"La
violenza e la guerra non sono
mai la soluzione del conflitto"
Intervista a Radio Cooperativa
di Padova di Don Albino Bizzotto,
dei Beati i costruttori di
pace, con Claude Anshin
Thomas
Lo
scorso gennaio Giovanni Turra
aveva proposto a Claude Anshin
Thomas di partecipare a una missione
di pace in Kosovo, sostenuta anche
dalla Campagna Kosovo: come religioso
di una tradizione non coinvolta
nel conflitto e come veterano
della guerra in Vietnam avrebbe
potuto dare un contributo significativo
nel tentare di riannodare i fili
del dialogo tra le parti che l';incalzare
degli avvenimenti interni e internazionali
andava frantumando giorno dopo
giorno.
L'inizio dei bombardamenti della
NATO ovviamente ha reso impossibile
anche questo piccolo progetto.
Claude non ha voluto però
disdire il biglietto di aereo
che aveva già prenotato
e si è offerto di trascorrere
quello stesso periodo di dieci
giorni in Italia. Sono nate varie
iniziative: a Roma, Milano e soprattutto
nel Veneto dove Claude, oltre
a partecipare a numerosi incontri,
è stato presente davanti
alla base militare di Aviano e
Vicenza, sedendo in meditazione
e celebrando una cerimonia.
Intervista
Puoi iniziare parlandoci un
po' della tua esperienza?
Vorrei iniziare da un punto basilare:
la violenza e la guerra non sono
mai la soluzione del conflitto.
Sono giunto a questa consapevolezza
non per caso: come sapete sono
stato soldato in Vietnam, sono
partito nel 1967, a diciassette
anni, e allora credevo totalmente
in quello che stavo facendo. Non
avevo dubbi. Ero convinto che,
come forza alleata - noi soldati
americani, australiani, thailandesi
e altri - stessimo facendo la
cosa giusta.
Ciò che ho imparato dalla
mia pratica spirituale, e spero
che mi capiate quando parlo di
buddhismo zen senza perderci nel
dogma delle tradizioni, ciò
che ho scoperto è la santità
della vita.
Sono cresciuto nella tradizione
cristiana e anche lì c'era
lo stesso concetto; eppure quando
si arriva all'ideologia, all'ideologia
della democrazia come viene applicata
negli Stati Uniti, sento che la
santità della vita perde
il suo valore. Sono stato educato
con il concetto che uccidere è
sbagliato, ma fin dall'inizio
della vita sono stato condizionato
a uccidere: attraverso attività
sportive come la caccia o nelle
altre discipline in cui venivo
condizionato a giocare al fine
di sconfiggere il nemico. A me
è stato insegnato di non
uccidere, tranne nel caso che
sia il governo a chiedertelo;
era un paradosso che per me era
difficile assimilare.
Che cosa ti ha insegnato da
subito l'esperienza della guerra
quando avevi solo diciassette
anni? Come hai scoperto la contraddizione
con la santità della vita?
Avevo fatto un errore, questa
fu la prima cosa di cui divenni
consapevole appena arruolato.
Ciò che mi avevano insegnato
del mondo militare i film, i racconti
di mio padre e dei suoi amici,
che avevano fatto la II guerra
mondiale, faceva apparire il mondo
militare a un ragazzo come me
come una grande avventura. Nessuno
mi aveva mai parlato della verità.
L'altra circostanza che mi ha
permesso di guardare più
profondamente questa contraddizione
è stata la spersonalizzazione
assoluta dei nemici e degli altri
che avviene nell'addestramento
militare. Per la forza dell'esperienza
che ho vissuto, per lo shock emotivo
e psicologico che mi ha causato,
ho impiegato molti anni per arrivare
a una sintesi di ciò che
l'esperienza mi aveva dato.
Solo 15, 20 o 25 anni dopo ho
iniziato ad avere una qualche
comprensione di ciò che
era successo . È d'altro
canto vero che il governo, la
società, non volevano che
arrivassi a questa comprensione.
Il loro scopo era di non ascoltare
la verità dell'esperienza
perché altrimenti tutti
dovrebbero accettare le loro responsabilità
in azioni come la guerra.
Hai trascorso il periodo in
Vietnam senza creare nessuna difficoltà,
come tutti gli altri, senza disobbedire?
Sì, non ci ho mai pensato.
Non mi è mai nemmeno passato
per la mente di creare dei problemi.
