Nella città
di Erech
di Nicola Valentino, Dina Rosi, Carola Cohn
Lo scorso 18
giugno insieme alla Coop. Sensibili alle foglie e al Centro sociale Brancaleone
ci siamo dati appuntamento alla casa delle Culture in occasione dell'uscita
dell'ultimo libro di Renato Curcio e Nicola Valentino, Nella città
di Erech.
Oltre a Nicola che ha illustrato gli ultimi esiti della ricerca orientata a
cogliere i nessi tra le istituzioni ordinarie e i dispositivi mortificanti che
operano nelle istituzioni totali, abbiamo invitato Dina Rossi, operatrice sanitaria
in una casa di cura per anziani, e Carola Cohn, psicoterapeuta e sopravvissuta
ai campi di concentramento, a portare la propria personale testimonianza sul
tema: "esclusione sociale e malessere della normalità"
È stato un incontro caldo e intenso, ricco di sollecitazioni e contributi
da parte anche dei tanti presenti. Quella che segue è la trascrizione
dei primi tre interventi.
NICOLA VALENTINO
Ringrazio tutte
le persone presenti. Oggi mi sembra di vedere tutti coloro che hanno accompagnato
il lavoro di Sensibili alle foglie a Roma fin dall'inizio.
Penso che questo libro, "Nella città di Erech", vada contestualizzato
per permettervi di collocarlo nel quadro della nostra ricerca.
Verso la fine degli anni '80 ero insieme a Renato Curcio nel carcere di Rebibbia
e ci capitò per caso di leggere un documento del Ministero della Giustizia
in cui si diceva che le persone recluse, lungointernate, dopo dieci anni di
reclusione subiscono dei danni psicofisici irreversibili. Questa lettura ci
preoccupò molto: tutti noi stavamo infatti varcando la soglia del decennio
in carcere.
Questa sollecitazione c'indusse a fare un lavoro di osservazione su noi stessi,
nonché di raccolta di testimonianze ed altra documentazione, per capire
quali erano gli effetti sulle persone dei dispositivi mortificanti dell'istituzione
carceraria e di tutte le altre istituzioni totali. Iniziammo questo lavoro di
ricerca sui dispositivi mortificanti, sia per capire le origini del deterioramento,
sia, soprattutto, per esplorare le risorse vitali. Quali tipi di risposte consentono
alle persone recluse di sopravvivere alla mortificazione psicofisica. L'istituzione
totale costituisce un dispositivo mortificante per eccellenza. Molte persone
infatti non si avventurano nemmeno nell'esplorazione delle risorse vitali, delle
risposte di sopravvivenza, perché appena varcano la soglia dell'istituzione
totale si uccidono o si lasciano morire.
Ci siamo quindi avventurati in questa ricerca sull'esperienza umana della reclusione,
attraverso l'auto osservazione e la raccolta di un'ampia documentazione. In
sostanza abbiamo operato rispetto al contesto sociale ed istituzionale come
dei partecipanti-osservatori, rovesciando uno dei dispositivi tradizionali della
ricerca sociale che esorta il ricercatore ad agire come un osservatore-partecipante.
Chi fa ricerca sociale e si avvicina dall'esterno ad un contesto relazionale
viene sollecitato ad immergersi in quel contesto, ad operare, appunto, come
osservatore-partecipante. Noi eravamo già forzosamente attori dell'istituzione
totale. Rovesciamo allora questo dispositivo della ricerca sociale e diventiamo
dei partecipanti-osservatori. Scopriamo in seguito che questa modalità
di osservazione ha avuto dei precedenti importanti: Primo Levi, Bruno Bettelheim,
Victor Frankl, Yehiel De-Nur, nei campi di concentramento, ma anche molte altre
persone meno note nei manicomi e nelle carceri.
Molti reclusi, per tenersi in vita nelle istituzioni totali, maturano una dimensione
identitaria che potremmo definire: 'dissociazione di presenza'; mentre una parte
della persona opera in relazione al contesto mortificante, un'altra parte della
stessa osserva questa relazione, quella che altri istituiscono, e le diverse
risposte che vengono messe in atto in rapporto al contesto mortificante.
Il lavoro di documentazione e di raccolta avviato porta nel 1990 alla pubblicazione
del nostro primo libro, "Nel Bosco di Bistorco", che fonda la ricerca
sull'esperienza umana nelle istituzioni totali e sulle risposte vitali ai loro
dispositivi. Insieme al libro nasce anche la cooperativa Sensibili alle foglie,
una linea editoriale che prosegue nel lavoro di documentazione e l'Archivio
di scritture, scrizioni e arte ir-ritata, che raccoglie, nella forma di linguaggi
espressivi, manoscritti, disegni, dipinti, documenti provenienti dalle istituzioni
totali e da altre condizioni estreme di vita. A tutt'oggi l'Archivio custodisce
oltre 500 opere, per un totale di 100 autori.
