Nella città di Erech

di Nicola Valentino, Dina Rosi, Carola Cohn


Lo scorso 18 giugno insieme alla Coop. Sensibili alle foglie e al Centro sociale Brancaleone ci siamo dati appuntamento alla casa delle Culture in occasione dell'uscita dell'ultimo libro di Renato Curcio e Nicola Valentino, Nella città di Erech.
Oltre a Nicola che ha illustrato gli ultimi esiti della ricerca orientata a cogliere i nessi tra le istituzioni ordinarie e i dispositivi mortificanti che operano nelle istituzioni totali, abbiamo invitato Dina Rossi, operatrice sanitaria in una casa di cura per anziani, e Carola Cohn, psicoterapeuta e sopravvissuta ai campi di concentramento, a portare la propria personale testimonianza sul tema: "esclusione sociale e malessere della normalità"
È stato un incontro caldo e intenso, ricco di sollecitazioni e contributi da parte anche dei tanti presenti. Quella che segue è la trascrizione dei primi tre interventi.


NICOLA VALENTINO

Ringrazio tutte le persone presenti. Oggi mi sembra di vedere tutti coloro che hanno accompagnato il lavoro di Sensibili alle foglie a Roma fin dall'inizio.
Penso che questo libro, "Nella città di Erech", vada contestualizzato per permettervi di collocarlo nel quadro della nostra ricerca.
Verso la fine degli anni '80 ero insieme a Renato Curcio nel carcere di Rebibbia e ci capitò per caso di leggere un documento del Ministero della Giustizia in cui si diceva che le persone recluse, lungointernate, dopo dieci anni di reclusione subiscono dei danni psicofisici irreversibili. Questa lettura ci preoccupò molto: tutti noi stavamo infatti varcando la soglia del decennio in carcere.
Questa sollecitazione c'indusse a fare un lavoro di osservazione su noi stessi, nonché di raccolta di testimonianze ed altra documentazione, per capire quali erano gli effetti sulle persone dei dispositivi mortificanti dell'istituzione carceraria e di tutte le altre istituzioni totali. Iniziammo questo lavoro di ricerca sui dispositivi mortificanti, sia per capire le origini del deterioramento, sia, soprattutto, per esplorare le risorse vitali. Quali tipi di risposte consentono alle persone recluse di sopravvivere alla mortificazione psicofisica. L'istituzione totale costituisce un dispositivo mortificante per eccellenza. Molte persone infatti non si avventurano nemmeno nell'esplorazione delle risorse vitali, delle risposte di sopravvivenza, perché appena varcano la soglia dell'istituzione totale si uccidono o si lasciano morire.
Ci siamo quindi avventurati in questa ricerca sull'esperienza umana della reclusione, attraverso l'auto osservazione e la raccolta di un'ampia documentazione. In sostanza abbiamo operato rispetto al contesto sociale ed istituzionale come dei partecipanti-osservatori, rovesciando uno dei dispositivi tradizionali della ricerca sociale che esorta il ricercatore ad agire come un osservatore-partecipante. Chi fa ricerca sociale e si avvicina dall'esterno ad un contesto relazionale viene sollecitato ad immergersi in quel contesto, ad operare, appunto, come osservatore-partecipante. Noi eravamo già forzosamente attori dell'istituzione totale. Rovesciamo allora questo dispositivo della ricerca sociale e diventiamo dei partecipanti-osservatori. Scopriamo in seguito che questa modalità di osservazione ha avuto dei precedenti importanti: Primo Levi, Bruno Bettelheim, Victor Frankl, Yehiel De-Nur, nei campi di concentramento, ma anche molte altre persone meno note nei manicomi e nelle carceri.
Molti reclusi, per tenersi in vita nelle istituzioni totali, maturano una dimensione identitaria che potremmo definire: 'dissociazione di presenza'; mentre una parte della persona opera in relazione al contesto mortificante, un'altra parte della stessa osserva questa relazione, quella che altri istituiscono, e le diverse risposte che vengono messe in atto in rapporto al contesto mortificante.
Il lavoro di documentazione e di raccolta avviato porta nel 1990 alla pubblicazione del nostro primo libro, "Nel Bosco di Bistorco", che fonda la ricerca sull'esperienza umana nelle istituzioni totali e sulle risposte vitali ai loro dispositivi. Insieme al libro nasce anche la cooperativa Sensibili alle foglie, una linea editoriale che prosegue nel lavoro di documentazione e l'Archivio di scritture, scrizioni e arte ir-ritata, che raccoglie, nella forma di linguaggi espressivi, manoscritti, disegni, dipinti, documenti provenienti dalle istituzioni totali e da altre condizioni estreme di vita. A tutt'oggi l'Archivio custodisce oltre 500 opere, per un totale di 100 autori.
