INTERVISTA CON ALAN SENAUKE
Alan è da 8 anni direttore
della Buddhist Peace Fellowship
(BPF); è stato ordinato
monaco nella tradizione Soto Zen
e segue l'insegnamento di Sojun
Mel Weitsman, che è stato
allievo diretto di Shunryu Suzuki
(l'autore di Mente Zen mente di
principiante). E' padre di due
bambini e qualche volta - dopo
un passato come musicista folk
- torna a suonare.
Elisabeth Manning lo ha incontrato
lo scorso dicembre a Roma dove
era stato invitato a partecipare
a un incontro promosso dalla Banca
Mondiale (!) insieme ad altri
esponenti di varie tradizioni
religiose.
D:
Alan, la famiglia, il centro Zen,
il lavoro nel network forse più
importante in occidente di quello
che ormai viene definito 'buddhismo
impegnato'... come è iniziata?
Non ti senti a volte un po' diviso
tra tutte queste attività?
R: No, non sento nessuna
separazione: sono tutti interessi
nati e cresciuti insieme e che
mi hanno accompagnato lungo tutta
la mia vita.
Quando iniziai a leggere la poesia
buddhista cinese e giapponese
e la poesia beat dei primi anni
'60 ero già impegnato nel
Movimento per i diritti civili
e nel Movimento per la messa al
bando della bomba atomica. Forse
sarò anche un po' abitudinario,
ma in 35 anni non ho cambiato
interessi!
Non ho mai sentito nessun senso
di divisione e uno degli aspetti
che secondo me era alla base e
che mi attirava nella letteratura
che leggevo era la grande attenzione
rivolta alla vita di tutti i giorni,
al suo valore e alla sua trascendenza.
C' era qualcosa di veramente luminoso
e istruttivo che veniva colto
nella semplice vita di tutti i
giorni.
L'altra dimensione della mia storia
che deriva dalla stessa fonte
è la musica, la musica
folk che suono. Si tratta anche
in questo caso di una musica molto
semplice, prodotta soprattutto
da gente povera. E' una musica
che mi ha sempre affascinato;
il che è abbastanza interessante
se si considerano le mie origini:
provengo infatti da una famiglia
europea ebrea.
Come mai sono attratto dalla musica
del sud degli Stati Uniti e da
una religione che viene dall'Asia?
Non sono nel mio sangue, ma certamente
da qualche altra parte dentro
di me. E' una delle cose straordinarie
della natura umana: a volte le
persone semplicemente rispondono.
Capita di vedere o ascoltare qualcosa
e qualcosa di molto profondo dentro
di noi, di cui fino a quel momento
non avevamo la minima idea, viene
toccato. Penso di essere stato
abbastanza fortunato da questo
punto di vista
Appena iniziai a praticare seriamente
lo Zen, nei primi anni '80, nel
Centro Zen di Berkeley, venni
a sapere della Buddhist Peace
Fellowship (BPF) e vi aderii.
Pur non essendo molto attivo,
mi associai comunque e la cosa
era del tutto naturale per me;
non ho mai pensato: "Oh,
questa cosa è interessante"
oppure "Ecco qualcosa di
strano, il buddhismo impegnato".
Solo in seguito ho scoperto che,
invece, c'era chi riteneva che
si trattasse di una forma di buddhismo
distorto o non autentico. Forse
il mio atteggiamento allora nasceva
anche dal fatto non sapevo molto
di buddhismo, il che ha i suoi
vantaggi. Sapevo invece quello
che c'era dentro di me.
D: Hai detto che la pratica
buddhista per te è diventata
molto importante negli anni '80,
ma non avevi avuto delle esperienze
già molti anni prima?
R: È vero, con un
gruppo di amici all'università,
alla fine degli anni '60, ci eravamo
molto interessati allo Zen e nell'estate
del '68, ossia dopo che tutti
noi eravamo stati arrestati alla
Colombia University, facemmo un
viaggio in California e trovammo
che c'erano dei centri per la
pratica Zen dove si poteva meditare,
lo Zen Center di San Francisco,
quello di Berkeley, e lì
abbiamo cominciato a sedere. Tornammo
a New York pieni di energia e
di buone intenzioni. Con la mia
compagna iniziammo a prendere
lezioni di giapponese, ma lungo
la strada persi l'ispirazione.