Una delle cose che ho scoperto
circa questo fenomeno è
che se non sappiamo di avere una
scelta, è proprio come
se non l'avessimo. E a quell'epoca
io non sapevo, sapevo solo che
la situazione in cui mi trovavo
era molto difficile, ma non sapevo
cosa fare dopo.
Secondo te è per questo
che esiste una sorta di obbedienza
ingenua dei soldati ai propri
superiori con cui si potrebbe
spiegare anche l'indifferenza
della gente davanti la guerra?
Io direi che la società
è indifferente a ciò
che succede perché la gente
pensa di non avere nessun potere
per cambiare le cose. Ecco perché
seguo il mio sentiero: per dimostrare
che c'è qualcosa che possiamo
fare. Ma c'è anche la realtà
dei molti che hanno sostenuto
la guerra in Vietnam, dei tanti
che credono che la violenza possa
risolvere gli abusi. Non riesco
a capire come fanno a non vedere
che la violenza porta altra violenza.
Forse, però, anche loro
si trovano nella stessa situazione
in cui mi trovavo anch'io, semplicemente
non conoscono un'altra via.
Mi sento addosso una grande responsabilità.
Durante la guerra, conoscevi
solo quello che accadeva a te
o anche quale era la situazione
degli altri soldati?
Non si può fare a meno
di vedere ciò che succede
agli altri; ma uno dei condizionamenti
era di non entrare in contatto
con gli altri. In guerra, quando
ci si incontra, non si vuole sapere
il nome dell'altro, non si vuole
sapere niente di lui perché
se sarà ferito o ucciso,
e io ti conosco, questo potrebbe
suscitarmi delle emozioni molto
forti e rendermi titubante in
azione. E questo potrebbe costarmi
la vita, la mia o di quelli che
mi stanno intorno. Non si possono
avere delle relazioni, eppure
esiste un grosso paradosso: alcuni
dei legami nati in guerra sono
tra i più profondi che
ho mai avuto, ciascun momento
è il momento della vita
e della morte. Per certi versi
la vita è molto semplice,
posso dare la mia vita per te
senza nemmeno sapere come ti chiami.
Nel vedere donne e bambini
colpiti, anche senza conoscerne
il nome, è possibile non
provare un grande dolore e sentire
una grande responsabilità?
Certamente, è proprio così
se sei coinvolto in questo tipo
di processo. In Vietnam era così
e a me risulta che sia lo stesso
in tutte le guerre. Le circostanze
del Vietnam erano leggermente
diverse da quelle della II guerra
mondiale, ma non più di
tanto. Se mi succedeva di vedere
un bambino ucciso, non potevo
permettermi di sentire dolore
o rimorso, di sentirmi connesso
con lui. Da una parte era una
cosa molto triste che donne e
bambini - ma perché solo
donne e bambini? - venissero feriti,
uccisi o mutilati, però
è anche vero che per noi
i bambini erano il nemico. I vietcong
usavano dei neonati come bombe.
Uno dei problemi nati in questa
guerra in Serbia è stata
la violenza che si è scatenata
con l'operazione "Ferro di
cavallo" sugli albanesi del
Kosovo. Le immagini dei profughi
ammassati come bestie alla frontiera
in qualche modo hanno reso inevitabile
l'uso della violenza.
Chi sa dove è iniziato.
Tu guidi la macchina? Quando sei
andato a comprarla, il venditore
avrà cercato di convincerti
che quella era la migliore di
tutte e così, nello stesso
modo, coloro che sostengono la
validità di questa guerra
ce la vogliono vendere. È
vero che ciò che succede
in Kosovo è terribile,
la nozione di pulizia etnica è
inaccettabile. Ma succede anche
qui a Padova, succede anche a
me. Come vi sentite quando venite
obbligati a fare qualcosa che
non volete, quando qualcosa vi
viene imposto con il potere o
la violenza?
Io vivo in un piccolo cottage
in America, è la mia casa
da ormai diciannove anni e quando
è morta la proprietaria
uno degli eredi mi ha detto: "Devi
andartene, lasciare la casa".
È qualcosa di simile. Dove
si trovano dunque le radici della
violenza? Ma quello che ho capito
osservandomi è stato molto
importante. Quando racconto questa
storia dico che è pulizia
etnica, ma la gente del mio paese
pensa che non abbia niente a che
vedervi. C'è una resistenza
a vedere la connessione, la relazione
tra queste situazioni e per farlo
bisogna aprire di più gli
occhi. Per poter vedere meglio,
ognuno dovrebbe entrare in contatto
con le proprie paure, insicurezze
e la propria impotenza.