Verso la fine degli anni novanta accadono due eventi significativi: uno riguarda
la nostra vita e l'altro una sollecitazione nel nostro lavoro. Renato Curcio
ottiene la liberazione condizionale e io mi stabilizzo in una situazione di
semilibertà: il nostro punto di osservazione si fa più ampio e
più interno alla città. Accade poi che cominciamo a portare il
nostro lavoro di ricerca attraverso dei seminari itineranti, avendo come interlocutori
operatori sociali delle istituzioni totali ma anche operatori didattici, socio-sanitari
e persone a vario titolo interessate al nostro lavoro. Attraverso questi seminari
riceviamo stimoli importanti per lo sviluppo della nostra ricerca.
Volendo schematizzare si può dire che la nostra ricerca si trasforma
in base ad una sollecitazione interna e ad una esterna.
La sollecitazione interna scaturisce dall'interrogativo che inquieta tutti coloro
che escono da una lunga esperienza reclusiva: quali effetti produce l'ombra
lunga dell'istituzione totale, che accompagna la persona deistituzionalizzata?
Anche un'esperienza breve d'internamento comporta delle torsioni psicofisiche
immodificabili, il documento del Ministero della Giustizia da noi letto indicava
un limite di 10 anni, altri ricercatori, tra cui una équipe di medici
penitenziari francesi, sposta il limite nell'ordine dei mesi. Nel libro che
presento viene dato grande spazio alla difficoltà a vivere l'esperienza
della deistituzionalizzazione. Difficoltà dovuta sia all'impatto con
il mondo esterno, alle ri-torsioni sociali cui la persona è soggetta,
ma anche difficoltà ad elaborare l'esperienza della reclusione.
La sollecitazione esterna proviene invece da un rispecchiamento. Quando durante
i lavori seminariali illustriamo i dispositivi delle istituzioni totali e le
risorse che le persone utilizzano per tenersi in vita, molti tra i partecipanti
si rispecchiano nelle esperienze proposte, sottolineano le forti analogie esistenti
fra i dispositivi esposti e quelli da loro esperiti a scuola, sul posto di lavoro,
in famiglia, in un ospedale
- "Guardate che le relazioni reclusive
che voi ci illustrate, noi le viviamo nelle istituzioni ordinarie che organizzano
la vita sociale, e sono proprio loro, insorgendo, a portare malessere nelle
relazioni umane."
Questo rispecchiamento ci ha indotti ad approntare una metodologia per esplorare
il malessere della normalità. Il malessere che tutte le persone vivono,
con i dovuti gradi di percezione e di coinvolgimento, stando in famiglia, a
scuola, nel mondo del lavoro, nelle istituzioni sanitarie e anche nelle istituzioni
ricreative o associative. Si può dire, esemplificando, che la metodologia
consiste nell'utilizzo di uno specchio analizzatore. Proponendo in contesti
istituzionali ordinari esperienze emblematiche dell'istituzione totale, si possono
osservare, insieme agli attori di quella specifica istituzione, analogie e differenze,
rispecchiamenti e scarti tra i dispositivi relazionali totalizzanti e i dispositivi
situazionali operanti nel contesto analizzato. Molto spesso questi dispositivi
si riproducono come degli automatismi, per inerzia, e il lavoro di specchio
consente ai ricercatori di osservare ciò che la routine quotidiana vela.
Si tratta di un lavoro di ricerca sistematica su come sono ad esempio organizzati
il tempo, lo spazio, la sessualità, il rispetto della persona
dentro le istituzioni ordinarie. Un'altra precisazione metodologica importante
riguarda il fatto che la ricerca non è condotta da chi, come noi, è
esterno al contesto analizzato; il nostro apporto consiste nel fornire agli
operatori interni gli strumenti per imparare ad agire come partecipanti-osservatori
nella loro situazione.
Quest'attività di ricerca è iniziata in un Istituto professionale
per l'industria e l'artigianato di Bagnoli (Napoli) dove s'è trattato
di vedere, insieme ad un gruppo di insegnanti, fino a che punto l'alta dispersione
scolastica non fosse dovuta alle dinamiche relazionali di quella scuola, vissuta
dagli studenti come un'esperienza reclusiva. Già a buon punto è
ancora un'altra ricerca in una casa di cura per anziani, nata nel corso di alcuni
seminari rivolti a quadri della CGIL funzione pubblica del Lazio, ma di questa
ricerca vi parlerà meglio Dina Rossi.