Verso la fine degli anni novanta accadono due eventi significativi: uno riguarda la nostra vita e l'altro una sollecitazione nel nostro lavoro. Renato Curcio ottiene la liberazione condizionale e io mi stabilizzo in una situazione di semilibertà: il nostro punto di osservazione si fa più ampio e più interno alla città. Accade poi che cominciamo a portare il nostro lavoro di ricerca attraverso dei seminari itineranti, avendo come interlocutori operatori sociali delle istituzioni totali ma anche operatori didattici, socio-sanitari e persone a vario titolo interessate al nostro lavoro. Attraverso questi seminari riceviamo stimoli importanti per lo sviluppo della nostra ricerca.
Volendo schematizzare si può dire che la nostra ricerca si trasforma in base ad una sollecitazione interna e ad una esterna.
La sollecitazione interna scaturisce dall'interrogativo che inquieta tutti coloro che escono da una lunga esperienza reclusiva: quali effetti produce l'ombra lunga dell'istituzione totale, che accompagna la persona deistituzionalizzata?
Anche un'esperienza breve d'internamento comporta delle torsioni psicofisiche immodificabili, il documento del Ministero della Giustizia da noi letto indicava un limite di 10 anni, altri ricercatori, tra cui una équipe di medici penitenziari francesi, sposta il limite nell'ordine dei mesi. Nel libro che presento viene dato grande spazio alla difficoltà a vivere l'esperienza della deistituzionalizzazione. Difficoltà dovuta sia all'impatto con il mondo esterno, alle ri-torsioni sociali cui la persona è soggetta, ma anche difficoltà ad elaborare l'esperienza della reclusione.
La sollecitazione esterna proviene invece da un rispecchiamento. Quando durante i lavori seminariali illustriamo i dispositivi delle istituzioni totali e le risorse che le persone utilizzano per tenersi in vita, molti tra i partecipanti si rispecchiano nelle esperienze proposte, sottolineano le forti analogie esistenti fra i dispositivi esposti e quelli da loro esperiti a scuola, sul posto di lavoro, in famiglia, in un ospedale … - "Guardate che le relazioni reclusive che voi ci illustrate, noi le viviamo nelle istituzioni ordinarie che organizzano la vita sociale, e sono proprio loro, insorgendo, a portare malessere nelle relazioni umane."
Questo rispecchiamento ci ha indotti ad approntare una metodologia per esplorare il malessere della normalità. Il malessere che tutte le persone vivono, con i dovuti gradi di percezione e di coinvolgimento, stando in famiglia, a scuola, nel mondo del lavoro, nelle istituzioni sanitarie e anche nelle istituzioni ricreative o associative. Si può dire, esemplificando, che la metodologia consiste nell'utilizzo di uno specchio analizzatore. Proponendo in contesti istituzionali ordinari esperienze emblematiche dell'istituzione totale, si possono osservare, insieme agli attori di quella specifica istituzione, analogie e differenze, rispecchiamenti e scarti tra i dispositivi relazionali totalizzanti e i dispositivi situazionali operanti nel contesto analizzato. Molto spesso questi dispositivi si riproducono come degli automatismi, per inerzia, e il lavoro di specchio consente ai ricercatori di osservare ciò che la routine quotidiana vela. Si tratta di un lavoro di ricerca sistematica su come sono ad esempio organizzati il tempo, lo spazio, la sessualità, il rispetto della persona … dentro le istituzioni ordinarie. Un'altra precisazione metodologica importante riguarda il fatto che la ricerca non è condotta da chi, come noi, è esterno al contesto analizzato; il nostro apporto consiste nel fornire agli operatori interni gli strumenti per imparare ad agire come partecipanti-osservatori nella loro situazione.
Quest'attività di ricerca è iniziata in un Istituto professionale per l'industria e l'artigianato di Bagnoli (Napoli) dove s'è trattato di vedere, insieme ad un gruppo di insegnanti, fino a che punto l'alta dispersione scolastica non fosse dovuta alle dinamiche relazionali di quella scuola, vissuta dagli studenti come un'esperienza reclusiva. Già a buon punto è ancora un'altra ricerca in una casa di cura per anziani, nata nel corso di alcuni seminari rivolti a quadri della CGIL funzione pubblica del Lazio, ma di questa ricerca vi parlerà meglio Dina Rossi.