Dove sono allora le radici della
violenza? È lì che
bisogna andare a cercare. Che
cosa succede dentro ciascuna persona
che porta al crescendo di violenza?
Dobbiamo guardare in profondità
nella nostra natura, nelle nostre
guerre. Dobbiamo esaminare come
prendiamo parte a questo ciclo
senza fine di guerra, in modo
da iniziare a interromperlo.
I serbi credono di fare la cosa
giusta, ne sono convinto, non
sono illuminati. Anche le truppe
della NATO credono di fare la
cosa giusta e lo pensano veramente;
non sono consapevoli del ciclo
della violenza e della sofferenza.
L'UCK, anche loro credono di essere
nel giusto, ma tutti contribuiscono
ad alimentare il ciclo di sofferenza.
Ho tratto un grande dono dal servizio
militare che ho fatto in Vietnam,
ho capito che questa non è
la via e mi sono reso conto che
tutti quelli che sono morti in
guerra e quelli che ora stanno
morendo, muoiono per un motivo
molto profondo: per mostrarci
che non è questa la via.
Non dobbiamo permettere che la
loro morte sia avvenuta in vano,
che le loro vite siano sprecate.
Dobbiamo fare tutto il possibile
per mettere fine in primo luogo
alla guerra che è in noi
stessi e allo stesso tempo indicare
quanto sia priva di senso la violenza.
Io non sono diverso dall'UCK,
quando il nuovo proprietario della
casa che vive esattamente dall'altro
lato della strada e che conosco
ormai da diciannove anni mi ha
dato lo sfratto, avrei voluto
fargli saltare la casa. Poi, la
seconda reazione che ho avuto
è stata di ingaggiare un
combattimento giuridico perché
volevo che pagasse per le sue
azioni. Non sono diverso dalle
truppe della NATO. E alla fine
ho pensato che se avessi vinto
la causa, avrei avuto tutte le
sue case: non sono diverso dall'esercito
o dal governo serbo. Che cosa
fare? Come farlo in modo diverso?
Devo trascendere il mio condizionamento
e posso farcela.
Ci sono stati degli fatti,
delle situazioni che ti hanno
aperto gli occhi e ti hanno fatto
capire l'errore che stavi facendo
in Vietnam?
Non guardo alle azioni che ho
compiuto in quel periodo in modo
moralistico. Quindi non considero
ciò che ho fatto all'epoca
come errore. Parlare di errore
dà l'idea che ci fosse
un altro modo per fare le cose,
non so se c'era. Nell'addestramento
militare avevo capito che c'era
qualcosa che non andava, ma non
capivo cosa. Lo capii quando si
spalancarono i portelli dell'aereo
che mi aveva portato in Vietnam
e poi dopo la guerra, quando il
rifiuto nei miei confronti da
parte della società, del
governo e della cultura fu totale.
Sapevo solo che c'era qualcosa
che non andava. Ma non c'era nessuno
che mi aiutasse a scoprire che
cosa fosse. Nessuno disposto a
entrare in profondità nella
mia sofferenza per aiutarmi a
capire che cos'era che non andava.
È stato solo nel 1983,
cioè sedici anni dopo che
avevo lasciato il Vietnam, che
qualcuno mi offrì una mano,
dicendomi che se volevo che la
mia vita fosse diversa avrei dovuto
iniziare a fare le cose in maniera
diversa.
Il primo passo era smettere di
prendere sostanze intossicanti,
smettere di bere, di prendere
droghe e di guardare sul serio
alla realtà spirituale
della vita. Solo in questo modo
mi sarei aperto e avrei iniziato
a guarire diventando consapevole
dell'illusione in cui stavo vivendo.
Sei uscito con un grande disagio
della guerra?
Sì, noi usiamo la parola
disease, malattia che è
composta da: dis-agio. La guerra
non inizia con una proclamazione
e non termina con un armistizio.