Ciò che stiamo verificando con questo lavoro di 'messa allo specchio'
è che molte istituzioni che pure non si definiscono totali ma che anzi
si propongono con altri nomi accattivanti, operano come contesti relazionali
che delle istituzioni totali riproducono cultura e dispositivi.
Nel libro riprendiamo, tra le altre, un'intervista a Nicola Fanizzi e ad Alberto
Paolini, (vedi Buone Notizie, anno II, n.1), due persone che vivono a Roma,
che hanno fatto molti anni di internamento manicomiale, sulla loro esperienza
in una casa famiglia. Pur usando un nome che richiama un luogo accogliente,
spesso e volentieri queste strutture psichiatriche residenziali riproducono,
come emerge dall'intervista, i dispositivi mortificanti e infantilizzanti dell'istituzione
manicomiale vera e propria.
Ricerche analoghe sono in fase di sviluppo o di programmazione in altre istituzioni:
in alcune strutture intermedie riabilitative della ASL Napoli 2; in un ex-albergo
dei poveri, che oggi è diventato un istituzione di accoglienza dei nuovi
poveri di Bergamo, in un centro sociale occupato di Torino.
Questa è un po' la storia, il retroterra da cui nasce Nella città
di Erech. Non solo un'attenzione alle risorse vitali che fioriscono nelle istituzioni
totali, ma anche un'esplorazione attenta delle risorse vitali quotidiane, quelle
che tutti adottiamo per rispondere alla noia dei contesti lavorativi, scolastici,
alle sofferenze relazionali familiari, al malessere della normalità.
Ma perché questo titolo?
Erech è la città-stato della Mesopotamia di cui era re Gilgamesh
nel quarto millennio avanti Cristo. Una delle storie più antiche del
mondo narra del combattimento mitologico tra il re Gilgamesh, per metà
uomo e per metà dio, ed il selvatico Enkidu, degradato ad animale perché
non era mai entrato nella città. Questo racconto mitologico, ambientato
nella città di Erech evidenzia un dispositivo di inclusione ed esclusione
originario della nostra civiltà, tuttora operante. Al di qua del muro,
gli inclusi, al di là, gli esclusi che vengono deumanizzati dagli inclusi
e collocati su un piano d'inferiorità di specie. Ma il dispositivo escludente
implica anche gli inclusi. Nel processo d'adattamento, di conformizzazione,
ai codici omologanti delle istituzioni ordinarie essi costruiscono delle identità
di adattamento. Nel corso di questo processo vengono sacrificate, messe da parte,
escluse, altre componenti identitarie della persona, si riduce quella vastità
identitaria che respira in ogni persona. Questa dinamica adattativa escludente
potrebbe essere all'origine del malessere che colpisce gli inclusi.
Il libro si chiude con sette storie di presenza, perché pensiamo che
una delle risorse più importanti per affrontare sia le istituzioni totali
che il malessere della normalità sia proprio la risorsa della presenza
e della consapevolezza, quel non chiudere gli occhi sui contesti del disagio,
della sofferenza e del malessere, bensì aprirli, istituendo un'identità
di presenza e consapevolezza. Per farlo ci sono tante strade e noi nell'ultima
parte del libro ne indichiamo alcune: la via dei sogni, la via della meditazione,
la via della creatività, la via degli scarabocchi. Chi di voi avrà
voglia, potrà aggiungere altre vie o scoprire che altri hanno praticato
la via che voi state percorrendo.
Lavoro come terapista
in un reparto di riabilitazione motoria di Villa delle Querce, una grande struttura
sanitaria privata, che conta 600 posti letto. L'indirizzo prevalente della casa
di cura è stato sempre quello della lungo degenza e lo è ancora
oggi anche se in una forma residuale. Attualmente sono ricoverati appunto 600
persone: 136 nella residenza, circa 200 nei reparti di riabilitazione, 12 in
terapia intesiva, il resto è ancora in lunga degenza ma si sta trasformando
in lunga degenza medica, cioè a volte cambiano le etichette ma nella
sostanza non cambia molto. Circa due anni fa la struttura regionale della CGIL
ha commissionato alla cooperativa Sensibili alle Foglie una ricerca che aveva
il fine di esplorare l'esistenza di nessi tra l'istituzione totale e l'istituzione
ospedaliera ed è proprio dentro questo progetto che ho conosciuto Nicola
e Renato ed ho avuto il privilegio di partecipare al gruppo di ricerca che si
è formato con la metodologia e con le tesi riportate nel libro che Nicola
ci ha appena presentato.
