ESPLORIAMO
LA NOSTRA INTENZIONE NEL SERVIZIO
di Frank Ostaseski
Frank
Ostaseski dirige lo Zen Hospice
Project di San Francisco, da lui
fondato nel 1987. Si tratta di
un progetto che si articola intorno
a tre programmi principali: una
struttura indipendente di 28 posti
letto in grado di accogliere adulti
in fase terminale, una seconda
struttura all'interno di un ospedale
pubblico e infine un centro per
la formazione dei volontari dove
viene prestata particolare attenzione
alla crescita individuale di tutte
le persone coinvolte.
Frank Ostaseski sarà per
la prima volta in Italia dal 16
al 23 giugno (Mestre e Roma).
Credo che sia utile iniziare con
una premessa di base - che è
sempre vera - e cioè che
non può esserci vero servizio
se non quando entrambe le persone
sono reciprocamente al servizio
l'una dell'altra.
Una volta durante una cerimonia
allo Zen Center, uno studente
chiese all'abbate: "Che cosa
mi può insegnare il Dharma
sul servizio per gli altri?"
L'abbate rispose: "Quali
altri? Servi te stesso!"
Ma lo studente insistette: "Come
faccio a servire me stesso?"
Al che la risposta dell'abbate
fu: "Prenditi cura degli
altri".
Ogni giorno lavoro vicino a persone
che stanno per morire e tra loro
ce ne sono alcune difficili da
trattare. Può darsi che
abbiano vissuto per periodi più
o meno lunghi da barboni o che
siano amareggiati per aver perso
il controllo sulle loro vite.
Spesso hanno perso fiducia nell'umanità:
girano la testa contro il muro
e si ritirano in se stessi. Il
buddhislmo non interessa assolutamente
nulla alla maggior parte di loro.
Persone di questo genere non si
fidano facilmente e se voglio
essere di qualche utilità
dovrò essere estremamente
chiaro e onesto circa la mia intenzione,
in caso contrario non gli ci vorrà
molto per indovinare la mia ipocrisia
e il mio sentimentalismo.
Alcuni tra loro, però,
incontrano una vera fioritura
e il modo in cui muoiono è
un grande dono: si riconciliano
con parenti che avevano perso
da tempo e scoprono finalmente
la gentilezza e l'accettazione
che avevano cercato tutta la vita.
Trovarsi vicino a persone simili
può essere un'esperienza
straordinaria. Ma non faccio questo
lavoro per trovarmi in momenti
simili: inseguire ricompense di
questo genere porta all'esaurimento
e alla fine si finisce per diventare
manipolativi perché si
è troppo presi dal tentativo
di creare le condizioni che portano
a tali esiti. Ed è così
che non si coglie la situazione
concreta.
A me piace svolgere questo lavoro
perché è un servizio
anche per me. Cerco sempre di
vedermi nelle persone che assisto
e di vedere loro in me. Essi lo
sanno e perciò si fidano
e riescono ad avere fiducia in
questo genere di lavoro; capiscono
che lo stiamo facendo insieme.
Prendersi cura dell'altro è
sempre di beneficio reciproco.
Prendendoci cura degli altri,
ci prendiamo cura anche di noi
stessi e una tale comprensione
cambia in maniera radicale il
modo in cui prestiamo assistenza.
Non sono il buono che viene a
salvare: non ho nessun cavallo
bianco!
Piuttosto diventiamo insieme quelli
che io chiamo "compagni nella
compassione"; tradotta letteralmente
'compassione' significa soffrire
con gli altri e quel 'con' è
la parola più importante
perché implica appartenenza.
'Compagno' indica 'uno che viaggia
con un altro'. Abbiamo allora
un rapporto dove non c'è
nessuna guida, dove non c'è
nessuno che guarisce e nessuno
che viene guarito, dove ci accompagniamo
semplicemente a vicenda. Come
dice il mio amico Reb Anderson:
"Stiamo semplicemente camminando
mano nella mano attraverso la
nascita e la morte".