Ciò che stiamo verificando con questo lavoro di 'messa allo specchio' è che molte istituzioni che pure non si definiscono totali ma che anzi si propongono con altri nomi accattivanti, operano come contesti relazionali che delle istituzioni totali riproducono cultura e dispositivi.
Nel libro riprendiamo, tra le altre, un'intervista a Nicola Fanizzi e ad Alberto Paolini, (vedi Buone Notizie, anno II, n.1), due persone che vivono a Roma, che hanno fatto molti anni di internamento manicomiale, sulla loro esperienza in una casa famiglia. Pur usando un nome che richiama un luogo accogliente, spesso e volentieri queste strutture psichiatriche residenziali riproducono, come emerge dall'intervista, i dispositivi mortificanti e infantilizzanti dell'istituzione manicomiale vera e propria.
Ricerche analoghe sono in fase di sviluppo o di programmazione in altre istituzioni: in alcune strutture intermedie riabilitative della ASL Napoli 2; in un ex-albergo dei poveri, che oggi è diventato un istituzione di accoglienza dei nuovi poveri di Bergamo, in un centro sociale occupato di Torino.
Questa è un po' la storia, il retroterra da cui nasce Nella città di Erech. Non solo un'attenzione alle risorse vitali che fioriscono nelle istituzioni totali, ma anche un'esplorazione attenta delle risorse vitali quotidiane, quelle che tutti adottiamo per rispondere alla noia dei contesti lavorativi, scolastici, alle sofferenze relazionali familiari, al malessere della normalità.
Ma perché questo titolo?
Erech è la città-stato della Mesopotamia di cui era re Gilgamesh nel quarto millennio avanti Cristo. Una delle storie più antiche del mondo narra del combattimento mitologico tra il re Gilgamesh, per metà uomo e per metà dio, ed il selvatico Enkidu, degradato ad animale perché non era mai entrato nella città. Questo racconto mitologico, ambientato nella città di Erech evidenzia un dispositivo di inclusione ed esclusione originario della nostra civiltà, tuttora operante. Al di qua del muro, gli inclusi, al di là, gli esclusi che vengono deumanizzati dagli inclusi e collocati su un piano d'inferiorità di specie. Ma il dispositivo escludente implica anche gli inclusi. Nel processo d'adattamento, di conformizzazione, ai codici omologanti delle istituzioni ordinarie essi costruiscono delle identità di adattamento. Nel corso di questo processo vengono sacrificate, messe da parte, escluse, altre componenti identitarie della persona, si riduce quella vastità identitaria che respira in ogni persona. Questa dinamica adattativa escludente potrebbe essere all'origine del malessere che colpisce gli inclusi.
Il libro si chiude con sette storie di presenza, perché pensiamo che una delle risorse più importanti per affrontare sia le istituzioni totali che il malessere della normalità sia proprio la risorsa della presenza e della consapevolezza, quel non chiudere gli occhi sui contesti del disagio, della sofferenza e del malessere, bensì aprirli, istituendo un'identità di presenza e consapevolezza. Per farlo ci sono tante strade e noi nell'ultima parte del libro ne indichiamo alcune: la via dei sogni, la via della meditazione, la via della creatività, la via degli scarabocchi. Chi di voi avrà voglia, potrà aggiungere altre vie o scoprire che altri hanno praticato la via che voi state percorrendo.


DINA ROSSI

Lavoro come terapista in un reparto di riabilitazione motoria di Villa delle Querce, una grande struttura sanitaria privata, che conta 600 posti letto. L'indirizzo prevalente della casa di cura è stato sempre quello della lungo degenza e lo è ancora oggi anche se in una forma residuale. Attualmente sono ricoverati appunto 600 persone: 136 nella residenza, circa 200 nei reparti di riabilitazione, 12 in terapia intesiva, il resto è ancora in lunga degenza ma si sta trasformando in lunga degenza medica, cioè a volte cambiano le etichette ma nella sostanza non cambia molto. Circa due anni fa la struttura regionale della CGIL ha commissionato alla cooperativa Sensibili alle Foglie una ricerca che aveva il fine di esplorare l'esistenza di nessi tra l'istituzione totale e l'istituzione ospedaliera ed è proprio dentro questo progetto che ho conosciuto Nicola e Renato ed ho avuto il privilegio di partecipare al gruppo di ricerca che si è formato con la metodologia e con le tesi riportate nel libro che Nicola ci ha appena presentato.
