Ars moriendi: spunti di riflessione
di Adriana Monfredini Verdi Vighetti


"Io morirò, tu morirai, loro moriranno".

Chi più chi meno, siamo tutti condizionati inconsciamente dai modelli di comportamento dell'epoca in cui viviamo. Nella nostra, sappiamo ormai che al tabù del sesso è stato sostituito il tabù della morte: con la sua rimozione è andata così perduta l'ars moriendi. Solo da poco tempo (più o meno dagli anni '70) si sta riscoprendo il valore dell'arte di prepararsi al morire e dell'arte di accompagnare il morire dell'altro. Arte che è difficile improvvisare nel momento del bisogno ma che va coltivata nel tempo. Già D.H. Lawrence suggerì:

"Oh, costruisci la tua nave di morte, costruiscila in tempo, costruiscila amorevolmente
e ponila fra le mani della tua anima
."

Fortunatamente ora, sul tema della morte, si stanno moltiplicando gruppi di studio, scritti, testimonianze di esperienze di assistenza alle persone morenti. Tutto questo sarà utile solo se contribuirà a risvegliare o a rafforzare in ciascuno di noi, senza morbosità, uno spazio di consapevolezza sulla futura realtà della nostra morte personale, di quella dei nostri familiari, dei nostri amici, che perlopiù ci coglie impreparati sia che sopraggiunga improvvisa o preceduta da sofferenza, degradazione, lunga agonia. Parola, questa, che quasi non si osa pronunciare più, perché esprime la fatica di una vera ultima lotta fra la vita e la morte. Anche se a livello mentale cosciente abbiamo accettato la morte, a volte la forza vitale del corpo si comporta come una realtà impersonale, autonoma da noi, che resiste alla morte rendendo così più difficile il trapasso. Questo ci suscita molta paura: come primo passo sarebbe bene accogliere in noi questa paura senza giudicarci immaturi, inadeguati. Anche Gesù Cristo nell'Orto degli ulivi ha provato angoscia, solitudine, fino a sudare sangue.
Se riusciamo a coltivare in noi questo spazio di consapevolezza riguardo il nostro morire, ci porremo nella scia non solo di grandi Saggi ma anche di grandi terapeuti che hanno invitato a soffermarci su questa realtà.
Freud, già nel 1915 affermava: "Non sarebbe meglio restituire alla morte, nella realtà e nei nostri pensieri, il posto che le spetta?" e Jung nel 1934 scriveva: "L'uomo giovane viene preparato per venti anni e più al pieno sviluppo della sua esistenza individuale; e perché non dovrebbe per vent'anni e più preparare la sua fine?".
La psichiatra Kubler-Ross, già nelle prime pagine del suo scritto fondamentale La morte e il morire, rivolge il medesimo invito: "Benché ogni uomo cerchi di posporre a suo modo tali problemi e le loro soluzioni fino a quando non sia costretto ad affrontarli, egli potrà cambiare le cose solo se comincerà a prendere coscienza della sua morte personale. Questo non si può fare a livello di massa: deve essere fatto da ogni essere umano individualmente. Ciascuno di noi vorrebbe evitare questo passo, eppure presto o tardi ciascuno di noi deve affrontarlo. Se tutti noi cominciassimo a contemplare la possibilità della nostra morte personale e ad ascoltare i nostri desideri-paure in proposito potremmo effettuare molte cose, la più importante delle quali è il benessere dei nostri malati, delle nostre famiglie" e naturalmente di noi stessi.
Per prima cosa possiamo domandarci, senza colpevolizzarci, come mai nella nostra cultura sia diventato tanto difficile comunicare spontaneamente, sinceramente con i nostri morenti. Perché non sappiamo parlare, esprimerci emotivamente quando la morte ci sfiora?
Vorrei sottolineare che ho detto parlare non accettare. Infatti, quello che distingue il mondo contemporaneo occidentale da altre culture o altre epoche, non è tanto una minore accettazione della morte, quanto il non saperla affrontare assieme ai morenti. Molti di noi sono portati ad idealizzare il passato e altre culture. In realtà perlopiù la morte non è mai stata accettata serenamente ma sempre subita con dolore. Non è sempre vero che nel mondo antico e nel mondo cosiddetto primitivo la morte sia stata più accettata di quanto l'accettiamo noi. La morte è stata, e rimane, un evento limite che turba profondamente il vivente.
Un canto di una tribù del Basso Nilo dice:

"Il giorno in cui Dio creò tutte le cose
Egli creò il sole: il sole sorge, tramonta e ritorna.
Egli creò la luna: la luna sorge, tramonta e ritorna.
Egli creò le stelle: le stelle sorgono, tramontano
e ritornano.
Egli creò l'uomo, ahimè appare, viene sulla terra
e non torna più."