In una prima fase della ricerca insieme ad altri operatori del mio posto di
lavoro e di altri due ospedali pubblici della zona, sono stata messa nella condizione
di acquisire un linguaggio e una metodologia comuni. La metodologia della ricerca
aveva come obiettivo l'implicazione dell'osservatore nella realtà che
si sta osservando, non si ricercava quindi un'analisi distaccata dei processi
lavorativi, ma un andare all'interno dei meccanismi prendendo come riferimento
quindi il lavoro: chi lavora, su chi lavora, che potremmo sintetizzare con "chi
cura chi?". Gli incontri preliminari fatti con Nicola e Renato avevano
l'obiettivo di utilizzare l'istituzione totale come specchio, come ha già
spiegato Nicola. All'inizio le storie, le torsioni da loro raccontate sembravano
distanti. Uno specchio rassicurante per la sua lontananza, come viene definito
nel libro e come confermano le prime annotazioni di Salvatore (un altro componente
del gruppo di ricerca) sul suo diario che è un altro strumento importantissimo
della ricerca. Salvatore dice: "Nel primo incontro ci viene spiegato come
si deve fare una ricerca sulle affinità che possono verificarsi in istituzioni
diverse, come l'istituzione totale e l'istituzione ordinaria. La prima sensazione
che provo è di curiosità, anche se non comprendo bene cosa possa
esserci di simile in istituzioni così diverse. Negli incontri successivi
la cosa diventa interessante ed il nostro coinvolgimento diventa evidente".
Quindi il primo cambiamento necessario, testimoniato anche dai nostri diari,
è stato quello di comprendere che non esiste una posizione neutra nell'osservazione
dei fenomeni che ci circondano, non ci si deve spogliare del ruolo rivestito
ma si deve prenderne coscienza. A volte mi sono vista mentre facevo le stesse
cose di prima, ma con dentro una consapevolezza diversa. "Ecco, è
come se l'osservatore nascosto si sia risvegliato e sia emerso ed ora è
lì che mi accompagna. Non vuol dire fare cose migliori o peggiori di
prima, ora riesco semplicemente ad osservarmi mentre mi muovo nell'ambiente
di lavoro". Questo annotavo all'inizio sul mio diario. Ero diventata, quindi,
una partecipante- osservatore. Per definirlo con le parole della ricerca, "l'attore
della situazione deve effettuare un passaggio dalla partecipazione alla situazione,
all'osservazione della situazione, ed in sintesi solo chi vive una determinata
esperienza può per un attimo estraniarsene, registrarla e poi comunicarla".
Contemporaneamente bisognava fare un altro processo, occorreva rendere estranea
la situazione familiare, non accettare niente come scontato e gli avvenimenti
quotidiani dovevano essere considerati non naturali, in poche parole la normalità
doveva perdere la sua ovvietà. E subito sono emersi dalle abitudini routinarie
dei riti messi in atto quotidianamente, dinamiche relazionali mortificanti.
Sono venuti alla luce dispositivi frequenti in quasi tutte le istituzioni ospedaliere,
come la compressione dello spazio e il divieto di personalizzare lo spazio,
il comprimere il ricoverato nel tempo e nei tempi dettati dall'istituzione.
Mi riferisco per esempio alla rigidità degli orari, la rigidità
degli orari della visita medica, l'orario ristretto della visita dei parenti,
l'orario dei pasti. Altra dinamica comune è rappresentata dal modo di
rapportarsi degli operatori con la persona malata, a volte parlando tra di loro
di calcio o di altro senza entrare in contatto direttamente con chi in quel
momento viene solo manipolato. Paola, un'infermiera di un ospedale, ha raccontato:
"Gli operatori non comunicano con i malati, lo fanno solo nel primo periodo
lavorativo, e poi probabilmente ci sono delle regole non scritte che li cambiano".
Chi non conosce il famoso distacco professionale? La corazza che è utile
perché protegge l'operatore in situazioni ritenute pericolose ma che
crea una barriera, sicuramente avvertita anche dal malato.
Accanto a questi abbiamo rivelato alcuni dispositivi relazionali tipici della
realtà dei lungo-internati, la burocratizzazione eccessiva della concessione
dei permessi di uscita, l'infantilizzazione e la deresponsabilizzazione del
ricoverato. Abbiamo, inoltre, ripescato nelle memorie collettive degli operatori
e dei ricoverati le fughe isolate per raggiungere la casa o un familiare che
poi finivano con la riconsegna alle istituzioni ospedaliere, ed anche i suicidi
come risposta all'abbandono dei familiari e alla mancanza di prospettive. È
stata una cosa singolare, come una sorta di memoria collettiva, perché
rispetto ai suicidi il testimone è stato un ricoverato perché
all'interno di questa struttura opera una forma di dimenticanza e anche questo
è un altro meccanismo: si dimenticano le cose che non ci piace ricordare.