In una prima fase della ricerca insieme ad altri operatori del mio posto di lavoro e di altri due ospedali pubblici della zona, sono stata messa nella condizione di acquisire un linguaggio e una metodologia comuni. La metodologia della ricerca aveva come obiettivo l'implicazione dell'osservatore nella realtà che si sta osservando, non si ricercava quindi un'analisi distaccata dei processi lavorativi, ma un andare all'interno dei meccanismi prendendo come riferimento quindi il lavoro: chi lavora, su chi lavora, che potremmo sintetizzare con "chi cura chi?". Gli incontri preliminari fatti con Nicola e Renato avevano l'obiettivo di utilizzare l'istituzione totale come specchio, come ha già spiegato Nicola. All'inizio le storie, le torsioni da loro raccontate sembravano distanti. Uno specchio rassicurante per la sua lontananza, come viene definito nel libro e come confermano le prime annotazioni di Salvatore (un altro componente del gruppo di ricerca) sul suo diario che è un altro strumento importantissimo della ricerca. Salvatore dice: "Nel primo incontro ci viene spiegato come si deve fare una ricerca sulle affinità che possono verificarsi in istituzioni diverse, come l'istituzione totale e l'istituzione ordinaria. La prima sensazione che provo è di curiosità, anche se non comprendo bene cosa possa esserci di simile in istituzioni così diverse. Negli incontri successivi la cosa diventa interessante ed il nostro coinvolgimento diventa evidente".
Quindi il primo cambiamento necessario, testimoniato anche dai nostri diari, è stato quello di comprendere che non esiste una posizione neutra nell'osservazione dei fenomeni che ci circondano, non ci si deve spogliare del ruolo rivestito ma si deve prenderne coscienza. A volte mi sono vista mentre facevo le stesse cose di prima, ma con dentro una consapevolezza diversa. "Ecco, è come se l'osservatore nascosto si sia risvegliato e sia emerso ed ora è lì che mi accompagna. Non vuol dire fare cose migliori o peggiori di prima, ora riesco semplicemente ad osservarmi mentre mi muovo nell'ambiente di lavoro". Questo annotavo all'inizio sul mio diario. Ero diventata, quindi, una partecipante- osservatore. Per definirlo con le parole della ricerca, "l'attore della situazione deve effettuare un passaggio dalla partecipazione alla situazione, all'osservazione della situazione, ed in sintesi solo chi vive una determinata esperienza può per un attimo estraniarsene, registrarla e poi comunicarla".
Contemporaneamente bisognava fare un altro processo, occorreva rendere estranea la situazione familiare, non accettare niente come scontato e gli avvenimenti quotidiani dovevano essere considerati non naturali, in poche parole la normalità doveva perdere la sua ovvietà. E subito sono emersi dalle abitudini routinarie dei riti messi in atto quotidianamente, dinamiche relazionali mortificanti. Sono venuti alla luce dispositivi frequenti in quasi tutte le istituzioni ospedaliere, come la compressione dello spazio e il divieto di personalizzare lo spazio, il comprimere il ricoverato nel tempo e nei tempi dettati dall'istituzione. Mi riferisco per esempio alla rigidità degli orari, la rigidità degli orari della visita medica, l'orario ristretto della visita dei parenti, l'orario dei pasti. Altra dinamica comune è rappresentata dal modo di rapportarsi degli operatori con la persona malata, a volte parlando tra di loro di calcio o di altro senza entrare in contatto direttamente con chi in quel momento viene solo manipolato. Paola, un'infermiera di un ospedale, ha raccontato: "Gli operatori non comunicano con i malati, lo fanno solo nel primo periodo lavorativo, e poi probabilmente ci sono delle regole non scritte che li cambiano". Chi non conosce il famoso distacco professionale? La corazza che è utile perché protegge l'operatore in situazioni ritenute pericolose ma che crea una barriera, sicuramente avvertita anche dal malato.
Accanto a questi abbiamo rivelato alcuni dispositivi relazionali tipici della realtà dei lungo-internati, la burocratizzazione eccessiva della concessione dei permessi di uscita, l'infantilizzazione e la deresponsabilizzazione del ricoverato. Abbiamo, inoltre, ripescato nelle memorie collettive degli operatori e dei ricoverati le fughe isolate per raggiungere la casa o un familiare che poi finivano con la riconsegna alle istituzioni ospedaliere, ed anche i suicidi come risposta all'abbandono dei familiari e alla mancanza di prospettive. È stata una cosa singolare, come una sorta di memoria collettiva, perché rispetto ai suicidi il testimone è stato un ricoverato perché all'interno di questa struttura opera una forma di dimenticanza e anche questo è un altro meccanismo: si dimenticano le cose che non ci piace ricordare.