Un canto funebre di una popolazione del Congo dice:

"Oh grande Nzambi, la creazione è buona,
ma ci procuri un grande dolore con la morte;
avresti dovuto far sì che non fossimo
soggetti alla morte.
Oh Nzambi, siamo immersi in una grande
tristezza."

Se lo sgomento davanti alla morte caratterizza ogni cultura, bisogna riconoscere che in passato c'era con essa maggiore familiarità che permetteva forse una migliore possibilità di prepararsi ed elaborare il distacco. A questa familiarità sarebbe bene tornare.
Lo storico Ariès tenta di dare una risposta al perché siamo giunti a questo modo di essere. Nel suo ponderoso studio sui costumi relativi alla morte in occidente dall'Alto Medioevo ad oggi, descrive il morire degli antichi in chiave notevolmente idealizzata e individua le ragioni del cambiamento progressivo, fino ai comportamenti attuali, in vari fattori: l'affievolirsi della Fede, l'affermarsi della mentalità borghese individualista, capitalistica ed edonistica; il rafforzarsi dei legami affettivi dovuti al procreare un numero minore di figli (con il conseguente emergere del valore dell'unicità e irripetibilità del singolo individuo). A tutti questi elementi individuati da Ariès si può aggiungere che le grandi conquiste delle scienza e della tecnica in campo medico inducono l'uomo a non accettare più i propri limiti. E la morte è il limite per eccellenza.
Ma, a ben riflettere, solo la nostra morte personale e la morte dei nostri prossimi è diventata fonte di imbarazzo, pudore, sconforto. Infatti la morte in generale è tutt'altro che un tabù a livello collettivo: siamo bombardati quotidianamente da notizie e da truculente immagini di morte. Ad esempio, nella nostra società si lasciano vedere ai bambini cartoni animati e films molto crudi ma non li si conduce al capezzale del nonno morente; li si allontana "pietosamente" da casa se la mamma è ammalata e muore prematuramente di cancro; non si ricorda loro un fratellino morto o la cuginetta malata di leucemia. Non serve ricordare ai nostri figli i morti lontani in Africa o altrove per fame o guerra: questi morti rimangono una realtà astratta, lontana, non familiare. Queste realtà lontane non costringono, non stimolano a trovare in noi stessi risorse personali per riuscire a rapportarsi con calore ed affetto a qualcuno che accanto a noi se ne sta andando. La consapevolezza astratta non evoca in noi stessi e nei nostri figli risorse di natura affettiva, empatica che ci rendano possibile offrire noi stessi, che ci rendano capaci di reggere lo sguardo smarrito di un malato terminale, tenendogli la mano, comunicandogli: "Ti sento, sono qui con te, vai tranquillo".
L'ars moriendi (come l'amore, il sesso, la compassione, ecc.) si comincia ad apprendere impercettibilmente in casa, nel mondo degli affetti: nascono i fratellini ed i cuginetti, muoiono i nonni, gli zii. Così va il mondo e noi con la nostra presenza e partecipazione possiamo renderlo meno drammatico.
Non è bene però svalutare sistematicamente la nostra società: è giusto riconoscere quanto di positivo c'è nel nostro mondo per poter con determinazione continuare a migliorare ogni situazione di sofferenza. È giusto ricordare che la nostra società ha comunque reso il morire più protetto quasi per tutti. In altre epoche e in altre culture, la morte non avveniva sempre in casa, circondati dai figli, dai vicini, come descrive Ariès. Spesso avveniva, a livello di massa, in condizioni igieniche inimmaginabili, nella promiscuità, nell'abbandono totale dei lazzaretti, nelle strade, nei tuguri sovraffollati (tutto questo avviene ancora oggi in India, nelle favelas latino-americane, in Africa). Le carestie e le epidemie ripetute, la povertà diffusa imbarbarivano e imbarbariscono le relazioni umane e quindi anche il morire. Ma noi siamo forse caduti nel polo opposto. Ci sembra pietoso proteggere i morenti dalla consapevolezza della morte, ci sembra indelicato esprimere nel volto, nello sguardo la solennità che dovrebbe accompagnare l'evento del morire. Instauriamo invece rapporti falsamente incoraggianti, rassicuranti. Non è infrequente sentir dire ad un malato terminale, per esempio, "ti trovo meglio oggi". Così il malato, attraverso la comunicazione extraverbale, percepisce il nostro disagio, la nostra angoscia e si rinchiude nella sua. E così rimane solo, muore solo. Senza poter chiedere, per esempio, di essere abbracciato tutta la notte, perché la notte fa particolarmente paura.