La guerra non finisce mai. E quindi
è vero che la guerra era
costantemente una parte della
mia vita. Non potevo chiuderla
in uno scatolone e metterla in
soffitta, che era invece proprio
quello che tutti mi dicevano di
fare. L'unico modo per metterla
in soffitta era trovare delle
distrazioni, ma non funzionano
mai. Nei dieci anni della guerra
in Vietnam, e qui mi riferisco
solo al periodo disegnato ufficialmente
come guerra, sono stati uccisi
58.000 americani; dal 1973 al
1983, un periodo analogo, circa
100.000 soldati americani che
avevano combattuto in Vietnam
si sono suicidati.
Prima parlavi delle amicizie
fortissime che possono nascere
in guerra proprio perché
in ogni momento si è a
contatto con la vita e la morte,
la tua scelta di oggi la condividi
anche con altri ex soldati?
Non è amicizia quella che
si forma in guerra, il legame
non è necessariamente un
legame di amicizia reciproca.
In base al modo in cui è
stato strutturato l'esercito,
in noi non c'era un senso di unità,
eravamo piuttosto degli individui
isolati. Arrivavamo da soli e
ripartivamo da soli. Anche se
eravamo all'interno di un gruppo
di persone, non ci conoscevamo.
Quindi non ho nessun legame duraturo
nato negli anni del Vietnam. Però
ho sempre più contatti
con soldati che hanno combattuto
quella guerra. perché insieme,
attraverso il processo di guarigione,
diventiamo come la luce sulla
punta della candela, possiamo
illuminare con la nostra luce
questa terribile cultura della
violenza, illuminare la natura
profonda della sofferenza che
nasce dalla violenza. E man mano
che guariamo possiamo mostrare
attraverso le nostre azioni alla
società, alla cultura che
anche loro possono guarire.
Pensi che l'esercito in quanto
struttura della società
possa rappresentare un po' il
luogo dove la gente, la società
stessa, proietta la possibilità
di esorcizzare la violenza? Alla
fine il soldato non è soltanto
il portatore della violenza, ma
è anche la vittima della
violenza collettiva.
È
sempre così con la violenza,
non solo nell'esercito. Ci sono
azioni di violenza orribile che
avvengono nelle famiglie, padri
che abusano delle figlie, madri
che sfruttano sessualmente i figli,
la violenza dei genitori contro
i figli non è diversa da
ciò che succede nell'esercito.
Nella vita di tutti i giorni la
violenza si perpetua in molti
modi diversi. È importante
quindi riconoscerla, senza concentrarsi
solo sull'esercito. Rendiamoci
conto che la realtà della
violenza esiste in tutti i luoghi.
La tradizione soto zen in cui
sono stato ordinato ha le sue
radici in Giappone e in un libro
molto forte che ho appena finito
di leggere, "Lo zen in guerra",
si parla di come l'istituzione
del buddhismo zen abbia usato
gli insegnamenti per giustificare
l'aggressione imperialista del
Giappone e per sostenerla. La
violenza dunque esiste anche nelle
istituzioni religiose, è
un virus che contagia tutti gli
aspetti della società e
della cultura.
Io sono la luce in cima alla candela
e questo è il dono potente
della guerra: ti strappa la pelle
non si può più nascondersi
dalla realtà della violenza.
Tu dici che la violenza pervade
tutta la società ma anche
che è possibile fare luce,
trovare la causa della violenza.
Dov'è la causa della violenza?
Non credo esista una sola causa
perché la violenza ha diecimila
facce, ma ciò che capisco
è che la violenza è
il risulto della nostra indisponibilità
a esaminare la nostra propria
sofferenza. Le possibilità
di interrompere il ciclo della
violenza, la possibilità
di porre fine alla realtà
della guerra quale la conosciamo,
è la responsabilità
di ciascun essere umano. Dobbiamo
diventare consapevoli della guerra
che è dentro di noi e impegnarci
nel processo di guarigione. Questo
non può avvenire se non
abbracciando la realtà
spirituale della vita. In qualsiasi
modo, ma dobbiamo farlo.
A me pare che ci sono dei fenomeni
come la guerra, ma anche come
i sistemi economici, come l'ingiustizia
nei confronti di coloro che non
possono avere né lavoro
né casa né niente,
che non dipendono solo dalla singola
persona ma da strutture. Il debito
estero, ad esempio, è una
realtà che non dipende
da una singola persona, ma va
a incidere sulla vita di molti.
Qual'è l'essenza di ciascuna
di queste strutture? L'individuo.
Non discuto su quello che hai
detto perché hai ragione,
sono d'accordo con te su tutto.
