VIVERE
IL TEMPO DEL MORIRE
Intervista di Matilde Passa con
Maurizio Grandi
Maurizio
Grandi, oncologo clinico e immunoepatologo,
direttore del centro di ricerca
sui nuovi farmaci Res-Farma, appassionato
di antropologia, dirige a Torino
il poliambulatorio La Torre, e
si prepara a trasformarlo in un
centro interetnico, per utilizzare
le tecniche di guarigione di qualsiasi
tradizione. Una personalità
di "frontiera" che ama
le incursioni in tutti i territori
dove l'uomo riflette, si interroga,
ricerca. Ora sta curando aTorino
la nascita di un "hospice",
in collaborazione con la Comunità
di accoglienza diretta da don
Messina.
Certo, usare il termine "nascita"
per raccontare di un progetto
che vuole accompagnare i morenti,
potrebbe suonare come un paradosso,
eppure è proprio la nascita
di una nuova sensibilità
rispetto al percorso della morte
che ci conduce nello studio romano
di questo inarrestabile viaggiatore
della scienza e della storia umana.
Intervista
di Matilde Passa
D: Come mai sono quasi
sempre gli oncologi a parlare
di cure palliative, di bioetica,
di accompagnamento del morente?
R: Perché il 50-60%
dei malati di cancro scompaiono
nel giro di 5 anni. Gli oncologi
hanno compreso che la risposta
non può essere affidata
soltanto alla tecnica scientifica.
Hanno dovuto prendere drammaticamente
atto del fallimento delle loro
illusioni. Negli anni 60 noi medici
pensavamo davvero che la scienza
sarebbe stata in grado di dare
risposte a tutti i nostri perché.
Non è stato così.
C' è un bell'epitaffio
di Rex Kendall che dice "La
scienza degli ultimi 30-40 anni
è stata sicuramente imperiosa
nelle sue vittorie e nelle sue
conquiste, ma assolutamente povera
nella capacità di trasmettere
queste conquiste alla gente che
ne ha veramente bisogno".
D: Quando è avvenuta
la cesura e come mai?
R: Quando la scienza è
diventata tecnica e soprattutto
non ci è più appartenuta.
Quello che era il tentativo individuale
di partecipare alla ricerca scientifica
è oggi appannaggio dei
grossi gruppi industriali, così
la tecnologia diventa sempre più
sofisticata, estremamente cara,
sempre più lontana dall'uomo.
Se la scienza era nata con l'intenzione
di servire l'uomo, talvolta si
ha l'impressione che l'uomo sia
diventato un mezzo, in particolare
quando la tecnologia applicata
diventa mercato, mercato del quale
siamo i consumatori e non gli
utenti. Di più. Questo
processo è avvenuto così
rapidamente che non abbiamo fatto
in tempo a seguirlo e così
ora proviamo un senso di disagio,
di paura persino.
D: Che cos'è la
morte per l'uomo contemporaneo,
quando possiamo dire che è
sopraggiunta la fine della vita
?
R: Quando cessa il funzionamento
cerebrale, perché questo
determina il livello di coscienza
ed è quest'ultima che fa
di un uomo un essere umano. L'uomo
è morto quando nessuna
parte è capace di autoconsiderarsi
come un sé. Certo mi rendo
conto che la situazione è
più complessa, forse c'è
qualcosa di più della morte
cerebrale : quando è che
non siamo più in grado
di considerarci un'unità?
D: Alcuni studiosi hanno
compiuto ricerche sugli stadi
che gli individui attraversano
quando si trovano di fronte a
diagnosi di malattie mortali.
Sono "tappe" comuni
a tutti?
R: E' stata Elisabeth Kübler
Ross che, già nel dopoguerra,
si è dedicata ai pazienti
oncologici. Lei ha individuato
cinque fasi che non si alternano
allo stesso modo e non compaiono
in tutti i pazienti, ma che possono
essere prese a modello. 1: la
negazione: "Non è
vero". 2: La rivolta: "Perché
a me? Perché non a un altro?".
3: Il mercanteggiamento: "Se
mi comporto bene, obbedendo alle
prescrizioni del medico e facendo
tutto quello che lui mi dice,
ce la farò". 4: La
solitudine: "Sono comunque
io che patirò. Non voglio
essere compatito, non voglio però
che mi si lasci solo". 5:
L'acquiescienza: "Ho capito,
accetto". Una ricerca condotta
dal dottor Leon Schwartzenberg
metteva il luce come la maggior
parte delle persone vorrebbe morire
all'improvviso e come il sentimento
prevalente è la paura.
