Anche in Italia una legge sugli hospice
Colloquio con Annette Welshman di Matilde Passa


Con una recente legge anche lo Stato italiano ha deciso di creare gli "hospice" luoghi dove le persone che stanno per morire possono essere assistite, non solo fisicamente ma soprattutto psicologicamente; dove lo smarrimento e le angosce dei parenti trovano lo spazio e le modalità per esprimersi; dove la morte non è più nascosta "dietro un paravento" ma vissuta come una delle esperienze più misteriose della vita. E' un progetto, quello governativo che ricalca analoghe esperienze sorte nei paesi anglosassoni e attorno al quale già da tempo, anche da noi, si è creata attesa e anche qualche iniziativa privata. Ma i problemi non sono soltanto finanziari. C'è in primo luogo una questione culturale, ovvero come modificare il rapporto con la morte così alterato nella società tecnologica. Ne parlano Maurizio Grandi, oncologo immunoepatologo, direttore del poliambulatorio torinese La Torre, e l'antropologo Antonio Guerci. Annette Elshman, responsabile per l'Italia della Fondazione Sue Ryder, racconta l'esperienza della sua équipe che da anni si occupa di assistenza ai malati terminali. Frank Ostaseski, che sarà in Italia dal 16 al 23 giugno, dirige lo Zen Hospice Project di San Francisco e offre una preziosa testimonianza di come il rapporto con le persone che si avviano a lasciare la vita possa essere di grande valore umano e aiutarci a coltivare la compassione. Franco Michelini Tocci, psicoanalista e docente di Storia delle religioni a Venezia ci conduce attraverso le trappole che l'io ci tende quando decidiamo di "dedicarci agli altri". Infine Beatrice Taboga del circolo Shanti e Donata Cevales, psiconcologa, spiegano le finalità del "gruppo di ascolto" che hanno appena fondato con lo scopo di sostenere i malati e le loro famiglie nel loro "ultimo viaggio". 

Colloquio con Annette Welshman, direttrice della Sue Ryder Foundation
di Matilde Passa