In ultima analisi, quella che ci è venuta a mancare è appunto la preparazione a morire o ad aiutare a morire. E aiutare a morire, secondo la testimonianza di chi si è dedicato e ha accompagnato i morenti, rende spesso possibile l'elaborazione e la risoluzione in extremis di conflitti interiori o interfamiliari irrisolti.
In prossimità della morte i processi psichici sono ancora possibili, anzi, a volte accelerati, forse dall'urgenza di cui evidentemente siamo consapevoli a livello profondo. Queste esperienze trasformative sono descritte da chi è sopravvissuto ad esperienze di premorte o da chi muore lucidamente, comunicando fino alla fine.
Che i processi psichici continuino a ritmo accelerato e possono essere risolutivi di conflitti durante l'agonia, lo troviamo già espresso, senza parole, nell'iconografia medioevale, diffusa nelle cattedrali e nelle chiesette e cappelle di campagna: vi è dipinto il morente nel suo letto e attorno la lotta degli angeli e dei demoni che si contendono la sua anima, descrivendo i meriti e gli errori della persona. Accanto, santi e parenti in preghiera. Questo, evidentemente, corrisponde a quanto è descritto in chiave psicologica da chi ha avuto esperienze di premorte: sembra che in quei momenti scorra velocemente nella mente tutta la propria vita e ci si renda conto di quanto si sia concluso e quanto si lasci in sospeso. Quando queste persone ritornano alla vita cosciente, spesso raccontano di sentirsi trasformati: danno più valore a ciò che vale nella vita e sentono il desiderio di riparare gli errori passati (S. Grof, L'incontro con la morte. Siad Edizioni, Milano,1978). L'ars moriendi medioevale invitava il morente a non disperare per i propri errori, pur gravi che fossero: raccomandava di compiere un ultimo determinante abbandono e gesto di fiducia nei confronti della misericordia divina, più grande delle nostre colpe. Tradotto nel linguaggio della psiche, si può dire che i demoni e gli angeli rappresentino istanze interne, persecutorie o compassionevoli, che si scontrano fino alla fine. Fino alla fine, quindi, il morente rimane attore, nel senso di attivo: è l'Io del morente che deve compiere la scelta risolutiva fra l'abbandono alla dimensione persecutorio-punitiva o alla dimensione compassionevole. È quello che ha saputo compiere in extremis il buon ladrone sulla croce. Un gesto di abbandono fiducioso può riscattare una vita e questo, ci viene detto nell'iconografia medioevale, è possibile anche negli spasimi dell'agonia e sembra essere favorito se si è accompagnati, anche in silenzio, da presenze benevoli (persone che accudiscono, persone che pregano, persone che perdonano).
Ricordo che a 21 anni seguivo un corso di infermiera volontaria della Croce Rossa a Milano. Un giorno venne ricoverata, morente, una vagabonda dall'età indefinibile. Le condizioni ospedaliere di allora erano peggiori delle attuali. La povera, sporca, scheletrica, scostante, sola, fu messa su una brandina. Mi fu dato il compito di lavarla ed assisterla nella terapia palliativa prescrittale. L'ho fatto cercando di parlare un poco con quella donna senza nome, senza storia per farla sentire minimamente riconosciuta nella sua identità. È riuscita a farfugliare qualcosa, disse che era alcolizzata da anni, che aveva abbandonato due figlie piccole, mai più cercate e riviste. Pianse sulla sua vita buttata. Capiva che stava morendo e mi domandò perché mai Dio l'avesse messa nelle mie mani che l'avevano lavata, "imborotalcata", pettinata e l'avevo ascoltata. Io, che a quell'epoca ero molto infelice, le ho risposto che, se lei era stata una madre sbagliata, io ero una figlia difficile: forse avrei potuto pregare per lei "madre sbagliata" e lei per me "figlia difficile". È spirata serena dopo avermi detto qualcosa del tipo: "Se Dio mi perdona, io ti proteggerò e pregherò per te, come figlia mia". All'ultimo, quindi, in questa donna si è potuto risvegliare un sentimento materno e la consapevolezza di poter donare ancora qualcosa.
