Dare
vita agli anni e non anni alla
vita
Durante il convegno "Vivere il morire, il diritto a essere consapevoli", organizzato dalla "Comunità l'accoglienza" e dal centro studi del poliambulatorio La Torre, il prof. Antonio Guerci, del Dipartimento di Scienze antropologiche dell'Università di Genova ha svolto una relazione alla quale ha dato il significativo titolo di: "Il sillogismo di Nabokov: gli altri muoiono, io non sono gli altri, io non muoio". Riportiamo alcuni stralci dell'intervento di Guerci. (M. P.)
"I
bambini a 4-5 anni ignorano la
morte, a 7 la associano ai sentimenti
di paura e di punizioni e la considerano
reversibile, a 9 anni ne hanno
un'idea razionale (i dati sono
riportati da Anthony S. in The
discovery of death in childhood
and after. Penguin Press, London,
sta in Lancet 1, 78, qo72). Il
62% degli adulti non teme la morte,
il 29% sì, il 9% ne è
atterrito. Il 61% degli anziani
vorrebbe morire a casa, il 39%
in ospedale. L'80% dei malati
gravi vorrebbe la verità,
ma i medici per il 96% la nascondono
(i dati sono in Editorial, 1971,
Most of the healthy aged do not
fera death, study shows. Geriatrics
265, 26).
I congressi sulla senilità
sono fitti e affollati. La battuta
più mordace è :
"ogni volta ci si rivede
più vecchi". Più
si vive e più si ha l'impressione
che gli anni abbiano meno giorni
e i giorni meno ore. Eppure: Goethe
a 64 anni cavalcava sei ore al
giorno, Tolstoi a 67 imparava
ad andare in bicicletta, il maratoneta
Sadanga a 40 anni impiegava nella
maratona olimpica 12 minuti in
meno che a 30 anni: un testo fondamentale
nel campo della biologia, psicologia
e sociologia della senescenza,
dal titolo "La vecchiaia
tarda, lenta, sana, serena"
è stato scritto dai tre
medici fiorentini Amaldi, Mori
e Pieraccini, già novantenni
quando lo pubblicarono nel 1952.
Se è possibile profetizzare
i fondamenti per una vita lunga,
giovane e sana, assai più
complesso risulta preparare gli
individui alla morte. E in particolare
nel mondo occidentale e soprattutto
oggigiorno giacché ogni
sforzo è compiuto da persuasori
più o meno occulti al fine
di cancellare addirittura il termine
stesso, come è accaduto
per il dolore, quasi scomparso
dai vocabolari. Sono anche scomparsi
i valori associati alla resistenza
al dolore e alla continuità
della vita post-mortem. La cultura
dell'immagine è in antitesi
con tutto quanto può invecchiare,
morire, modificare i tratti, indurre
trasformazioni estetiche negative.
Letteratura e antropologia sono
le uniche "località"
in cui si parla ancora della morte.
Nel 1981 mi trovai a recensire
l'opera di padre Nazareno Contràn:"
la morte è una cosa antica.
Canti popolari del Togo meridionale".
Si trattava di una collezione
di canti funebri raccolti in molti
anni da un missionario. La morte
vi figura come un destino comune
e crudele, inattesa e misteriosa,
definitiva: ma ogni sforzo viene
messo in atto dai sopravvissuti
per ricostruire il legame infranto.
(...) Sono versi semplici, senza
rima, animistici, di sconcertante
impotenza e rassegnazione, di
devoto pathos lirico e di alta
poesia. La rassegnazione di fronte
all'inevitabilità, l'umiltà
innanzi al volere della natura,
la consapevolezza di appartenere
a un gruppo. Solo allorquando
saremo consapevoli di appartenere
a una specie e il senso di tale
appartenenza si farà più
profondo, impareremo anche a morire.
La morte, infatti, rappresenta
certamente il momento più
traumatico dell'intera parabola
vitale, ma costituisce anche il
momento di garanzia della sopravvivenza
della specie. E' ormai risaputo
che una popolazione in ambiente
limitato cui si è fornita
l'opportunità sperimentale
di aumentare considerevolmente
la durata media della vita, trascina
con sé la scomparsa della
popolazione stessa.
(...) Le più antiche documentazioni
di ritualità legate al
concetto di morte umana devono
essere fatte risalire all'uomo
di Neanderthal, 100 mila anni
orsono. I neanderthaliani eseguivano
riti funebri e forse anche religiosi,
il materiale che si trova associato
nei siti di sepoltura testimonia
offerte e doni con riferimento
anche ad alimenti per la sopravvivenza
nell'aldilà. Possiamo sicuramente
parlare di un culto dei morti.
Oggi assistiamo a un culto dell'immortalità
piuttosto che al culto dei morti.
Fintanto che il medico non ritornerà
a fare il medico e non il tecnocrate;
fintanto che il prete non ritornerà
a fare il prete e non l'edificatore
di templi; fintanto che il gerontologo
non penserà a dare vita
agli anni e non anni alla vita,
non fermeremo il processo regressivo
che sta conducendo il cittadino
del mondo occidentale alla fase
di individuo pre-pubere di 7 anni
che considera la morte come reversibile.