Mi trovavo all'ultimo anno di
Università e sentivo avvicinarsi
il momento in cui mi sarei chiesto:
"E ora che farò della
mia vita?"
Mi trovavo in una specie di crisi
e non ero pronto a praticare,
avevo troppe paure e così
ho messo il buddhismo da parte,
ma senza rifiutarlo completamente.
Non ho mai pensato che non facesse
per me, ma semplicemente che in
quel momento non ero in frado
di praticare. E quando poi è
arrivato il momento di farlo,
io ero pronto: non c'era nessuna
eredità negativa da rimuovere
e - per una di quelle strane coincidenze
- in quel periodo mi ero di nuovo
trasferito in California. Finita
l'università ero già
andato in California negli anni
'70 e poi ero tornato sulla costa
est e negli anni '80 ancora in
California, dove da allora vivo
. Ed è stato così
che mi sono ritrovato a praticare
con alcune delle stesse persone
con cui mi ero seduto la prima
volta e uno di loro adesso insegnava.
"Si vede che era destino!"
pensai. Sono 13 anni che vivo
nello Zen Center di Berkeley ed
è qui che la mia famiglia
è cresciuta.
D: Vogliamo tornare alla
tua prima adesione alla BPF? E
ora come fai a trovare un equilibrio
tra i tuoi molteplici impegni?
R: Nei primi anni di pratica
non c'era equilibrio: continuavo
a informarmi su che cosa succedeva
nel mondo, andavo ogni tanto a
qualche manifestazione, ma non
mi consideravo affatto un attivista
buddhista. Sapevo dove erano le
mie simpatie, ma mi sembrava importante
creare una buona base per la pratica
e così mi sono dedicato
a questo.
Solo nel '91, con la Guerra del
Golfo, la situazione è
cambiata. Lavoravo per un'agenzia
di viaggi che operava in tutto
il mondo, ma con la guerra la
gente non partiva più,
gli americani non prendevano più
gli aerei e così un terzo
del personale dell'agenzia perse
il lavoro ed io ero tra loro.
Proprio in quel periodo mi era
appena nato un figlio e avevo
un disperato bisogno di lavorare.
Gli amici mi sollecitavano a fare
la domanda per questo incarico
alla BPF; ci pensai su, avevo
delle perplessità ma poi
andai a parlarne e mi convinsi
che, invece, quello sarebbe stato
per me un ottimo lavoro e così
feci la domanda.
Credo che da quando ho assunto
questo incarico sono sorte diverse
tensioni, in particolare tra l'attivismo,
il mantenere una pratica regolare,
e mantenere anche una presenza
regolare al Centro. La tensione
tra l'avere un lavoro più
che a tempo pieno ed essere allo
stesso tempo un padre. E poi c'è
un ulteriore tensione proprio
nel mio lavoro tra quella che
potrei chiamare la parte amministrativa
e l'attivismo. Ho dovuto accettare
il fatto che in gran parte il
mio lavoro consiste nel rendere
possibile ad altri di essere attivi.
Cioè io lavoro per creare
strutture, pianificarle, mantenere
i rapporti con gli altri, scrivere,
organizzare iniziative in cui
altri si impegneranno in prima
persona.
Ad esempio, negli ultimi tre anni
abbiamo fatto molto lavoro nelle
prigioni, ma non sono io a farlo
in prima persona, non ho il tempo
per andare una o due volte la
settimana in prigione. Lo stesso
succede con i senza casa. Sono
profondamente impegnato a creare
le strutture per permettere ad
altre persone di lavorare con
loro. A volte è piuttosto
frustrante: mi chiedo se non sono
fuori dal mondo, le conosco davvero
io queste esperienze? In altri
momenti mi sforzo di accettare
che è questo il mio lavoro,
a qualcuno tocca pure farlo e
così devo dedicarmi a esso.
D: Prima di assumere la
responsabilità di organizzare
gli altri, c'è stato un
periodo in cui hai lavorato in
prima persona, ad esempio, con
i senza casa?