Nel '91, invece, ad un giovane amico scapestrato di mia figlia si è evidenziata improvvisamente e insospettata una forma ormai avanzata di AIDS. È morto in soli 20 giorni, assistito in ospedale dai suoi genitori disperati, che negavano le sue condizioni, da mia figlia, da mio marito e da me. Tempo addietro l'avevamo "adottato" affettivamente data la carenza della sua vera famiglia. All'Ospedale Spallanzani era ricoverato in un reparto dove morivano uno o due giovani al giorno. Il ragazzo si disperava e ci chiedeva piangendo di implorare a Dio un miracolo per lui. Gli abbiamo promesso la nostra preghiera ma gli abbiamo anche detto che ai "miracolati" forse è chiesto di cambiare vita, spendendola meglio di quanto lui non avesse fatto finora. Mia figlia ed io gli abbiamo chiesto di confidarci, oltre alla sua angoscia, anche i suoi sogni per essergli il più vicine possibili. Subito dopo la nostra promessa di preghiera e l'invito ad un radicale cambiamento, ci raccontò un sogno molto vivido: "Uscivo dall'ospedale per andare a scuola per imparare finalmente un mestiere. La scuola era situata sul marciapiede opposto. Mentre attraversavo la strada, sopraggiungeva un autobus ad alta velocità che mi investiva e mi uccideva". Abbiamo capito che non sarebbe sopravvissuto ma che comunque aveva deciso di cambiare vita ("recarsi sul lato opposto della strada") e di imparare nuovamente a vivere ("riandare a scuola"). Poche notti dopo sognò mia figlia e me luminosissime, ai piedi del suo letto, su uno sfondo buio buio. Abbiamo pensato che fosse pronto ad andarsene, introdotto dalla luminosità delle due figure del sogno e così è stato, qualche notte dopo.
Anni fa mi è stato inviato un uomo sui 45 anni con cancro al polmone. Voleva sapere qualcosa su una qualche forma di meditazione che potesse aiutarlo. Nella vita era stato un dominatore e manipolatore di moglie, figli ed amante. Ora, per legare a sé dopo la morte questa donna che aveva sempre rifiutato di sposare, facendola molto soffrire, voleva in extremis adottare con lei dei bambini attraverso un ordine religioso compiacente e voleva intestarle una parte del patrimonio che l'avrebbe invischiata con i figli più grandi, cosa che lei non voleva. Abbiamo lavorato su questi aspetti manipolativi del suo carattere e da solo in pochi mesi è giunto ad elaborare una forma personale di meditazione che esprimeva tutto il suo cambiamento. Abbinando respiro e recitazione di una specie di Mantra da lui inventato, ad ogni ispirazione ripeteva "accetto" ed ad ogni espirazione ripeteva "mi rimetto": "accetto e mi rimetto", "accetto e mi rimetto", "accetto e mi rimetto". È morto soffrendo ma in pace, lasciando esplicitamente libera l'amante e rinunciando ad influire su di lei e sui figli con la sue strane disposizioni testamentarie.
Anche indirettamente ho potuto verificare quanto si possano lenire situazioni familiari nelle ultime settimane di vita di una persona, pur in preda a fortissimi dolori. Dopo aver dato ad alcuni familiari solo piccoli suggerimenti telefonici, indicazioni di letture, inviti ad usare il muto linguaggio affettivo del corpo, a non mentire, diverse persone che avevano chiesto aiuto mi hanno poi riferito di essere riuscite a parlare come non mai con i loro cari morenti, chiedendosi scusa e perdonandosi reciprocamente, esprimendo con i gesti l'affetto a volte inespresso da anni. Hanno raccontato di essersi sentiti uniti e partecipi, come non mai in anni di convivenza.
La prima persona che ha dato indicazioni su come comportarsi con i morenti è stata la psichiatra Kubler-Ross. Nella sua lunga esperienza con i malati terminali ha evidenziato cinque tappe percorse dal morente che è bene conoscere per sapersene rapportare in modo adeguato, non giudicante ma empatico e compassionevole. Queste tappe vanno da:

Rifiuto, incredulità
("non è questo il momento di dire la verità")
Collera
(essere consapevoli che il malato non ce l'ha con noi ma con quello che gli è capitato)
Ricorrere a patti
Depressione
Accettazione

È di fondamentale aiuto conoscere queste tappe (che non necessariamente sono così sequenziali) per evitare errori comunissimi. Per esempio, quando la persona che si avvia a morire entra nella fase depressiva, che si spera preluda all'accettazione, è profondamente sbagliato invitarla ad interessarsi a qualche aspetto della vita. È bene sapere che in quel momento è iniziato il ritiro energetico dalla realtà esterna che il malato o l'anziano sa, coscientemente o no, di dover abbandonare ben presto. È allora estremamente colpevolizzante fargli notare che potrebbe interessarsi di qualcosa (letture, films, nipotini, ecc.), quando ormai sta compiendo un silenzioso e doloroso lavoro di distacco e lutto. Così come è sbagliato insistere e invitare a lottare ancora per la vita quando qualcuno è arrivato allo stadio dell'accettazione della propria fine e si sta lasciando andare, come è giusto che sia. Il morente, nel bisogno di essere accettato, che ci accomuna tutti, può sforzarsi per compiacerci; ma così facendo tradisce se stesso, il proprio cammino interiore e rimane profondamente solo e incompreso.

Negli stessi anni anche Moody ("La vita oltre la vita") ha descritto le fasi della premorte come un processo fondamentalmente rassicurante. In realtà le cose non si svolgono sempre così regolarmente, né tanto meno in chiave così risolutiva, positiva (tranne nel caso di una precedente maturazione e preparazione). Purtroppo, alcuni morenti rimangono disperati, terrorizzati fino alla fine. Questo modo di essere spaventa, disorienta e può contagiare chi li assiste. Per questo motivo, forse, si preferisce nascondere la morte imminente ed inibire i sentimenti, prodigandosi nella assistenza medico-infermieristica efficiente, evitando però il contatto psichico profondo. Non così avviene se chi accompagna ha raggiunto un assetto interiore che renda capaci di accogliere e reggere anche la disperazione e la paura del morente.
A questo dovremmo mirare per profondo amore verso noi stessi e gli altri. Ma, raggiunto o intravisto questo assetto, che non può essere che personale, bisognerebbe riuscire a non proporlo a chiunque come modello precostituito del "buon morire". Bisognerebbe essere capaci di non scandalizzarsi, non deludersi per la disperazione del morente e neppure identificarcisi, ma continuare ad accettare il fatto che ciascuno, davanti alla morte, reagisce in modo assolutamente personale, come può. Questo è un diritto del morente che dipende forse da tutta la sua storia. Non possiamo fare altro che accoglierlo, come ci suggeriscono la De Hennezel e la De Montigny. Sono due psicologhe psicoanaliste di orientamento junghiano, che da anni lavorano in centri per malati terminali con il compito di accompagnarli alla morte. In una intensissima intervista illustrano magistralmente la necessità per l'accompagnatore di saper fare il vuoto in se stesso per poter accogliere l'unicità dell'altro. A loro avviso, ci sono ai nostri giorni due miti della "buona morte", che corrispondono a due visioni differenti della vita. Per gli uni, la "buona morte" è quella discreta, rapida, incosciente, silenziosa, quella che non disturba nessuno (per esempio la morte nel sonno o per infarto). Per gli altri, la buona morte è quella cosciente, accettata, condivisa. Le due psicoanaliste concludono ponendo il problema: "ma si può dire che la collera, la rivolta, il ripiego solitario abbia meno valore della morte accettata o serena? Quello che conta ,e che possiamo favorire in extremis, è che l'essere umano sia se stesso, interamente se stesso in questa esperienza del morire e che, almeno nel momento finale, si senta accettato e confermato nella sua essenza, qualunque sia il suo vissuto. (…) Tutto questo richiede, da parte di chi accompagna, molta umiltà, lasciare andare i propri punti di riferimento ed accettare di portare, assieme al morente, la morte nel modo in cui è possibile all'altro".
Sembra di poter dire che gli atteggiamenti nei confronti della morte possano ridursi a tre: quello dell'uomo di fede certo della sopravvivenza; quello del positivista che vede nella morte il limite, la fine radicale del vivente; quello dello spiritualista in senso lato che vive la morte piuttosto come un'esperienza inquietante, certamente, ma che immette nel mistero.
Questo porsi attivamente nell'ottica del mistero è la posizione di Jung e della sua allieva svizzera M.L. Von Franz, che ha raccolto in un utilissimo libro, "La morte e i sogni", sogni di morenti.