Un'altra scoperta sono state le risorse. Queste sono venute alla luce quando abbiamo costruito un evento analizzatore, cioè un fatto non ordinario che va a perturbare la situazione e permette di analizzare le dinamiche interne all'istituzione. L'evento è consistito nell'allestimento di una mostra di quadri, disegni e scritti di persone rinchiuse in istituzioni totali, all'interno della quale abbiamo ricavato uno spazio dedicato ai lavori prodotti dai nostri ricoverati. Qui presento sinteticamente le storie di tre persone che ritengo le più emblematiche per analizzare l'istituzione, la presenza di dispositivi relazionali e nello stesso tempo le risorse di assenza e di presenza messe da loro in atto per riuscire a sopravvivere in quella situazione.
Alessandro, 56 anni, da 20 ricoverato in varie strutture e in diversi reparti della clinica ci ha messo a disposizione i suoi quadri del lago - peccato che non abbiamo pensati a portarli. Era tutto quello che vedeva dalla finestra dalla sua stanza, il suo unico modo di uscire perché a poco a poco, dopo tutti quegli anni, fuori si sentiva sempre più perso. Inoltre scrive piccoli biglietti su block notes di varia grandezza, su fogli dovunque reperiti. Scrive i suoi ricordi, i suoi rapporti all'inizio conflittuali ed ora totalmente assenti con i suoi fratelli, la descrizione dei suoi lavori, dei suoi ricoveri in altre strutture, la sua famiglia, la sua dipendenza dal vino. Ma diventa anche fedele scrittore ed annotatore del vitto, delle disfunzioni del reparto, dei suoi rapporti con le persone nella stanza e molto spesso conflittuali, con gli operatori del reparto e più in generale della clinica.
Carlo, 60 anni, ricoverato da noi dal 1990, ci ha regalato i suoi disegni che gli piace accompagnare dal racconto della storia o del ricordo al quale si è ispirato: storie nelle quali si rifugia per sfuggire ad un presente che non gli piace e che vive isolandosi da tutti. Disegni incompleti, manca sempre qualcosa perché dice: "Non mi piace finire le cose, non mi piace mettere la parola fine".
Infine la persona che abbiamo definita la metafora della nostra ricerca.
Carmelina, 90 anni, che invece scrive di notte, tutte le notti con carta e matita anche se è immobilizzata a letto da una grave forma di artrosi che le procura dolore soprattutto alle mani. Ma scrive, scrive su tutto ciò che riesce a reperire: tovaglioli della ditta fornitrice del cibo, fogli lasciati dai volontari, pacchi di fogli dei turni di servizio degli operatori, carta consegnata dalla suora la quale le procura anche mozziconi di matita. Con mano malferma e al buio scrive le sue lettere, tutte perfettamente datate, anzi, se per qualche giorno non le scrive, ricomincia da quella che aveva lasciato. Scrive al direttore perché la faccia uscire perché lei è lì per errore, ma ha una grande preoccupazione: c'è un assassino che la perseguita tutte le notti e non la fa dormire. Il dolore, l'assassino della notte appunto, e il suo scrivere è il tentativo di esorcizzare quel dolore. In 8 mesi Carmelina scrive 150 lettere che siamo riusciti a salvare dal secchio della spazzatura, purtroppo altre sono andate perdute.
Ci siamo accorti che questa modificazione del nostro agire ha già prodotto dei piccoli cambiamenti, a modificato alcuni atteggiamenti ma non rispetto a grandi percentuali di lavoratori o nei riguardi dell'istituzione. "Cosa c'entra la CGIL con una mostra di quadri?" si domandava la maggior parte dei lavoratori di fronte alla locandina di presentazione della mostra dell'aprile 2000 sulle risorse vitali mentre, al contrario, alcuni colleghi della residenza sono stati molto attivi nel reperire le risorse per allestire lo spazio interno della mostra. In quei giorni è nato un interesse diverso nei confronti del materiale prodotto dai residenti, era come se venissero valorizzate finalmente le risorse già presenti, lo stesso atteggiamento per fortuna continua ad essere presente anche oggi. Inoltre alcuni operatori raccolgono i foglietti di Carmelina e ce li consegnano, prima erano puntualmente cestinati.
La ricerca qui ha prodotto un ulteriore cambiamento. Il nostro intervento prima era focalizzato su una parte della realtà, quella degli operatori, ora comincia a prendere come riferimento anche il nostro esserci dentro quella realtà e le ripercussioni che il nostro agire ha sulle persone che devono essere curate, legittimando l'attenzione agli aspetti sociali di chi l'istituzione la subisce.