Un'altra scoperta sono state le risorse. Queste sono venute alla luce quando
abbiamo costruito un evento analizzatore, cioè un fatto non ordinario
che va a perturbare la situazione e permette di analizzare le dinamiche interne
all'istituzione. L'evento è consistito nell'allestimento di una mostra
di quadri, disegni e scritti di persone rinchiuse in istituzioni totali, all'interno
della quale abbiamo ricavato uno spazio dedicato ai lavori prodotti dai nostri
ricoverati. Qui presento sinteticamente le storie di tre persone che ritengo
le più emblematiche per analizzare l'istituzione, la presenza di dispositivi
relazionali e nello stesso tempo le risorse di assenza e di presenza messe da
loro in atto per riuscire a sopravvivere in quella situazione.
Alessandro, 56 anni, da 20 ricoverato in varie strutture e in diversi reparti
della clinica ci ha messo a disposizione i suoi quadri del lago - peccato che
non abbiamo pensati a portarli. Era tutto quello che vedeva dalla finestra dalla
sua stanza, il suo unico modo di uscire perché a poco a poco, dopo tutti
quegli anni, fuori si sentiva sempre più perso. Inoltre scrive piccoli
biglietti su block notes di varia grandezza, su fogli dovunque reperiti. Scrive
i suoi ricordi, i suoi rapporti all'inizio conflittuali ed ora totalmente assenti
con i suoi fratelli, la descrizione dei suoi lavori, dei suoi ricoveri in altre
strutture, la sua famiglia, la sua dipendenza dal vino. Ma diventa anche fedele
scrittore ed annotatore del vitto, delle disfunzioni del reparto, dei suoi rapporti
con le persone nella stanza e molto spesso conflittuali, con gli operatori del
reparto e più in generale della clinica.
Carlo, 60 anni, ricoverato da noi dal 1990, ci ha regalato i suoi disegni che
gli piace accompagnare dal racconto della storia o del ricordo al quale si è
ispirato: storie nelle quali si rifugia per sfuggire ad un presente che non
gli piace e che vive isolandosi da tutti. Disegni incompleti, manca sempre qualcosa
perché dice: "Non mi piace finire le cose, non mi piace mettere
la parola fine".
Infine la persona che abbiamo definita la metafora della nostra ricerca.
Carmelina, 90 anni, che invece scrive di notte, tutte le notti con carta e matita
anche se è immobilizzata a letto da una grave forma di artrosi che le
procura dolore soprattutto alle mani. Ma scrive, scrive su tutto ciò
che riesce a reperire: tovaglioli della ditta fornitrice del cibo, fogli lasciati
dai volontari, pacchi di fogli dei turni di servizio degli operatori, carta
consegnata dalla suora la quale le procura anche mozziconi di matita. Con mano
malferma e al buio scrive le sue lettere, tutte perfettamente datate, anzi,
se per qualche giorno non le scrive, ricomincia da quella che aveva lasciato.
Scrive al direttore perché la faccia uscire perché lei è
lì per errore, ma ha una grande preoccupazione: c'è un assassino
che la perseguita tutte le notti e non la fa dormire. Il dolore, l'assassino
della notte appunto, e il suo scrivere è il tentativo di esorcizzare
quel dolore. In 8 mesi Carmelina scrive 150 lettere che siamo riusciti a salvare
dal secchio della spazzatura, purtroppo altre sono andate perdute.
Ci siamo accorti che questa modificazione del nostro agire ha già prodotto
dei piccoli cambiamenti, a modificato alcuni atteggiamenti ma non rispetto a
grandi percentuali di lavoratori o nei riguardi dell'istituzione. "Cosa
c'entra la CGIL con una mostra di quadri?" si domandava la maggior parte
dei lavoratori di fronte alla locandina di presentazione della mostra dell'aprile
2000 sulle risorse vitali mentre, al contrario, alcuni colleghi della residenza
sono stati molto attivi nel reperire le risorse per allestire lo spazio interno
della mostra. In quei giorni è nato un interesse diverso nei confronti
del materiale prodotto dai residenti, era come se venissero valorizzate finalmente
le risorse già presenti, lo stesso atteggiamento per fortuna continua
ad essere presente anche oggi. Inoltre alcuni operatori raccolgono i foglietti
di Carmelina e ce li consegnano, prima erano puntualmente cestinati.