Freud, invece, rimane coerentemente positivista anche di fronte alla morte. Vede nel familiarizzarsi con la morte, cosa da lui auspicata, non tanto un mezzo per morire meglio quanto un "contributo a rendere la vita più sopportabile, dato che il sopportare la vita è il primo dovere di tutti i viventi" (Cfr. "Noi e la morte"). Secondo Freud: "l'uomo, a livello inconscio, si percepisce immortale" (Cfr. "Sulla guerra e la morte") e conclude le sue riflessioni affermando che: "le religioni giunsero a proclamare un'esistenza ulteriore più preziosa e valida, arrivando così a ridurre la vita, che si conclude con la morte, ad una mera preparazione a questa". Le religioni sarebbero quindi una elaborazione del nostro vissuto inconscio di essere immortali, cioè la realizzazione di un desiderio.

Alla conclusione diametralmente opposta giunge Jung, pur partendo dalla stessa constatazione che l'essere umano nell'inconscio non riconosce la propria morte. Scrive: "Fui sorpreso nel vedere quanto poco conto la psiche inconscia facesse della morte, (…) mentre pare che l'inconscio si preoccupi assai di più del modo come si muore" (Cfr. "Anima e morte"). Ma al contrario di Freud conclude: "debbo ricordare che il consensus gentium ha intorno alla morte concetti precisi, i quali sono stati espressi inequivocabilmente da tutte le grandi religioni della terra, (…) che non sono un prodotto della testa, atto a soddisfare i desideri umani (…). I simboli religiosi hanno un netto carattere di rivelazione appunto perché prodotti spontanei dell'attività psichica inconscia". E noi sappiamo che altrove Jung ipotizza che l'inconscio sia detentore di "verità oggettive" e, quindi, sappia che non si muore nel senso che non c'è un annullamento totale dell'essere. La Von Franz, in questa ottica, in tutto il suo studio sui sogni dei morenti afferma che: "i sogni compiuti in prossimità della morte mostrano tutti che l'inconscio, ossia il mondo degli istinti, non prepara la coscienza ad una fine definitiva, ma piuttosto ad una trasformazione profonda e ad una continuazione del processo vitale la cui natura sfugge ai mezzi della nostra coscienza ordinaria (…). Questi sogni non si lasciano facilmente psicologizzare, siamo costretti a lasciarli sospesi, come allusioni simboliche ad un'altra realtà, da cui ci divide una barriera inquietante e pericolosa. Che queste scoperte nell'ambito della psiche avvengano proprio oggi, quando la fisica comincia a parlare di altri universi con i quali non possiamo comunicare, non mi sembra un caso. La scienza moderna si trova ad una svolta: la coscienza di essere circondati da misteri impenetrabili dalla ragione, dovrebbe condurci ad una maggiore modestia intellettuale".
Analizzando i sogni dei morenti, la Von Franz non idealizza il processo del morire: il sogno può essere angoscioso e contenere contemporaneamente immagini di grande distruzione e di qualcosa che si salva. La Von Franz non nega l'angoscia che si prova nella percezione della prossima distruzione del proprio corpo al quale si è fortemente identificati, ma sottolinea come nello stesso sogno può emergere a volte anche la consapevolezza di qualcosa di prezioso che rimane intatto, al di là della distruzione. Ecco il sogno di una paziente raccontato dalla Von Franz: "Vedevo una foresta verdeggiante, in pieno rigoglio, per niente autunnale. Un furioso incendio la distrugge completamente. Raggiungo allora il terreno bruciato: tutto era annerito, carbonizzato, ridotto in cenere. Ma nel mezzo c'era un blocco di arenaria rotondo, di colore rosso senza traccia di incendio".