Si tratta di altre manifestazioni
di guerra. Ma, almeno che non
cominci a cambiare il modo di
pensare di ogni individuo, le
strutture non cambieranno. Ognuno
deve assumersi questa responsabilità;
non penso che dovremo agire in
modo individualistico. La guarigione
non è un fatto solo personale
ma anche comunitario. Nella famiglia
se io guarisco anche gli altri
ne trarranno beneficio e verranno
a loro volta incoraggiati a guarire.
Come quando si butta un sasso
nello stagno, le onde riempiono
tutto lo spazio. Queste istituzioni
devono cambiare ma il processo
inizia dentro ciascuno di noi.
Per questo prima dicevi che
esistono tante strade diverse
e che quello che conta è
iniziare a percorrerle?
Certamente; c'è un insegnamento
che ho ricevuto molto tempo fa
e che mi ha molto incoraggiato
sul cammino . Si trova in un piccolo
libro di alcuni secoli fa, scritto
da un mistico cristiano, La nube
della non conoscenza (ed. Ancora,
Milano, ndr). È scritto
che non esiste un unico percorso
a Dio, che ciascuno deve trovare
la propria strada e che Dio è
in tutte le cose. Quando ho letto
queste cose ho sentito che combaciavano
perfettamente con la mia pratica
zen e ciò che io so essere
la verità, non il capire
intellettuale di una verità
ideologica, è che tutte
le cose sono interconnesse. Se
agisco contro di te in modo violento,
sto agendo contro di me. Allora,
cosa posso fare? È mia
la responsabilità di cambiare.
Anche negli insegnamenti buddhisti,
o meglio in ciò che è
stato attribuito al Buddha, si
dice che non esiste un solo sentiero
verso il risveglio. Siamo noi
a dover trovare la nostra via
e la via passa sempre attraverso
la sofferenza. Dobbiamo risvegliarci
alla natura della sofferenza perché
solo così potremo interrompere
il perpetuarsi del ciclo della
violenza.
Secondo te in questa situazione,
tra Clinton e Milosevic, chi si
fermerà per primo?
Non ne ho la minima idea.
Io mi fermerò e se mi fermerò,
fermerò anche il Clinton
che è dentro di me. Fermerò
anche il Milosevic che è
dentro di me. Perché io
non sono diverso da loro, tutti
e due esistono dentro di me. È
anche vero, però, che io
non sono né Clinton né
Milosevic. Non aspetto che uno
di loro due si fermi; per addossare
su qualcun altro la responsabilità.
Perciò mi fermo io. Immagina,
se tutto a un tratto tra i soldati
serbi ci fosse un grande risveglio
e tutti dicessero: "Sono
stanco di combattere, basta".
La guerra finirebbe; e se ci fosse
un altro grande risveglio e i
piloti dei bombardieri realizzassero
che i soldati che stanno uccidendo
sono veramente loro fratelli,
che tutti apparteniamo a una sola
famiglia, forse finirebbero i
combattimenti. Questa è
la linea di azione che mi impegno
a perseguire.
![]() Dal Gazzettino del Veneto:"Un uomo solo si è prostrato tre volte davanti ai cancelli dell'aeroporto di Aviano per pregare per la pace" ha scritto il giorno successivo Donatella Schettini sul quotidiano locale "Il Gazzettino". "Claude Anshin Thomas, 50 anni, è giunto dagli Stati Uniti per venire ieri qui ad Aviano a portare il suo particolare messaggio senza chiasso né gesti plateali. Ha voluto inginocchiarsi nello spazio consentitogli davanti all'aeroporto. Ha meditato e pregato per circa un'ora, avvolto nel suo saio nero. Alla fine si è intrattenuto con le forze dell'ordine per chiedere di potersi avvicinare al cancello. (...) Sulla sua presenza qui ad Aviano da solo dice: 'Non sono solo, tutte le persone che sono morte in tutte le guerre della storia sono qui con me: non sono qui per protestare, ma per stare di fronte alla violenza e per dire che questo non è il modo di agire. Ma ripeto, non sono qui da solo, nessuno è mai da solo'. (...) Cosa direbbe ai piloti che vede alzarsi in volo. 'Li incontrerei per bere con loro un cappuccino e parlare per condividere la loro realtà con la mia. Parlerei con loro per portare la realtà delle loro azioni in modo più vivo nel momento presente: non per convincerli a fare o non fare quello che fanno, ma per cercare di togliere la polvere dai loro occhi per vedere la verità'" |