Se entriamo con attenzione nella
stanza di una persona che sta
morendo, capiremo al volo, in
modo viscerale, quanto sia precaria
la vita. Ma nel capire questo,
realizzeremo anche quanto sia
preziosa. Con la morte così
vicina e a portata di mano, diventiamo
meno compulsivi nei confronti
dei nostri desideri e prendiamo
meno sul serio noi stessi e le
nostre idee, diventiamo capaci
di lasciare andare con più
facilità. Ci apriamo di
più alla generosità
e all'amore. Paradossalmente il
lavorare con i morenti ci renderà
più gentili gli uni con
gli altri. Davanti alla morte
tutto ciò con cui normalmente
ci identifichiamo viene strappato
via dalla malattia o reso con
grazia, ma comunque tutto va via.
"Sono un padre, "Sono
una madre", "Sono un
assistente in un hospice",
"Sono un omosessuale":
qualunque sia la nozione che abbiamo
di noi stessi, andrà via.
In superficie, le vite delle persone
accanto a cui lavoro sembrano
molto diverse dalla mia: in genere
sono neri mentre io sono bianco,
spesso si tratta di persone che
si iniettano eroina e hanno l'AIDS
e io no, sono soli e senza una
casa mentre io pago un affitto
abbastanza alto e ho quattro figli
adolescenti. Sarebbe facile per
me convincermi che siamo separati:
in fondo solo qualche mese fa
incontrandoci per strada ci saremmo
ignorati. Ma la cosa straordinaria
è che adesso nell'hospice
ci troviamo insieme nella più
intima delle circostanze. E capita
che nel bel mezzo dell'attività,
in dettagli del servizio, improvvisamente
troviamo un punto di incontro
e scopriamo allora di appartenere
uno all'altro.
Prima di qualsiasi atto del pensiero
o della parola c'è un momento
di intenzione di cui dobbiamo
essere consapevoli. La chiarezza
sull'intenzione ci permette di
scegliere come procedere: basta
un momento di contatto con l'intenzione
per rompere i nostri schemi abituali
e per fermarci dall'agire come
se avessimo inserito un pilota
automatico.
Nella tradizione Zen esiste la
pratica del 'dokusan', ossia del
colloquio con l'insegnante. Al
praticante viene detto di aspettare
fuori dalla porta del maestro
e di raccogliersi completamente
nel momento presente. Non ha idea
di che cosa lo aspetti dall'altra
parte della porta e di che cosa
gli questi gli chiederà,
dovrà dunque restare pronto,
flessibile e aperto. Entrare nella
stanza di un paziente che sta
morendo, è come andare
per un dokusan. Idealmente il
nostro corpo e la nostra mente
dovrebbero entrare nella stanza
nello stesso momento, ma a volte
non va affatto così. Co
può capitare di lasciare
la mente molto indietro - a volte
lasciamo anche il nostro corpo
indietro! Oppure entriamo nella
stanza molti giorni prima di entrarci
realmente.
Una volta a un volontario che
conosco capitò proprio
questo: si recò al letto
di un paziente che lo accolse
con gioia e gli disse: "Oh,
sono davvero contento che sei
venuto, finalmente ho qualcuno
con cui poter parlare della mia
morte". Lui si sentì
soddisfatto e rispose: "Sì,
certo, ti porterò dei libri
della Kübler Ross e di Stephen
Levine. Tornerò la settimana
prossima e ne parleremo insieme".
La settimana successiva tornò
con un mucchio di libri, ma il
paziente gli disse: "Grazie,
ma adesso c'è la partita
in TV, siediti e guardiamola insieme".
Troppo spesso nel lavoro di assistenza,
non guardiamo tanto a ciò
che realmente serve, quanto piuttosto
cerchiamo una conferma al alcune
idee che abbiamo su noi stessi.
Vogliamo essere qualcuno, diciamo:
"Io lavoro con i morenti"
e mettiamo l'enfasi su quell''io',
investendo più nel ruolo
che nella funzione. Io la chiamo
"la malattia di chi aiuta"
ed è un'epidemia molto
più diffusa dell'AIDS o
del cancro. In realtà stiamo
cercando di separarci dalla sofferenza
dell'altro e lo facciamo utilizzando
la nostra pietà, la nostra
paura, il nostro calore professionale
o anche attraverso dei gesti caritatevoli.