La ricerca qui ha prodotto un ulteriore cambiamento. Il nostro intervento prima
era focalizzato su una parte della realtà, quella degli operatori, ora
comincia a prendere come riferimento anche il nostro esserci dentro quella realtà
e le ripercussioni che il nostro agire ha sulle persone che devono essere curate,
legittimando l'attenzione agli aspetti sociali di chi l'istituzione la subisce.
Dal giugno 1999, all'interno della casa di cura, sono venute alla luce le risorse
creative dei ricoverati, abbiamo raccolto una discreta quantità di biglietti,
scritti, quadri, disegni, storie, sono diversi mesi ormai che stiamo immaginando
un luogo in cui questo materiale sia raccolto, riconosciuto e dove siano presi
in considerazione i bisogni e le istanze dei ricoverati. Per questi motivi si
sta pensando alla creazione di uno sportello o di un centro di ascolto all'interno
della casa di cura. Dobbiamo avviare al più presto la fase progettuale,
individuare gli obiettivi, la sua reale fattibilità, cioè il luogo,
le persone e i riconoscimenti anche in relazione al fatto che lo sportello può
acquisire un ulteriore connotazione; riconoscere una veste istituente al lavoro
di ricerca fatto, cioè la possibilità di dare valore e autorità
alle richieste fatte in nome del paziente, soprattutto nei confronti dell'istituzione
sanitaria. Attraverso queste considerazioni voglio affermare che i fatti intorno
a noi sono sempre gli stessi, non sono cambiati, è cambiato solo il nostro
sguardo sulle cose, cioè una maggiore percezione della realtà
che ci circonda, ed ecco quindi che sono diventati importanti i biglietti di
Carmelina e quelli di Alessandro, i disegni di Carlo, i nostri sogni, appendere
i quadri della mostra e le annotazioni sul diario di ricerca perché l'attenzione
a questi fatti vuol dire immergersi nelle dinamiche inserite nel posto di lavoro.
È evidente che il lavoro di implicazione e di presenza non è terminato,
le azioni istituenti sia sul piano sociale, cioè la presenza in situazioni,
e su quello individuale sono state innescate dalla ricerca.
La mia esperienza, che qui spero di aver in parte testimoniato, e che la consapevolezza
deve diventare una risorsa da cui non si può più prescindere.
CAROLA COHN
Nicola, vorrei
esprimere la mia ammirazione per il vostro libro e per quello che avete tentato
di fare per voi stessi, ma anche per tutti noi, toccati dalla sorte e dagli
effetti d'essere stati a lungo esclusi dalla vita 'normale', cercando di sopravvivere
'fuori le mura'.
Mentre voi eravate prigionieri vi siete trovati in una condizione simile alla
nostra di non persone in quanto l'istituzione totalizzante poteva fare di voi
quello che voleva. Nonostante determinate divergenze dei nostri vissuti, questo
rappresenta una situazione parallela tra di noi.
Sono rimasta molto colpita quando Nicola ci ha raccontato come lui ed altri
si fossero spaventati nel leggere quel documento del Ministero di Grazia e Giustizia
che descriveva i danni che i detenuti subiscono dopo 10 anni di reclusione,
ma anche molto prima. A quel punto avete preso la vostra situazione di non persone
in mano e siete diventati persone che potevano agire, anche se in galera. Non
è che potevate fare molto esternamente, ma potevate fare tantissimo prendendo
coscienza di voi stessi, riaffermando la vostra umanità nel diventare
"partecipanti-osservatori". Facendo così avete preso il vostro
destino in mano e lo avete usato per voi e per gli altri e questo vi ha salvato.
Io posso parlare soltanto del mio vissuto in condizione totalizzante che però
non ha avuto inizio con la detenzione negli campi di sterminio, ma anni prima,
dal 1933 in poi, quando è stato detto che gli ebrei dovevano essere eliminati
per la purificazione della Germania. Il terreno e noi stessi siamo stati preparati
ben bene: è iniziato cosi il processo che doveva ridurci a non persone.
Mi ha colpito l'immagine che voi usate della Città di Erech, divisa tra
gli inclusi e gli esclusi, fuori le mura. Già a quell'epoca, è
stato decretato che quelli fuori dalle mura non erano persone, ma una sotto-specie
di semi-bestie. I nazisti hanno fatto lo stesso: ci hanno ridotti a non persone
da sfruttare prima d'essere eliminati. Gli ebrei venivano rinchiusi nei ghetti
dove sopravvivevano fra le mura nelle quali erano gli inclusi, ma prigionieri
ed esclusi dal resto mondo. Per anni ci hanno detto - e lo hanno detto a tutti
- che eravamo sotto-persone per cui le atrocità diventavano giustificabili
perché commesse contro non persone, destinate alla "soluzione finale".
