Il difficile lavoro della riconciliazione
di Sam Reese Sheppard


La mia maestra, Maurine Myoon Stuart Roshi, mi aveva detto che era giunto il momento di portare la mia pratica nel mondo. Così incoraggiata, ma con una certa tristezza, avrei trascorso meno tempo nello zendo e più nel parlatorio della prigione con i detenuti del braccio della morte o con quelli persi nel pantano della galera
I mesi passavano. Mi sono fatta sostenitrice di alternative alla pena di morte, un passo particolarmente significativo per me alla luce della mia storia personale. Mi sono schierata a fianco dei movimenti contro la pena capitale, ma preferisco parlare di attività positive che rientrino nella lotta mondiale per i diritti umani.
E ho fatto le mie visite in carcere. Ho aspettato con ansia la sesshin di marzo, ma Maurine è morta prima che ci potessimo rivedere. Avrei dunque portato la mia pratica nel mondo senza la sua grande guida.
C'è chi dice che la meditazione più grande è la meditazione sulla morte.
Gli Stati Uniti hanno visto la luce in un crogiolo di violenze, attraverso gli orrori della schiavitù, il genocidio - o quasi - della popolazione indigena, l'impiccagione di donne, giovani o vecchie, nel New England. La nostra psiche collettiva porta le cicatrici delle vergogne del passato americano. Guardiamo poco in faccia alla morte. Ignorando il retaggio dei linciaggi della folla, spingiamo la morte giù nell'inferno dell'ignoranza e della paura, finendo col credere nella morte come punizione.
Se impariamo di più sulla morte, se accettiamo la più grande transizione della vita, condurremo un'esistenza migliore.
Il 4 luglio, un mese e mezzo dopo il mio settimo compleanno, mia madre fu assassinata nel suo letto. Era incinta di quattro mesi e morì in un lago di sangue. Una tale atrocità non può giustificare il fatto che l'opinione pubblica venga scatenata e manipolata nell'isteria del linciaggio. Ogni anno gravi casi penali si trasformano in giganteschi fatti sensazionalistici che sono fonte di larghi guadagni per l'industria dell'informazione e che vengono sfruttati da avvocati e politici come trampolini di lancio per la carriera, oltre al fatto che costano ai contribuenti milioni di dollari. (In California la pena di morte, tra spese processuali e mantenimento, costa 90 milioni di dollari l'anno e consuma una quantità di ore di processo.)
Nel caso della mia famiglia, l'isterismo pubblico è stato aizzato fino alla follia dai massmedia. Mio padre, giovane medico, fu arrestato. Cinque mesi dopo la morte di mia madre, in un processo svolto sui giornali, fu giudicato colpevole dell'omicidio. L'accusa chiese per lui la condanna a morte. Questo si chiama terrorismo. Per mia fortuna, non fu condannato a morte, ma gli fu dato l'ergastolo.
Le prove dell'innocenza di mio padre continuarono a venir fuori una dopo l'altra e 12 anni dopo, in un processo molto più equo, fu dichiarato non colpevole. Ma ormai la sua vita era distrutta e morì quattro anni più tardi di una malattia al fegato causata dal vitto del carcere, dal troppo bere e soprattutto dal suo cuore infranto.
Dopo la morte di mia madre, gli adulti che avevo vicino vivevano nella paura e nello sgomento. Nessuno mi prendeva da parte e mi guardava negli occhi per parlarmi della morte e dell'omicidio, per piangere insieme a me, per aiutarmi a realizzare e ad accettare finalmente la tragica perdita della mia vita. Io non ci volevo credere e basta. Credevo di vederla, mia madre. La sentivo chiamare il mio nome. E a volte piangevo, senza alcun motivo. Man mano che maturavo, ho attraversato gli abissi del dolore e dei traumi irrisolti.
Faccio parte di un gruppo chiamato "Parenti delle vittime di assassinii per la riconciliazione". Preferisco la parola `riconciliazione' alla parola `perdono', perché la gente associa il perdono con una rinuncia alla responsabilità. La riconciliazione, invece, richiede un grande lavoro da parte di tutte le parti in causa. Il nostro gruppo sa bene che la pena di morte è una crudele farsa usata in una politica di divisione e paura. Sappiamo che trovare equilibrio in un mondo che ferisce ed è ferito richiede sia un lavoro interiore sia un impegno attivo verso l'esterno. Abbiamo bisogno di persone dotate di conoscenza religiosa e spirituale. Serve una comunità terapeutica che lavori con i familiari delle vittime. Quando è che il nostro paese e le nostra comunità sapranno farsi carico del problema della violenza e delle sue conseguenze? E` un problema di tutti noi.
Una tipica motivazione a favore della pena di morte addotta dai politici è che essa rappresenta una sorta di conclusione e di riparazione per i familiari delle vittime. Ma una violenza che sollevi dalla violenza passata non fa che perpetuare ulteriore violenza. I grandi maestri di molte tradizioni diverse, da Buddha a Cristo, ce lo hanno insegnato per secoli. L'esecuzione di una pena capitale fa male alla salute mentale, sia personale che pubblica. La psicologia popolare che sostiene che i parenti delle vittime possono trovarvi una "conclusione" al problema, banalizzano quello che in realtà è un viaggio difficile che impegna tutta la vita.
Abbiamo bisogno di gente che si faccia avanti e prenda per mano i familiari tanto della vittima che del colpevole.
Se vuoi mettere a prova la tua fede, siediti ad ascoltare le storie strazianti che i familiari delle vittime hanno da raccontare. Offri una mano da stringere o una spalla su cui piangere a un genitore che ha perso il proprio figlio in un omicidio sena senso. E questa offerta deve essere simile alla pratica dello zazen: senza proponimenti, senza giudizi.
Nel dolore più profondo c'è una grande forza. I meccanismi politici sfruttano questa forza a loro vantaggio, trasformando la sofferenza in spezzoni da mandare in onda col telegiornale della sera ad alimentare il mostro della violenza.
Come possiamo diventare più umani? La riconciliazione deve andare ben oltre la vittima e il colpevole. Spesso i familiari della vittima e quelli del colpevole vengono trattati dalla società in modo simile. La gente non vuol star loro intorno perché non desidera essere esposta al dolore..
Viviamo in un paese in cui i ragazzini possono comprare in mezzo alla strada una pistola a poco prezzo, in cui prima di aver compiuto 18 anni già hanno visto qualcosa come 20.000 omicidi in televisione, in cui raggiungono l'età per poter essere giustiziati prima di avere quella per votare o fare il servizio militare.
La pena di morte è il simbolo di tutto ciò che non funziona nel nostro paese: il classismo, il razzismo, il fallimento del nostro sistema sanitario nella cura delle malattie mentali o di chi è psicologicamente a rischio, la tendenza a cercare di risolvere i problemi sociali con mezzi militari. Dobbiamo trovare la forza d'animo per essere vicini l'un l'altro nella pace e per condividere il dolore della violenza. Noi che siamo i familiari delle vittime abbiamo bisogno degli occhi e delle orecchie di altri esseri umani animati dalla compassione, che ci aiutino a guardarci allo specchio e vedervi riflessa la nostra anima. E dobbiamo tutti capire la futilità di aggiungere nel mondo dolore al dolore, violenza alla violenza, attraverso la pena di morte.

da Turning Wheel, inverno 1999
Traduzione di Laura Bisogniero