Ma tutto ciò non ha niente
a che fare con la carità.
Qualche anno fa, nel nostro hospice
ricordo una donna molto triste
e depressa che sarebbe poi morta
pochi giorni dopo. A me sembrava
naturale il suo stato d'animo
visto che stava per morire. Ma
un'infermiera suggerì di
darle dell'Elavil che è
un farmaco usato per migliorare
l'umore e che, però, ha
bisogno di venti giorni prima
di fare effetto. Chiesi a quell'infermiera
perché mai volesse darlo.
Mi rispose: "Quella donna
sta soffrendo ed è così
difficile vederla soffrire".
Al che le dissi che forse era
il caso che prendesse lei l'Elavil.
L'attaccamento al ruolo di colui
che aiuta è una storia
vecchia per quasi tutti noi. Aiutare
gli altri dà un senso di
potere o rispettabilità
che a fine settimana passiamo
a ritirare come se fosse uno stipendio!
Se non stiamo attenti, però,
questa identità finirà
per imprigionare sia noi che coloro
che aiutiamo. In fondo, se sono
uno che aiuta, vi dovrà
pure essere qualcuno che ha bisogno
di aiuto!
La mia amica Rachel Remen che
dirige il Centro per i Tumori
in California descrive molto bene
questa situazione. Sostiene che
il servizio non è la stessa
cosa del dare aiuto. L'aiutare
si basa sulla disuguaglianza,
non è una relazione tra
uguali. Quando si aiuta si usa
la propria forza per aiutare qualcuno
che ne ha meno. E' un rapporto
in cui uno sta sopra e l'altro
sotto; le persone avvertono questa
disparità. A volte, senza
volerlo, togliamo piuttosto che
dare, sminuendo in questo modo
il senso di auto stima e valore
della persona. Quando aiuto sono
molto consapevole della mia forza,
mentre non serviamo con la forza,
bensì con noi stessi.
Abbiamo bisogno di tutte le nostre
esperienze: ci servono le nostre
ferite, i nostri limiti e anche
la nostra oscurità. L'interezza
in noi serve l'interezza nell'altro
e nella vita. Aiutare significa
creare un debito: quando aiuti
qualcuno questi diventa tuo debitore.
Il servizio, invece, è
reciproco. Nell'aiuto proviamo
una sensazione di soddisfazione,
nel servizio un sentimento di
gratitudine. Servire è
anche diverso da riparare, si
riparano dei tubi rotti, non le
persone. Quando mi metto a riparare
un'altra persona lo faccio perché
la vedo come rotta; è una
forma di giudizio che ci separa
e che crea distanza.
Aiutare, riparare e servire sono
modi diversi di vedere la vita,
quando si aiuta ce la rappresentiamo
debole, quando si ripara la si
considera rotta mentre nel servizio
la vita è vista nella sua
interezza. E allora possiamo capire
che la sofferenza dell'altro è
anche la mia, così come
la sua gioia. Allora la spinta
al servizio nascerà con
naturalezza e la nostra naturale
saggezza e compassione si manifesteranno
con semplicità.
Chi pratica il servizio sa di
venire usato ed è disponibile
ad esserlo per qualcosa di più
importante. Possiamo aiutare o
riparare molte cose nella nostra
vita, ma nel servizio siamo sempre
al servizio dell'interezza.
Stare vicino a chi soffre, non
importa se in fin di vita o meno,
ci risveglia e apre i nostri cuori
e le nostre menti; ci apre all'esperienza
dell'unità. Spesso però
veniamo catturati nei nostri ruoli
abituali e nelle idee che ci tengono
separati gli uni dagli altri.
Persi in uno stato mentale reattivo,
occupati nel tentativo di proteggere
l'immagine che abbiamo di noi
stessi, ci tagliamo fuori e ci
isoliamo da ciò che veramente
servirebbe e ispirerebbe il nostro
lavoro. Per essere persone che
guariscono dobbiamo essere disponibili
a portare al capezzale la nostra
passione insieme alle ferite della
nostra paura e a tutto ciò
che siamo. Infatti, è proprio
l'esplorazione della nostra sofferenza
che costituisce un ponte con le
persone che stiamo servendo.