Dal giugno 1999, all'interno della casa di cura, sono venute alla luce le risorse creative dei ricoverati, abbiamo raccolto una discreta quantità di biglietti, scritti, quadri, disegni, storie, sono diversi mesi ormai che stiamo immaginando un luogo in cui questo materiale sia raccolto, riconosciuto e dove siano presi in considerazione i bisogni e le istanze dei ricoverati. Per questi motivi si sta pensando alla creazione di uno sportello o di un centro di ascolto all'interno della casa di cura. Dobbiamo avviare al più presto la fase progettuale, individuare gli obiettivi, la sua reale fattibilità, cioè il luogo, le persone e i riconoscimenti anche in relazione al fatto che lo sportello può acquisire un ulteriore connotazione; riconoscere una veste istituente al lavoro di ricerca fatto, cioè la possibilità di dare valore e autorità alle richieste fatte in nome del paziente, soprattutto nei confronti dell'istituzione sanitaria. Attraverso queste considerazioni voglio affermare che i fatti intorno a noi sono sempre gli stessi, non sono cambiati, è cambiato solo il nostro sguardo sulle cose, cioè una maggiore percezione della realtà che ci circonda, ed ecco quindi che sono diventati importanti i biglietti di Carmelina e quelli di Alessandro, i disegni di Carlo, i nostri sogni, appendere i quadri della mostra e le annotazioni sul diario di ricerca perché l'attenzione a questi fatti vuol dire immergersi nelle dinamiche inserite nel posto di lavoro. È evidente che il lavoro di implicazione e di presenza non è terminato, le azioni istituenti sia sul piano sociale, cioè la presenza in situazioni, e su quello individuale sono state innescate dalla ricerca.
La mia esperienza, che qui spero di aver in parte testimoniato, e che la consapevolezza deve diventare una risorsa da cui non si può più prescindere.


CAROLA COHN

Nicola, vorrei esprimere la mia ammirazione per il vostro libro e per quello che avete tentato di fare per voi stessi, ma anche per tutti noi, toccati dalla sorte e dagli effetti d'essere stati a lungo esclusi dalla vita 'normale', cercando di sopravvivere 'fuori le mura'.
Mentre voi eravate prigionieri vi siete trovati in una condizione simile alla nostra di non persone in quanto l'istituzione totalizzante poteva fare di voi quello che voleva. Nonostante determinate divergenze dei nostri vissuti, questo rappresenta una situazione parallela tra di noi.
Sono rimasta molto colpita quando Nicola ci ha raccontato come lui ed altri si fossero spaventati nel leggere quel documento del Ministero di Grazia e Giustizia che descriveva i danni che i detenuti subiscono dopo 10 anni di reclusione, ma anche molto prima. A quel punto avete preso la vostra situazione di non persone in mano e siete diventati persone che potevano agire, anche se in galera. Non è che potevate fare molto esternamente, ma potevate fare tantissimo prendendo coscienza di voi stessi, riaffermando la vostra umanità nel diventare "partecipanti-osservatori". Facendo così avete preso il vostro destino in mano e lo avete usato per voi e per gli altri e questo vi ha salvato.
Io posso parlare soltanto del mio vissuto in condizione totalizzante che però non ha avuto inizio con la detenzione negli campi di sterminio, ma anni prima, dal 1933 in poi, quando è stato detto che gli ebrei dovevano essere eliminati per la purificazione della Germania. Il terreno e noi stessi siamo stati preparati ben bene: è iniziato cosi il processo che doveva ridurci a non persone. Mi ha colpito l'immagine che voi usate della Città di Erech, divisa tra gli inclusi e gli esclusi, fuori le mura. Già a quell'epoca, è stato decretato che quelli fuori dalle mura non erano persone, ma una sotto-specie di semi-bestie. I nazisti hanno fatto lo stesso: ci hanno ridotti a non persone da sfruttare prima d'essere eliminati. Gli ebrei venivano rinchiusi nei ghetti dove sopravvivevano fra le mura nelle quali erano gli inclusi, ma prigionieri ed esclusi dal resto mondo. Per anni ci hanno detto - e lo hanno detto a tutti - che eravamo sotto-persone per cui le atrocità diventavano giustificabili perché commesse contro non persone, destinate alla "soluzione finale".