C'è fermento nella sede della Fondazione Sue Ryder a Roma. Nelle stanze stipate di carte, scatoloni, medicinali e quant'altro gli operatori sanitari sono in riunione collegiale: verificano il lavoro svolto assistendo i pazienti che si avviano alla morte. Forniscono alla Asl B l'assistenza domiciliare a quei malati che hanno deciso di ricorrere alle cure palliative. Ma i problemi sono tanti: i parenti pretendono cure di sostegno molto forti, invocano l'accanimento terapeutico, da un lato. Dall'altro hanno paura di perdere l'appoggio di queste persone che offrono ai loro cari la possibilità di andarsene serenamente, nella propria casa, con dolcezza. Sono quasi tutti giovani, le infermiere, gli infermieri e i medici che costituiscono l'équipe guidata dall'instancabile Annette Welshman, responsabile per l'Italia e l'Albania della Fondazione Sue Ryder, un'associazione che da anni si impegna perché la morte ritorni ad essere vissuta certo con dolore, ma anche con accettazione, come un evento che fa parte a pieno titolo dell'esperienza umana. Sono loro, gli inglesi, che hanno inventato l'hospice, luoghi dove il paziente viene accompagnato alla morte. Ora anche in Italia, grazie a un decreto che è stato da poco convertito in legge, nasceranno questi specialissimi luoghi.
Annette Welshman è molto felice della notizia.
"Finalmente abbiamo una legge che ci consente di partire per creare gli hospice pubblici. Fino ad ora erano sorte sporadicamente iniziative private, ma non esistevano a livello nazionale neppure le normative che dettassero gli standard architettonici e le modalità di lavoro. Ora tutto questo esiste".
Welshman è consulente estera del ministero della Sanità e conferma che gli standard sono stati ricalcati su quelli anglosassoni. Con il decreto si finanzia non solo la nascita degli hospice, ma anche l'assistenza domiciliare ai malati terminali. Una scelta che Welshman approva in pieno. "Quasi tutti preferiscono morire nel proprio letto. Ma questo non sempre è possibile, perché molte persone sono sole, oppure perché sono talmente ammalate che l'assistenza in casa è improponibile".
Che lasciare il mondo circondati dai propri oggetti e dai propri cari sia il desiderio di quasi tutti, lo conferma la pioggia di richieste che l'équipe, coordinata da Welshman, ha ricevuto quest'ultimo anno: "Man mano che le famiglie vedevano come lavoravamo, come cambiava il rapporto col malato, abbiamo avuto 390 richieste di assistenza. Siamo riusciti ad assisterne 200 nel 1998. L'altra metà è andata a morire chissà dove. Noi non possiamo seguire più di 30 persone al giorno. Ci vorrebbe un'altra équipe, stiamo cercando di raddoppiare il personale con l'aiuto dell'azienda sanitaria, anche perché abbiamo altre richieste da parte di numerose Asl romane. La casa madre ci finanzia, in parte, inviandoci circa 17.000 sterline al mese, mentre l'Asl copre il 40% delle spese. Ma è evidente che un impegno del genere dovrebbe essere sostenuto in toto dalla struttura pubblica".
Non ama l'intervento dei privati. "Una morte dignitosa è un diritto di ogni cittadino ed è per quello che lo Stato si deve impegnare. Finanziare strutture private per regalare ai ricchi una morte a cinque stelle non è cosa che debba riguardare il servizio pubblico, perché sono i poveracci come quelli che assistiamo noi che finiscono negli hospice, non i ricchi".
Se è nata la legge per gli hospice ora si pone il problema della formazione. "E' previsto un corso di aggiornamento per medici, infermieri, fisioterapisti perché chiunque voglia lavorare in un hospice deve seguire un corso di formazione. Come gli operatori che lavorano con noi. Il curriculum è stato preparato in commissione. E' stato un duro lavoro perché deve rispondere anche alle normative Cee. Il dramma è quando si arriva alla conferenza Stato Regioni, quando ti confronti con i sindacati. Spesso ti trovi di fronte sindacalisti che non sanno letteralmente cosa stanno dicendo e mettono i bastoni tra le ruote. E' sempre successo così. Inoltre bisogna raccordarsi con l'Università e questo non è facile. Io tengo un corso avanzato per dirigenti infermieri al Gemelli, e insegno Etica, comunicazione della diagnosi infausta alla Sapienza".
Ma cosa sono realmente le cure palliative e chi ne può, e ne deve, usufruire? "La parola viene da "pallio", palliazione del sintomo. Ci si trova in questo stato quando la malattia terminale va avanti per conto proprio e non ci si può più fare nulla. Un malato terminale è una persona che ha avuto una diagnosi infausta, a rapida evoluzione, dove non è prevista la sopravvivenza. Quindi i malati cronici non rientrano in questa categoria. La misurazione del grado di autosufficienza del paziente si fa in base alla scala Karnowski, una scala internazionale che va da 0 a 100. Una persona che ha un Karnowski sotto il 50 è una persona che non passa più del 30% del tempo fuori dal letto, che ha bisogno di essere lavata, assistita e necessita di cure mediche importanti. In ogni caso è il malato che deve fare la richiesta, o almeno i suoi famigliari. Le cure hanno lo scopo di garantire al paziente una qualità della vita più alta possibile. Nessun accanimento terapeutico, dunque, che alle nostre unità è vietato per legge".
Parlare di morte nell'ambiente sanitario è molto arduo, eppure dopo le iniziali diffidenze, racconta Welshman, le cose sono profondamente cambiate. "Gli infermieri sono i più disponibili perché sono più a contatto con le sofferenze dei pazienti terminali. Molto aperti a questo discorso sono i vecchi medici di famiglia e i giovani. I più ostici sono gli esponenti della generazione di mezzo, coloro che più di tutti hanno creduto nell'onnipotenza della medicina". E proprio un lavoro da infermiera in sala di rianimazione fu quello che Welshman abbandonò ormai 15 fa anni per dedicarsi a questa umanissima attività. "E' molto duro lavorare in rianimazione, in qualsiasi parte del mondo. Mi ha sempre esasperato la freddezza verso il malato, il fatto che ai parenti fosse impedito di entrare, di stargli vicino. Con il paziente non c'era nessuna comunicazione verbale, nessun contatto umano.
Noi parliamo sempre con i nostri malati, anche se sono assenti o soporosi. In rianimazione no, solo freddezza e macchinari e accanimento terapeutico. E non ho più potuto sopportare il fatto che chi deve vivere ha tutta l'assistenza, chi deve morire è abbandonato a se stesso".
L'impegno di Annette non si limita all'Italia. Proprio il giorno dopo il nostro colloquio sarebbe partita per l'Albania. A Durazzo e a Tirana la fondazione ha creato due servizi di assistenza che si occupano di circa 300 persone. "La situazione è tragica. Nelle scuole superiori il 60% dei ragazzi è tossicodipendente, l'emergenza Aids è enorme. Terrò un corso di formazione in cure palliative nell'ambito di un contratto con l'Unione Europea".
Il livello culturale incide nell'accettare della morte? "La morte fa paura a tutti i livelli. Non ne hanno paura le persone anziane perché ricordano ancora il vissuto di morte nelle loro case giovanili. Non ne hanno paura i bambini, sono gli adulti che non riescono ad accettarla, anche perché la medicina ha compiuti tali passi avanti negli ultimi 40 anni da dare l'illusione che ci fosse un rimedio per tutto. Il livello culturale, invece, entra in gioco quando parliamo di assistenza domiciliare e di cure palliative. Nei settori meno colti c'è quell'atteggiamento che pretende tutto dallo Stato, tipo mi devi dare quello che ti chiedo altrimenti ti denuncio. E non credono che il paziente non possa essere curato e salvato perché credono ancora ai miracoli della medicina".