L'atteggiamento non cambiava se
le persone erano o no credenti.
D: Viviamo un'epoca che
ha rimosso la morte, come è
possibile superare questo gap
di comunicazione sottolineato
proprio dallo studio che lei citava?
R: E' vero, la morte non
ci appartiene. Perché la
tecnologia avanzante ci ha completamente
estromessi dal tenere presente
la morte nella vita di tutti i
giorni - la morte è qualcosa
di brutto, dobbiamo essere belli,
ben messi, senza problemi, la
morte ci disturba - ma non ci
appartiene neanche il momento
in cui succede. Riappropriamoci
della morte. Perché vietare
a un bambino fino ai 12 anni di
avere accesso all'ospedale? Perché
il bambino non deve vedere chi
sta male, chi soffre, chi muore?
Per poter vivere più armoniosamente
quando sarà grande, il
bambino ha bisogno di conoscere
la realtà, per cui portiamo
i bambini vicino alla gente che
soffre. Invece della morte si
bisbiglia dietro porte chiuse.
Non sapendo come vivere ci sentiamo
colpevoli di morire. Raramente
usiamo la malattia come un'occasione
per indagare il nostro rapporto
con la vita o per esplorare il
nostro rapporto con la morte.
Pensiamo di "essere"
soltanto se siamo sani.
Come facciamo, fissi come come
siamo su quest'idea dell'accettabile,
a imparare ad aprirci all'impossibile?
Come facciamo a permettere a noi
stessi di entrare nell'ignoto
con la generosità e il
coraggio capaci di dare pienezza
alla vita? Quanto ormai siamo
lontani da Platone quando affermava
che coloro che usano correttamente
la sapienza fanno studio costante
della morte! Poi un giorno ci
troviamo di fronte alla morte
di qualcuno che amiamo e allora
l'angoscia ci penetra dentro.
Da quell'esperienza nasce la riflessione
sul nostro limite, da lì
può sbocciare la fede,
una fede antropologica, altrettanto
naturale come la paura della morte.
L'aldilà è aperto
per chi trova il coraggio di completare
la sua "leggenda personale".
Ma quell'uomo che tende a divenire
attraverso la scienza la misura
del tutto ha lasciato da tempo
fuori la dimensione trascendente.
Accettare l'idea del mistero non
significa porre un limite alla
conoscenza, ma riappropriarsi
di un elemento centrale della
condizione umana.
D: Forse ci si abbandona
al mistero quando si dice che
si "accetta" la morte,
oppure semplicemente ci si rassegna
all'inevitabile?
R: No, l'accettazione è
quella che la Kübler Ross
chiamava acquiescienza, cioe "capisco
e accetto". L'accettazione
ha in sé un elemento di
posizione attiva, non ha niente
a che spartire con la passività
della rassegnazione. Quando si
arriva alla comprensione profonda
di quel processo, alla consapevolezza,
l'ammorbidimento e l'apertura
che ne risultano illuminano ciò
che è sempre stato lì:
mollare la presa, lasciare che
le cose siano così come
sono, passeggeri nel corpo. "Quanto
più vi aprite alla vita
tanto meno la morte diventa nemica.
Quando cominciate a usare la morte
come mezzo per concentrarvi sulla
vita, tutto diventa semplicemente
così com'è, un'occasione
straordinaria per essere vivi
davvero". Molte persone affermano
di non essere mai state tanto
vive come nel momento in cui hanno
preso coscienza della morte. Quando
hanno abbandonato i modelli per
scoprire cosa ci sia dentro, la
loro vita è diventata la
ricerca della verità.
D: Anche per questo, per
vivere il tempo del morire, come
recita il titolo di un vostro
convegno, è giusto che
il malato sappia la verità?
R: Se vuoi dare speranza
hai bisogno di dire la verità,
cioè di costruire un rapporto
dinamico, capace di rendere la
persona protagonista della sua
vita. E soprattutto si deve tener
conto di una cosa: non esistono
i morenti. Come dice Leon Schwartzenberg,
o siamo vivi o siamo morti, quindi
comportiamoci verso di noi e verso
gli altri come esseri viventi.