Per due anni sono rimasta a Theresienstadt, il cosiddetto ghetto per i privilegiati. Il privilegio consisteva nel poter 'vivere' lì prima d'essere trasportati ad Auschwitz alle camere a gas. Il Ghetto per i privilegiati serviva alla propaganda nazista per negare la già decisa soluzione finale. Theresienstadt fu anche noto come il "Ghetto dei Bambini": quindicimila bambini sono stati portati lì, meno di cento sono sopravvissuti al trasporto ad Auschwitz ed io sono una di loro.
Ma oggi non voglio parlare di questo. Invece vorrei parlare di ciò che ho tentato di fare che forse mi ha aiutato a salvarmi. Essendo cresciuta con la musica da camera, per difendermi da situazioni intollerabili, mi sono 'suonata' in silenzio, dentro la mia testa, tutta la musica che ricordavo per poter resistere alla realtà esterna. Cercavo di incoraggiarmi: finché cose belle esistevano ancora, anche se soltanto nella mia testa, qualcosa di buono doveva pur esistere da qualche parte e ciò mi dava qualche speranza.
Questa mia risorsa però non ha più funzionato ad Auschwitz. Lì io non volevo né ricordare né pensare o sentire, volevo soltanto resistere, ritirata in me stessa per quanto possibile. Poi vidi i 'musulmani', i cosiddetti morti viventi, che avevano cessato d'esistere dentro se stessi non più in grado di trovare alcuna risorsa interna per resistere. Avevo il terrore di diventare 'musulmana' anch'io. Capivo che il non voler vedere, né accorgermi di nulla per salvarmi era invece proprio la strada per ridursi a "musulmano".
Dovevo trovare un motivo per resistere: invece di chiudere gli occhi dovevo osservare, e registrare tutto per poter testimoniare. Sono diventata anch'io una sorte di partecipante-osservatore invece di chiudermi passivamente dentro me stessa, colludendo verso la soluzione finale.
Debbo dire che sono cresciuta a Berlino da tedesca, non come ebrea, in una famiglia assimilata e non credente, per cui non sapevo bene per quale motivo fossi perseguitata. Ho scoperto d'essere ebrea non attraverso le tradizioni o quello che dicevano i miei genitori, ma per caso: durante un gioco quando avevo sei anni. Giocavo spesso a biglie con una bambina; un giorno arrivò il padre della bambina e mi chiede: "Sei tu la figlia di Cohn?" "Si, perché?" rispondo, stizzita. "Ridai tutte le biglie che hai vinto a mia figlia". "Perché? Io ho giocato onestamente". "Ridagliele. Una che si chiama Cohn non può avere nulla a che fare con mia figlia". Ho imparato cosi che il mio cognome mi rendeva 'indesiderabile'; ebrea, come avevo già visto scritto in alcuni negozi. Ma non capivo cosa avevamo fatto per essere esclusi. Osservavo e vedevo quello che stava succedendo dappertutto. Ma a casa mia non si poteva né parlare né chiedere di queste cose, si preferiva negare; la politica era tabù. Per cui potevo solo osservare e cercare di capire l'incomprensibile. Dunque ho una lunga esperienza come osservatrice e sono diventata brava a farlo. Forse questo mi salvò poi ad Auschwitz, perché diventò un motivo per sopravvivere, per poter testimoniare.
Nonostante questi presupposti, per più di 55 anni non l'ho fatto e questo può sembrare molto strano. Solo adesso sono conscia del fatto che il mio silenzio era dovuto a vari fattori: anch'io ero condizionata dal 'grande silenzio' del dopoguerra. Io non potevo parlare, ma, d'altro lato, nessuno chiedeva o voleva saperne nulla. Era troppo doloroso ricordare, anzi facevo di tutto per non pensare. Mi sentivo diversa dagli altri che non potevano capire ciò di cui non potevo parlare; volevo cominciare a vivere e per riuscirci dovevo cercare di dimenticare.
Per caso sentii della Fondazione Spielberg e delle loro interviste per un archivio della memoria della Shoah. Nel 1999 fu la prima volta che parlai delle mie esperienze davanti alle videocamere. Le interviste erano strutturate, perciò dovevo solo rispondere a delle precise domande. Spesso non potevo ricordare, ma, nonostante ciò, cominciai a parlare, sostenuta dalle domande. Consideravo la mia intervistatrice come la mia ostetrica che mi aiutava a far venire fuori ciò che non nasceva spontaneamente.