R: Non molto. Ho fatto
un'esperienza di lavoro con la
gente e nella sinistra durante
tutti gli anni '60, fino ai primi
anni '70, e ne ero davvero contento.
Quando poi sono tornato in California,
in quegli anni non c'erano ancora
molti senza casa. Oggi crescono
continuamente, ma 15-20 anni fa
era diverso.
Il divario tra ricchi e poveri
ormai negli Stati Uniti aumenta
sempre di più. Non ho dunque
molta esperienza in questo campo
e sono pochissimi coloro che hanno
esperienza nell'insegnare la meditazione
nelle carceri. Sono stato in corrispondenza
con alcuni, mi sono impegnato
nelle carceri, ho incontrato persone
con grande esperienza, ma non
sono mai entrato in una prigione
tranne quando venni arrestato.
Ma non ho paura di non fare un
buon lavoro per questo motivo.
Come monaco Zen, uno dei miei
compiti consiste nel sedere vicino
ai morenti e all'inizio pensavo:
"Bene, questo è il
mio compito, questa persona ha
bisogno e quindi ci andrò".
Ma poi sedendo e provando un profondo
senso di responsabilità
mi dicevo: "E' meglio che
resti presente". Sentivo
quella dimensione della vita che
è oltre la nostra comprensione,
il passaggio della nascita e quello
della morte. Ci sono misteri e
miracoli.
Allo stesso tempo, tutti coloro
che si trovano in punto di morte
o chi siede con loro, sono tutti
legati ai bisogni del corpo.
Oggi sono andato a visitare la
Cappella Sistina e avevo noleggiato
un walkman: non forniva molte
spiegazioni dettagliate come avrei
voluto, ma la voce della guida
diceva che il Giudizio Universale
è fisicità, l'incarnazione
di tutte le figure, Dio compreso,
e che Michelangelo stesso vedeva
nel corpo l'espressione del divino.
Ma non vorrei dilungarmi troppo
con la trascendenza. Le persone
che incontro hanno corpi, hanno
bisogni e tutti abbiamo questo
tipo di base materiale. Se siamo
in grado di realizzarlo, allora
vedremo noi stessi nell'altro
e l'altro in noi stessi.
Non voglio dire che non ci siano
situazioni che mi intimidiscono,
ma ho la tendenza a non esitare
e ad entrarvi dentro. Ho sempre
così tanto da imparare.
Penso che dovrei entrare in ogni
situazione, sapendo quanto non
conosco; permettendomi di guardare,
imparare e capire che cosa sta
succedendo piuttosto che pensare
di sapere che cosa sta succedendo.
D: Che tipo di preparazioni
suggerisci a chi vuole impegnarsi
in questo tipo di attività,
ad esempio nelle prigioni? Organizzi
dei corsi specifici o ritieni
che sia sufficiente avere una
buona pratica alle spalle e che
questo di per sé permetta
di affrontare ogni nuova situazione,
senza nessuna specifica preparazione?
R: Per quanto riguarda
il lavoro nelle carceri, credo
che sia proprio necessaria una
preparazione. E' ormai un anno
che nella BPF ci stiamo lavorando
e ora abbiamo un programma e un
comitato specifico per questo
problema. Abbiamo cercato di definire
i contorni del lavoro e uno degli
aspetti del nuovo programma sarà
costituito proprio da un training
specifico. Anche ora abbiamo una
specie di tirocinio improvvisato
per coloro che vogliono iniziare
questa attività. Li facciamo
incontrare con chi ha già
esperienza; vogliamo però
dare vita a qualcosa di più
organizzato, che sia esportabile
anche ad altri. Stiamo lavorando
insieme a molti volontari buddhisti
e ad altri che hanno molta esperienza
nel settore perché si tratta
di una situazione esplosiva.
Ci sono rischi per tutti, per
i detenuti e per i volontari,
e nessuno dovrebbe andarci con
atteggiamento idealistico o romantico.
Coloro che vogliono lavorare sul
carcere devono essere in grado
di riconoscere l'umanità
nella sua espressione di base,
con i suoi aspetti positivi e
negativi e hanno bisogno di conoscere
i propri limiti per sapere che
cosa stanno facendo e chi sono.