Si parlerà di morte dopo.
Anche qui però bisogna
stare attenti ai desideri delle
persone: il diritto di essere
informati non significa l'obbligo
ad essere informati. Dall'esterno
possiamo anche sostenere che,
quando sarà il momento,
vorremmo sapere la verità
e avere il diritto di scelta,
ma nessuno può dirci cosa
accadrà davvero. Secondo
alcune statistiche l'1% dei malati
non vuole essere informato. Però
i medici non tengono conto di
questo. La verità viene
detta da meno del 50% dei medici
di base, da metà dei medici
ospedalieri, da poco più
della metà degli oncologi.
Molti si affidano al fatto che
il paziente "lo sa da solo".
D: La mancata comunicazione
della verità genera altra
sofferenza?
R: In una tesi di laurea
è stato affrontato questo
delicatissimo problema. "Tutti
sanno di stare morendo, lo capiscono
da un'attenzione diversa, ma aspettano
che siano gli altri, medici o
famiglia, a comunicarglielo. Soprattutto
avrebbero piacere che questa comunicazione
venisse fatta da quelle persone
con le quali c'è un rapporto
fatto di qualcosa di più
di conoscenza, di affetto":
la non verità, quando le
persone sono coscienti di quello
che hanno, porta a un profondo
senso di isolamento. Questo comportamento
ti fa morire prima del tempo.
Una donna ha raccontato: "Non
era possibile che tutte le infermiere
che si occupavano di me fossero
sempre di buonumore. La stessa
cosa accadeva con la mia famiglia
e con i miei amici: ognuno cercava
di aiutarmi spiegandomi come fossi
splendida e coraggiosa. Anche
il mio uomo mi trattava in modo
diverso. Sicuramente la sua intenzione
era di proteggermi, ma io avrei
avuto tante cose da dirgli".
D: Nel non dire la verità,
nel non misurarsi con la persona
in modo totale, si nasconde evidentemente
la nostra paura della morte. Ma
questo vale anche per i medici?
R. E' certamente così.
Il comportamento dei medici in
questi casi estremi è riconducibile
a quattro modelli. Paternalistico:
predispone la terapia in modo
che il paziente riceva il trattamento
migliore. Informativo: il medico
si presenta come un tecnico esperto
che fornisce al paziente tutte
le informazioni necessarie affinché
egli possa scegliere. Interpretativo:
il medico è anche consigliere,
dice: "Io al limite potrei
consigliarle di fare...".
Deliberativo: il medico diventa
a tutti gli effetti un insegnante.
Poco tempo fa l'Ordine dei medici
ha abolito il giuramento di Ippocrate.
Ippocrate è considerato
troppo paternalista, così
il giuramento si farà seguendo
il nuovo codice deontologico.
Di conseguenza l'Ordine ha deciso
che non dobbiamo più avere
l'atteggiamento paternalistico
ma dobbiamo caricare la responsabilità
sul malato. Ancora una volta c'è
una questione di tempo. Abbiamo
messo in discussione Ippocrate
dopo qualche migliaio di anni,
e forse c'era bisogno di qualche
tappa intermedia. (Sempre per
quello che ci comanda l'Ordine,
non possiamo neppure chiamare
il malato "paziente",
perché siamo perseguibili:
lo chiamiamo "cittadino assistito").
Comunque questo "ex paziente",
ribattezzato "cittadino assistito",
ora deve prendersi il fardello
della sua responsabilità
e arrangiarsi. E il medico non
può più sfuggire
alla responsabilità di
mettersi in relazione con il malato
come una persona e quindi deve
cominciare a lavorare su se stesso,
a indagare le sue resistenze,
le sue angosce di morte. Il medico
deve occuparsi di introspezione
, autosservare obiettivamente
la propria esperienza, al fine
di crescere e capire meglio se
stesso. Deve lavorare sulla disponibilità
ad accettare e vivere i suoi sentimenti.
Deve finalmente arrivare all'accettazione
di sé, dei propri limiti.
Lavorare sulle nostre paure e
sulle nostre ansie per evitare
che si nascondano dietro il cosidetto
"distacco professionale",
o dietro alla fretta perché
abbiamo tante cose da fare. Quando
siamo di fronte alla cosa più
importante della vita, cioè
il morire, bisogna cercare di
non raccontarci troppe balle:
abbiamo paura e basta. Non c'è
niente di male, fa parte dell'essere
umano. A cosa serve nascondersi?