Però, sapevo che i miei buchi nella memoria erano rimasti tali e quali, parlavo ma non ricordavo molto. Chi mi ha veramente aiutato a recuperare la memoria è stato lo scrittore e giornalista Roberto Olla quando chiese d'intervistarmi per un suo libro, Ancora ciliegie, Zio SS, uscito recentemente. Roberto aveva già pubblicato Le non persone - gli Italiani nella Shoah. Lui era particolarmente interessato a Theresienstadt, tutt'ora nascosto dietro l'operazione 'notte e nebbia' della propaganda nazista che doveva negare la realtà dello sterminio. Pur avendo una profonda conoscenza della Shoah, Roberto voleva davvero sapere tutto. Quando non potevo ricordare bene, mi aiutava a ricostruire gli eventi con ciò che lui sapeva storicamente. Lavorando insieme, mi ha aiutato a recuperare la memoria - Roberto non faceva domande secondo uno schema precostituito: voleva capire il mio vissuto e a questo scopo si è immedesimato con me, quasi entrando nella mia testa.
Vorrei fare qui un riferimento a Milan Kundera che, nel suo ultimo bellissimo libro L'Ignoranza, scrive che la memoria muore se nessuno parla e nessuno vuole sapere.
Se qualcuno vuole veramente sapere, allora la memoria può sopravvivere, altrimenti si atrofizza totalmente che è quello che è successo a tanti di noi. Alcuni non riescono a scordare e vivono tutt'ora come nei campi di sterminio. Altri, come me, reprimono i ricordi. All'epoca, io ero una bambina e non potevo gestire gli avvenimenti. Consciamente non volevo ricordare né sentire perché non potevo gestire i traumi subiti. Questo fa parte del terribile dopo di cui nessuno parla perché tutti vogliono credere nel lieto fine: la liberazione e tutti a casa contenti. Però non esistevano più né casa, né famiglia, né averi di alcun genere. Si dice anche che abbiamo avuto dei risarcimenti: sì, 5 marchi per ogni giorno d'internamento, ma pagati non nel '45 quando servivano, ma nel '53 !
Nessuno vuole mai pensare al dopo che invece è tremendo. Come è successo a voi, ci si accorge di portare con sé tutta la deformazione dell'istituzione totalizzante: dall'amnesia, all'avere problemi con la propria identità e l'insediamento nella 'normalità'. A questo proposito, se non lo avete ancora fatto, leggete Shiviti, pubblicato in italiano da Sensibili alle foglie. L'autore non usa il suo nome, ma scrive come Ka-tzetnik, (colui che viene dai campi di concentramento). Gli venne chiesto di testimoniare nel processo contro Eichmann, ma quando fu chiamato a testimoniare con il suo vero nome, crollò e svenne. Aveva operato una scissione fra sè e gli avvenimenti, cercava così di distanziarsi. Anche se per fortuna non sono rimasta per 3 anni ad Auschwitz come lui, anch'io ho vissuto a lungo con la scissione per difendermi da ciò che non potevo gestire. Tanti anni fa ho scritto due storie per scrivere dei campi ciò che potevo, ma sempre in terza persona. Dovevo dissociarmi come Ka-tzetnik, ma l'ho capito solo quando ho letto Shiviti.
Ma non si può vivere con tutto scisso e senza memoria. La nostra memoria contiene tutta la nostra vita pensante, se mancano tanti pezzi, persi nei buchi della memoria, si vive una vita stracciata, a pezzi, e uno non si sente più una persona integra, ma anora una specie di non persona.
Diventando partecipante-osservatore si riprende la propria vita attivamente nelle mani, e tante cose possono essere affrontate. Ma ci vuole anche l'interlocutore che vuole sapere e capire per sconfiggere il grande silenzio. Siamo stati zitti per oltre 50 anni anche perché nessuno voleva sapere; il grande nemico era ormai diventato il comunismo invece del nazi-fascismo. Col grande silenzio, infine, si collude con chi cerca di offuscare le atrocità storiche. Nessuno voleva guardare o capire la storia, né gli effetti delle istituzioni totalizzanti come avete fatto voi. Ecco perché mi piace il vostro libro che mi ha anche aiutato a capire tante cose molto simili nei nostri rispettivi vissuti. Lo trovo bellissimo e interessante e vi ringrazio.

Roma 18 giugno 2001

Sensibili alle foglie

Chiunque fosse interessato ad avere maggiori informazioni sui seminari oppure all'acquisto del libro "Nella città di Erech" o degli altri titoli pubblicati può rivolgersi alla sede della cooperativa:
Borgata Valdiberti, 3
12063 Dogliani (CN)
E-mail: sensibiliallefoglie@tiscalinet.it