Qualche anno fa un mio carissimo
amico a cui volevo molto bene
si ammalò con l'AIDS, lo
conoscevo da molti anni. Nello
stesso pomeriggio perse la capacità
di parlare, di reggere una forchetta,
di stare in piedi e di formulare
una frase in modo coerente e tutto
ciò accadde proprio un
pomeriggio in cui c'ero io ad
assisterlo. Mi spaventai a morte:
"Come? Io, il signor Hospice!"
Feci tutto ciò che potevo
per prendermi cura di lui. Aveva
delle fistole enormi, dei tumori
anali e una diarrea costante.
Ci spostavamo continuamente avanti
e indietro dal gabinetto alla
vasca. Andò avanti così
tutta la notte. Ero sfinito e
desideravo solamente metterlo
a letto per poter dormire anch'io
un po'. Provai con ogni trucco
che conoscevo, provai a essere
persuasivo, manipolativo, paternalista:
quella notte cambiai abito più
spesso di Madonna. Nel bel mezzo
di uno di questi spostamenti dal
water alla vasca mi parlò
e dalla sua mente confusa uscirono
queste parole: "Ti stai sforzando
troppo". Era vero, mi fermai
e mi misi a sedere accanto al
water iniziando a piangere. Fu
quello l'incontro più intenso
di tutto il nostro rapporto. Eravamo
insieme, completamente indifesi,
senza separazione o ruoli professionali.
Se non siamo disposti a esplorare
la nostra sofferenza, allora nel
cercare di capire i pazienti faremo
solo dei salti al buio. E' l'esplorazione
della nostra sofferenza che ci
permette di servire gli altri
e di toccarne il dolore con compassione
invece che con paura e pietà.
Dobbiamo avere la volontà
di ascoltare non solo il paziente,
ma anche noi stessi. Dobbiamo
prestare molta attenzione a ciò
che incontriamo immediatamente
davanti a noi.
Circa un anno fa, un'anziana donna
ebrea russa, un tipo duro, stava
in fase terminale. Quando entrai
nella sua camera vidi che respirava
con grande difficoltà e
la persona che l'assisteva seduto
lì accanto le disse: "Non
deve aver paura, ci sono io qui
con lei". Al che la donna
replicò: "Mi creda,
se si trovasse nella mia situazione,
anche lei avrebbe paura".
Dopo un po' l'assistente disse:
"Mi sembra che abbia freddo,
vuole una coperta?" La donna
rispose: "Certo che ho freddo,
sono quasi morta". Per aiutarla
veramente, sapevo che dovevo ascoltare,
dovevo veramente prestare attenzione
a ciò che stava dicendo.
Stava lottando con il respiro,
ma voleva essere trattata con
onestà, non voleva sentire
stupidaggini. Le dissi: "Adèle,
vorresti soffrire un po' meno?
Combattere un po' meno?"
"Sì".
"Ho visto che c'è
un piccolo posto proprio lì,
tra l'inspirazione e l'espirazione,
dove riposi. Riesci anche solo
per un attimo a portare l'attenzione
proprio in quel punto?"
Ricordate? Si trattava di un'ebrea
russa, alquanto dura, assolutamente
priva di interesse per il buddhismo
o la meditazione. Ma voleva lottare
meno e così per alcuni
minuti si impegnò e mentre
lo faceva vidi sul suo viso che
la paura iniziava a scomparire.
Dopo pochi altri respiri morì
in tutta tranquillità.
Se vogliamo prestare servizio,
dobbiamo esseri attenti a ciò
che ci si presenta davanti e agire
con il minimo intervento possibile,
portando nella situazione la stessa
attenzione ed equanimità
che coltiviamo sul cuscino di
meditazione.
La misura della nostra abilità
nel servizio è data dal
grado di disponibilità
e capacità che abbiamo
di vivere il momento presente
con immutata freschezza. Quando
il cuore è aperto e la
mente è tranquilla, quando
la nostra attenzione è
tutta nel momento presente, allora
il mondo ci appare non più
diviso e noi sappiamo che cosa
fare.
