gli stupidi". Perché
chi rinnega la propria morte vive
stupidamente, impoverendo giorno
per giorno la sua esistenza. È
stato saggio invece Socrate che
di fronte alla sua ingiusta condanna
a morte non esprime rancore, ma
richiama tutti, anche i suoi stessi
carnefici, al dovere di vivere
sempre in pienezza. Cioè
a guardare in faccia, con atteggiamento
etico, la vita e la morte:
"Vi voglio pregare di una
cosa: quando i miei figli saranno
cresciuti, puniteli, cittadini,
stategli dietro come facevo con
voi, se vedrete che si preoccupano
più delle ricchezze o degli
altri beni materiali che delle
virtù e se si crederanno
di valere qualcosa senza valere
poi nulla, rimproverateli, come
io rimproveravo voi, per ciò
che non curano e che, invece,
dovrebbero curare, se credono
di essere 'grandi uomini' e poi
non sono niente. Se farete questo,
io e i miei figli avremo avuto
da voi ciò che è
giusto. Ma è giunta, ormai,
l'ora di andare, io a morire,
voi a vivere. Chi di noi vada
a miglior sorte, nessuno lo sa
tranne dio". (8)
1) Platone, Apologia di Socrate,
Garzanti Milano, 1993, pp. 23-24
2) Saint Exupery, Il piccolo principe,
Bompiani
3) Qoelet 1,1
4) Dante, La Divina Commedia,
Inferno, Canto XXVI
5) Mt, 5, 14
6) Kübler-Ross, La morte
è di vitale importanza,
Armenia 1997, p.26
7) Fonti Francescane, Editrici
francescane 1987, p.1437
8) Platone, op. cit., p.25