Per due anni sono rimasta a Theresienstadt, il cosiddetto ghetto per i privilegiati.
Il privilegio consisteva nel poter 'vivere' lì prima d'essere trasportati
ad Auschwitz alle camere a gas. Il Ghetto per i privilegiati serviva alla propaganda
nazista per negare la già decisa soluzione finale. Theresienstadt fu
anche noto come il "Ghetto dei Bambini": quindicimila bambini sono
stati portati lì, meno di cento sono sopravvissuti al trasporto ad Auschwitz
ed io sono una di loro.
Ma oggi non voglio parlare di questo. Invece vorrei parlare di ciò che
ho tentato di fare che forse mi ha aiutato a salvarmi. Essendo cresciuta con
la musica da camera, per difendermi da situazioni intollerabili, mi sono 'suonata'
in silenzio, dentro la mia testa, tutta la musica che ricordavo per poter resistere
alla realtà esterna. Cercavo di incoraggiarmi: finché cose belle
esistevano ancora, anche se soltanto nella mia testa, qualcosa di buono doveva
pur esistere da qualche parte e ciò mi dava qualche speranza.
Questa mia risorsa però non ha più funzionato ad Auschwitz. Lì
io non volevo né ricordare né pensare o sentire, volevo soltanto
resistere, ritirata in me stessa per quanto possibile. Poi vidi i 'musulmani',
i cosiddetti morti viventi, che avevano cessato d'esistere dentro se stessi
non più in grado di trovare alcuna risorsa interna per resistere. Avevo
il terrore di diventare 'musulmana' anch'io. Capivo che il non voler vedere,
né accorgermi di nulla per salvarmi era invece proprio la strada per
ridursi a "musulmano".
Dovevo trovare un motivo per resistere: invece di chiudere gli occhi dovevo
osservare, e registrare tutto per poter testimoniare. Sono diventata anch'io
una sorte di partecipante-osservatore invece di chiudermi passivamente dentro
me stessa, colludendo verso la soluzione finale.
Debbo dire che sono cresciuta a Berlino da tedesca, non come ebrea, in una famiglia
assimilata e non credente, per cui non sapevo bene per quale motivo fossi perseguitata.
Ho scoperto d'essere ebrea non attraverso le tradizioni o quello che dicevano
i miei genitori, ma per caso: durante un gioco quando avevo sei anni. Giocavo
spesso a biglie con una bambina; un giorno arrivò il padre della bambina
e mi chiede: "Sei tu la figlia di Cohn?" "Si, perché?"
rispondo, stizzita. "Ridai tutte le biglie che hai vinto a mia figlia".
"Perché? Io ho giocato onestamente". "Ridagliele. Una
che si chiama Cohn non può avere nulla a che fare con mia figlia".
Ho imparato cosi che il mio cognome mi rendeva 'indesiderabile'; ebrea, come
avevo già visto scritto in alcuni negozi. Ma non capivo cosa avevamo
fatto per essere esclusi. Osservavo e vedevo quello che stava succedendo dappertutto.
Ma a casa mia non si poteva né parlare né chiedere di queste cose,
si preferiva negare; la politica era tabù. Per cui potevo solo osservare
e cercare di capire l'incomprensibile. Dunque ho una lunga esperienza come osservatrice
e sono diventata brava a farlo. Forse questo mi salvò poi ad Auschwitz,
perché diventò un motivo per sopravvivere, per poter testimoniare.
Nonostante questi presupposti, per più di 55 anni non l'ho fatto e questo
può sembrare molto strano. Solo adesso sono conscia del fatto che il
mio silenzio era dovuto a vari fattori: anch'io ero condizionata dal 'grande
silenzio' del dopoguerra. Io non potevo parlare, ma, d'altro lato, nessuno chiedeva
o voleva saperne nulla. Era troppo doloroso ricordare, anzi facevo di tutto
per non pensare. Mi sentivo diversa dagli altri che non potevano capire ciò
di cui non potevo parlare; volevo cominciare a vivere e per riuscirci dovevo
cercare di dimenticare.
Per caso sentii della Fondazione Spielberg e delle loro interviste per un archivio
della memoria della Shoah. Nel 1999 fu la prima volta che parlai delle mie esperienze
davanti alle videocamere. Le interviste erano strutturate, perciò dovevo
solo rispondere a delle precise domande. Spesso non potevo ricordare, ma, nonostante
ciò, cominciai a parlare, sostenuta dalle domande. Consideravo la mia
intervistatrice come la mia ostetrica che mi aiutava a far venire fuori ciò
che non nasceva spontaneamente.