Tutti possiamo riuscirci, non
c'è bisogno di vent'anni
di pratica buddhista. Ciascuno
ha la capacità dentro di
sé di abbracciare la sofferenza
dell'altro come se fosse la propria.
Lo facciamo da centinaia di anni,
abbiamo solo dimenticato e così
abbiamo bisogno di ricordarcene.
Una volta, quando il nostro hospice
aveva appena iniziato a funzionare,
accadde che un uomo con l'AIDS
cadde mentre uno dei volontari
lo stava aiutando a spostarsi
dal letto al comodino. Successe
di tutto!
I pantaloni gli caddero giù
fino alle caviglie e il mobiletto
si rovesciò, la stanza
era una piccola Hiroshima! In
effetti il lavoro di assistenza
è proprio così.
Comunque Tom riuscì, sia
pure goffamente, a rimettere il
paziente sul letto, dopodiché
mi telefonò: "Frank,
vorrei che ripassassimo insieme
le tecniche che abbiamo studiato
al corso per mettere le persone
a letto".
"Va bene" risposi "ma
ora fai così: la prossima
volta che devi spostare J. D.,
prima di iniziare, controlla un
attimo la tua pancia, guarda se
è morbida. Se non lo è,
non fare nulla".
"Non cominciare con queste
storie buddhiste. Voglio solo
sapere che cosa devo fare con
le sue ginocchia".
"Controlla la tua pancia,
e poi richiamami". Era come
dire: "Prendi due aspirine
e chiamami domani mattina".
Invece mi richiamò poco
dopo.
"Frank, è stata una
cosa incredibile: sono andato
per spostare J. D. e la mia pancia
era dura come un sasso, allora
mi sono fermato. Ho fatto alcuni
respiri, la mia pancia si è
ammorbidita e subito mi sono ritrovato
J. D. tra le braccia, come un'amante
o un bambino piccolo. Non è
stato difficile".
Tutti sappiamo come farlo.
La pratica buddhista comprende
la nozione che siamo tutti già
nati molte altre volte precedentemente
e che siamo stati tutti madri,
padri e figli l'uno dell'altro.
Dovremmo trattare quindi ogni
persona che incontriamo come se
fosse un nostro caro.
Se indaghiamo al cuore del servizio,
vediamo che c'è uno schema
che si ripete: il senso di separatezza
è il comun denominatore
di tutte le abitudini che ci ostacolano
nel nostro lavoro, mentre l'esperienza
dell'unità è sempre
presente in ogni gesto o momento
che sembrano andare nella direzione
del servizio.
Einstein ha parlato di questo
e Sogyal Rinpoche lo cita nel
suo "Il libro tibetano del
vivere e del morire":
"Ogni essere umano fa parte
di un insieme, che noi chiamiamo
l''Universo', una parte limitata
nel tempo e nello spazio. L'uomo
vive se stesso, i suoi pensieri
e sentimenti come qualcosa di
separato da tutto il resto, in
una specie di illusione ottica
della sua coscienza. L'illusione
costituisce una sorta di prigione
che ci limita ai nostri desideri
personali e all'affetto per le
poche persone più vicine
a noi. Il nostro compito deve
essere quello di liberarci da
questa prigione, allargando il
nostro cerchio di compassione
fino ad abbracciare tutte le creature
viventi e l'intera natura nella
sua bellezza".
Quando il cuore non è più
diviso, tutto ciò che incontriamo
diventa la nostra pratica ed ecco
che, allora, il servizio è
uno scambio sacro, proprio come
inspirare ed espirare. Il sostegno
fisico e spirituale che riceviamo
nel mondo equivale all'inspirazione.
Poi, poiché tutti abbiamo
dei doni da offrire, una parte
della nostra felicità nel
mondo consiste nel restituire
qualcosa e questo processo equivale
all'espirazione.
A un mio amico piace parlare di
'gentilezza semplice e umana".
Secondo me, il nostro lavoro consiste
nel non ostacolare la saggezza
e la compassione innate - la gentilezza
semplice e umana, appunto - e
permettere alla nostra innata
capacità di vedere ciò
di cui ha bisogno l'altro, di
porsi al servizio sia dei morenti
che dei vivi.