Diceva Hobbes: "Il compito
del medico è di guarire
raramente, alleviare sovente e
confortare sempre".
D: Quali sono gli errori
che i medici compiono più
spesso nel loro atteggiamento
verso il malato?
R: Ce ne sono alcuni davvero
deleteri. Tornerei alla Kübler
Ross per farmi capire meglio.
Lei ci ricorda che la prima reazione
del malato di fronte a una diagnosi
infausta è la negazione.
Non è un atteggiamento
necessariamente negativo perché
aiuta il paziente ad ammortizzare
l'impatto, deve prendere coscienza
del fatto che sta per morire,
che morirà in un tempo
breve. Il problema nasce quando
il medico si identifica con il
malato e cerca di rafforzarlo
nella negazione, come se potesse
allungargli la vita. In questa
fase il medico è ancora
dentro l'idea della medicina onnipotente,
per cui alla paura e al terrore
del malato risponde rassicurandolo:
lui sarà tra quelli che
ce la faranno. C'è poi
l'ultimo passaggio al quale ho
accennato prima, l'accettazione
"okay, ho capito, accetto".
E' comunque una risposta positiva,
è una vittoria perché
siamo cresciuti, abbiamo affrontato
la situazione. Ma il medico vive
l'accettazione come impotenza:
"Io tanto a questo punto
non posso fare più nulla,
scappo perché rifiuto l'idea
del morire". E così
il malato muore da solo. Sarebbe
così facile stare dietro
a quella persona ammalata che
ha vinto tutte le sue resistenze
e le sue paure, invece no. "Se
lui ha accettato, allora io cosa
faccio?" E così scopriamo
che non abbiamo tempo per andare
a vederlo in corsia, lo affidiamo
all'assistente di turno perché
non sappiamo cosa raccontargli,
e nel momento in cui dovrebbe
essere insieme a noi, che abbiamo
sempre condivido la sua storia,
non ci siamo.
D: I famigliari vengono
messi sovente sotto accusa, cosa
possono fare per partecipare al
processo della morte di un loro
caro?
R: Ci sono vari stadi anche
nel comportamento della famiglia:
se il malato è in casa
c'è una difficoltà
a gestire la tensione emotiva
e un senso di frustrazione nel
tentativo di comunicare con i
membri dell'équipe curante.
La seconda fase è di adattamento:
la famiglia è comunque
obbligata ad accettare il cambiamento
nei ruoli e nello stile di vita,
a cogliere i bisogni dei membri
sani, a saper vivere nell'incertezza.
Poi c'è la fase terminale,
la più importante perché
è necessario rispondere
ai bisogni di cura e aprire la
comunicazione sull'avvicinarsi
della morte. E' il momento più
difficile sul quale penso valga
l'esortazione della Kübler
Ross: "Se non siete capaci
di fare altro perché è
la prima volta che vivete quell'esperienza,
cioè se è la prima
volta che vedete una persona che
muore, datele una cosa che sicuramente
non sbagliate nel darli, l'amore.
E' già moltissimo soprattutto
in un mondo in cui non ce n'è
così tanto". E'
importante. Si potrebbe forse
dare anche qualcosa di più.
Poco tempo fa mi hanno regalato
"Il libro tibetano del vivere
e del morire", di Sogyal
Rimpoche. Ci sono due termini
che mi hanno fatto riflettere,
la compassio e la pietas. Loro
parlano di compassione, la nostra
bioetica di pietas. I tibetani
considerano la compassione più
nobile e più grande della
pietà. Pensano che la pietà
nasca dalla paura. La paura ,
entrando in contatto con il dolore
altrui diventa pietà. La
compassione, invece, nasce dall'amore;
a contatto con il dolore dell'altro
l'amore diventa compassione. In
realtà ho l'impressione
che il significato che loro danno
alla parola compassione sia uguale
a quello che noi diamo al termine
pietas. Compassione uguale comprensione,
interessamento per chi soffre,
calore per la persona, riconoscimento
dei suoi bisogni, determinazione
continua e pragmatica a fare ciò
che è possibile e necessario
per alleviare la sofferenza, considerare
se stessi uguali agli altri. Mettersi
al posto degli altri.