Però, sapevo che i miei buchi nella memoria erano rimasti tali e quali,
parlavo ma non ricordavo molto. Chi mi ha veramente aiutato a recuperare la
memoria è stato lo scrittore e giornalista Roberto Olla quando chiese
d'intervistarmi per un suo libro, Ancora ciliegie, Zio SS, uscito recentemente.
Roberto aveva già pubblicato Le non persone - gli Italiani nella Shoah.
Lui era particolarmente interessato a Theresienstadt, tutt'ora nascosto dietro
l'operazione 'notte e nebbia' della propaganda nazista che doveva negare la
realtà dello sterminio. Pur avendo una profonda conoscenza della Shoah,
Roberto voleva davvero sapere tutto. Quando non potevo ricordare bene, mi aiutava
a ricostruire gli eventi con ciò che lui sapeva storicamente. Lavorando
insieme, mi ha aiutato a recuperare la memoria - Roberto non faceva domande
secondo uno schema precostituito: voleva capire il mio vissuto e a questo scopo
si è immedesimato con me, quasi entrando nella mia testa.
Vorrei fare qui un riferimento a Milan Kundera che, nel suo ultimo bellissimo
libro L'Ignoranza, scrive che la memoria muore se nessuno parla e nessuno vuole
sapere.
Se qualcuno vuole veramente sapere, allora la memoria può sopravvivere,
altrimenti si atrofizza totalmente che è quello che è successo
a tanti di noi. Alcuni non riescono a scordare e vivono tutt'ora come nei campi
di sterminio. Altri, come me, reprimono i ricordi. All'epoca, io ero una bambina
e non potevo gestire gli avvenimenti. Consciamente non volevo ricordare né
sentire perché non potevo gestire i traumi subiti. Questo fa parte del
terribile dopo di cui nessuno parla perché tutti vogliono credere nel
lieto fine: la liberazione e tutti a casa contenti. Però non esistevano
più né casa, né famiglia, né averi di alcun genere.
Si dice anche che abbiamo avuto dei risarcimenti: sì, 5 marchi per ogni
giorno d'internamento, ma pagati non nel '45 quando servivano, ma nel '53 !
Nessuno vuole mai pensare al dopo che invece è tremendo. Come è
successo a voi, ci si accorge di portare con sé tutta la deformazione
dell'istituzione totalizzante: dall'amnesia, all'avere problemi con la propria
identità e l'insediamento nella 'normalità'. A questo proposito,
se non lo avete ancora fatto, leggete Shiviti, pubblicato in italiano da Sensibili
alle foglie. L'autore non usa il suo nome, ma scrive come Ka-tzetnik, (colui
che viene dai campi di concentramento). Gli venne chiesto di testimoniare nel
processo contro Eichmann, ma quando fu chiamato a testimoniare con il suo vero
nome, crollò e svenne. Aveva operato una scissione fra sè e gli
avvenimenti, cercava così di distanziarsi. Anche se per fortuna non sono
rimasta per 3 anni ad Auschwitz come lui, anch'io ho vissuto a lungo con la
scissione per difendermi da ciò che non potevo gestire. Tanti anni fa
ho scritto due storie per scrivere dei campi ciò che potevo, ma sempre
in terza persona. Dovevo dissociarmi come Ka-tzetnik, ma l'ho capito solo quando
ho letto Shiviti.
Ma non si può vivere con tutto scisso e senza memoria. La nostra memoria
contiene tutta la nostra vita pensante, se mancano tanti pezzi, persi nei buchi
della memoria, si vive una vita stracciata, a pezzi, e uno non si sente più
una persona integra, ma anora una specie di non persona.
Diventando partecipante-osservatore si riprende la propria vita attivamente
nelle mani, e tante cose possono essere affrontate. Ma ci vuole anche l'interlocutore
che vuole sapere e capire per sconfiggere il grande silenzio. Siamo stati zitti
per oltre 50 anni anche perché nessuno voleva sapere; il grande nemico
era ormai diventato il comunismo invece del nazi-fascismo. Col grande silenzio,
infine, si collude con chi cerca di offuscare le atrocità storiche. Nessuno
voleva guardare o capire la storia, né gli effetti delle istituzioni
totalizzanti come avete fatto voi. Ecco perché mi piace il vostro libro
che mi ha anche aiutato a capire tante cose molto simili nei nostri rispettivi
vissuti. Lo trovo bellissimo e interessante e vi ringrazio.
Roma 18 giugno 2001
Sensibili alle foglie Chiunque
fosse interessato ad avere maggiori informazioni sui seminari oppure all'acquisto
del libro "Nella città di Erech" o degli altri
titoli pubblicati può rivolgersi alla sede della cooperativa: |