In altri sogni la Von Franz evidenzia come nel nostro inconscio la morte sia vissuta spesso come un processo di trasformazione più che come una fine e sottolinea come la risoluzione dei propri conflitti interni e il familiarizzarsi con la propria morte renda più facile il morire. A tale scopo, ad esempio, anche nell'induismo e nel buddhismo ci sono pratiche di meditazione da compiere nei cimiteri o in prossimità dei defunti. In tutto l'estremo oriente la vita religiosa ruota attorno al culto degli antenati: ogni casa contiene un piccolo altare degli avi che, evidentemente, è utile anche come "memento mori" per i vivi e dà agli anziani ed ai morenti la consolazione evidente di non essere prontamente dimenticati.
Anche da noi in occidente, per centinaia di anni, i defunti erano seppelliti attorno alla chiesa, centro dell'abitato, o nei giardini dove i bambini andavano a giocare, familiarizzandosi così, senza parole, con l'ultima dimora e assimilando impercettibilmente che vita e morte convivono. Così, quando si recitava regolarmente il rosario, si rinnovava quotidianamente il ricordo e l'invocazione di aiuto nell'ora della morte.
Ora non siamo più aiutati da liturgie e abitudini collettive; quindi, se lo desideriamo, dobbiamo elaborarci da soli un memento mori e un'ars moriendi, adatti alla nostra personalità ed alla nostra concezione dell'esistenza. Sembra che l'indispensabile punto di partenza, prioritario a qualsiasi cammino, sia il superamento dell'egoicità, meta auspicata da tutte le vie di saggezza. Se noi riuscissimo a vederci sullo sfondo dell'incredibile vicenda della Vita che si snoda rinnovandosi; se riuscissimo a vederci come un singolo, sì unico e irripetibile, ma contemporaneamente anello di una catena che si dipana solo grazie al superamento del singolo frammento, forse allora riusciremmo ad accettare di più la morte. È bene che ciascuno di noi si renda conto che è necessario il morire per lasciare spazio ad altri esseri umani che verranno. Che succederebbe altrimenti? In India, questa imprescindibile necessità è stata personificata e vista come addirittura divina: Shiva, una delle Persone della Trinità induista, è Dio nel suo aspetto di dissoluzione/distruzione, premessa di una nuova creazione. Morire intimamente, realmente consapevoli di questa necessità, può diventare allora un estremo atto di amore: l'accettare di fare spazio a chi verrà. A questo proposito, attualmente si sta riflettendo sui gravi problemi provocati dalla tendenza all'invecchiamento della popolazione. Come non porsi individualmente questo problema?

Come psicoterapeuta ho constatato anche che, qualunque sia la filosofia di vita o il credo a cui si aderisce, l'idea o il vissuto della morte è più o meno drammatico e doloroso a seconda che si siano più o meno affrontate e risolte alcune problematiche psicologiche che si possono riattivare in prossimità della morte e cioè quelle relative:
- al senso di colpa (la morte nella nostra cultura è la punizione per la colpa originaria)
- alla dimensione abbandonica (la morte è il totale abbandono del noto per l'ignoto)
- ad un eccessivo narcisismo (la morte è la ferita narcisistica per eccellenza, è l'annullamento del nostro corpo, delle nostre progettualità, ecc.; quindi una persona con una forte egoicità, con grande bisogno di autoaffermazione, sarà più portata a vivere la morte come un dolorosissimo scacco totale)
Questi argomenti, naturalmente, andrebbero ulteriormente sviluppati.

Per concludere vorrei suggerire alcuni punti-chiave da tenere presenti, se si desidera essere buoni compagni per i morenti e che pure andrebbero approfonditi:
- è fondamentale essere convinti che quando non c'è più nulla da fare sul piano fisico, resta ancora molto da fare sul piano affettivo, psichico e anche spirituale;

- la qualità della morte dipende molto dal conforto, dall'aiuto di altre persone (Cfr. Elias, "La solitudine del morente". Ed. Il Mulino, Bologna, 1985);

- il silenzio, il muto linguaggio extraverbale corporeo, quello cioè che intercorre all'inizio della vita fra il genitore e il suo bambino, permette di comunicare tanto quanto la parola e spesso rimane l'ultimo e più efficace livello di comunicazione. È bene ricordare sempre che l'udito sembra essere, con il tatto, l'ultimo senso a spegnersi: alla persona in coma, al morente in agonia giungono ancora la nostre carezze, lo stringere forte la mano, lo sfiorargli il capo e il bisbigliargli nell'orecchio parole di rassicurazione e di commiato: "Vai tranquillo, vai tranquillo, sono qui con te, siamo tutti qui con te";

- ricordare sempre che il morente, anche se regredito a livello fisiologico, anche se bisognoso e dipendente come un bambino è pur sempre un individuo e un adulto da rispettare profondamente nella sua dignità profonda;

- ma soprattutto, come dicono la De Hennezel e la De Montigny, è fondamentale ricordare che: "non si aiuta veramente l'altro se non quando si sa cogliere la sofferenza dell'altro, mantenendo uno sguardo luminoso su di lui. È questo sguardo luminoso, posato su di lui, che invita e aiuta l'essere sofferente a prendere coscienza di quello che in sé porta di luminoso. Infatti, chi non ha mai sentito sbocciare nel profondo di se stesso un'energia nuova ogni volta che ci si è sentiti riconosciuti nella propria bellezza e valore interiori? Confermare qualcuno nel proprio valore, nella propria essenza, al di là del corpo deteriorato, è rendergli possibile di raccogliersi, percepirsi tutto intero nel proprio valore di essere umano, fino alla fine. Di fronte all'angoscia degli altri - continua la De Hennezel - ho imparato ad accogliere e donare. Mi riallaccio ad un'antichissima pratica tibetana della compassione: tonglen (significa: dare e ricevere). Consiste nell'accogliere la sofferenza degli altri, donando poi tutta la fiducia e la serenità a cui si può attingere dentro di sé".
Si tratta, in questa partecipazione silenziosa alla sofferenza dell'altro, di stare con lui, di non lasciarlo solo e di donare, compartecipare la nostra serenità e la nostra speranza, che, vuoi per il mistero del "Corpo Mistico" o per "l'Interdipendenza di tutte le cose" o per "l'Unità del Tutto", può essere offerta, comunicata.

Adriana Monfredini Verdi Vighetti

Testo dell'intervento presentato al convegno
"Sarà così lasciare la vita?" del 16 giugno 2001

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Marie de Hennezel,
La morte amica. Lezioni di vita da chi sta per morire
Ed. Rizzoli, Milano, 1996

Marie de Hennezel e J. De Montigny,
L'amour ultime
Ed. Hatier, Parigi, 1991

Elisabeth Kubler-Ross,
La morte e il morire
Ed. La Cittadella, Assisi, 1971

Elisabeth Kubler-Ross,
Domande e risposte sulla morte e il morire
Ed. RED, Milano, 1981

Stephen Lévine,
Chi muore, quando si muore?
Ed. Sensibili alle foglie, Tivoli (Roma), 1998

Albert Mauder,
L'arte di morire. Una iniziazione
Ed.Queriniana, Brescia, 1976

Leon Tolstoi,
La morte di Ivan Illic
Ed. Rizzoli, Milano, 1989

Marie-Louise Von Franz,
La morte e i sogni
Ed. Boringhieri, Torino, 1986

Jean Ziegler,
Les vivants et la mort
Editions du Seuil, Paris, 1975