Credo che sia un lavoro molto
naturale, ma che diventa una sfida
per un praticante buddhista. Non
è come entrare nell'aula
di meditazione. Se le cose sono
fatte bene, allora l'aula diventa
un posto molto sicuro; ma si può
fare tutto molto bene e il carcere
non diventa per questo necessariamente
un posto sicuro. Come fare allora
a creare mutuo rispetto e sicurezza
in un tale contesto? Ecco, è
a partire da queste considerazioni
che stiamo lavorando a un programma
di formazione.
D: Alla fine di un ritiro
a cui avevo partecipato negli
USA, ho visto una donna nera che
discuteva con un'altra donna sulla
questione del razzismo presente
nei vari gruppi buddhisti e nei
sangha. Quante persone di colore
praticano la meditazione?
R: E' un problema di grande
attualità. Proprio lo scorso
mese abbiamo organizzato a Berkeley
un incontro dal titolo: "Guarire
i sangha dal razzismo" e
più o meno erano presenti
circa cento persone, per la metà
gente di colore, di diverse tradizioni:
Zen, vipassana, buddhismo tibetano,
di origine afro-americana, sud
americana, asiatica, con diverse
situazioni di origine alle spalle,
e questo era solo l'inizio. Abbiamo
trascorso un giorno solo insieme,
soprattutto ad ascoltare. Sempre
a Berkeley abbiamo fatto anche
un seminario di due giorni sul
tema: "Disimparare il razzismo"
e anche in altri centri sono nate
iniziative analoghe.
Credo che il problema sia come
creare situazioni in cui la gente
di colore possa sentirsi a proprio
agio, dove siano visti e benvenuti
e dove possano anch'essi portare
il loro contributo. A questo punto
sorge una dinamica interessante:
come facciamo a incorporare gli
input di altre culture e le persone
che potrebbero portare elementi
diversi alla pratica? Siamo solo
all'inizio per dare una risposta.
In America, il buddhismo comprende
diverse componenti e la più
numerosa di gran lunga, anche
se la meno visibile agli occhi
dei media, è la comunità
buddhista asiatica. E' enorme,
e tutti i diversi buddhismi che
conosciamo vengono dall'Asia.
I nostri insegnanti e i loro insegnanti
vengono dal Giappone, dal Tibet,
dall'India, dalla Birmania, dalla
Thailandia o dal Vietnam e di
solito tendiamo a scordarcene.
C'è una forma di sciovinismo
bianco che penetra dovunque nella
nostra cultura comprese le relazioni
tra buddhisti asiatici e buddhisti
'importati' e non uso questo termine
in senso dispregiativo perché
anch'io sono uno di loro.
La gente di colore non si sente
bene accolta e a proprio agio
nei sangha, ma speriamo che la
situazione cambi presto, conosco
persone in entrambi i gruppi che
sono davvero impegnate a far sì
che cadano queste barriere. Il
Dharma deve essere accessibile
a tutti, il che non vuol dire
che tutti devono praticarlo abbandonando
le tradizioni di origine, semplicemente
deve essere disponibile per chiunque
lo desideri.
D: Chi sono i membri della
BPF negli Stati Uniti e nel mondo?
Che relazioni ci sono tra le diverse
tradizioni rispetto al lavoro
sociale?
R: In America partecipano
buddhisti di tutte le tradizioni,
forse i praticanti di Zen e vipassana
sono un po' più numerosi
dei tibetani, ma anche loro sono
molti. Molti dei membri della
BPF praticano regolarmente in
un modo o nell'altro in una comunità,
ma c'è anche chi non lo
fa. Non posso essere più
preciso perché non abbiamo
mai fatto un questionario e perciò
questa mia risposta è frutto
solo delle mie impressioni. Sarebbe
certamente interessante esplorare
che relazione i nostri associati
hanno con la pratica, a quali
stili e comunità sono collegati
e anche avere dei dati di tipo
più demografico: età,
condizione sociale, razza... Un
dato senz'altro importante è
che il numero delle adesioni comincia
a crescere anche negli altri stati
e non solo sulle due coste. Molti
membri sono poi in altri paesi,
anche se non ci siamo mai impegnati
in questa direzione, però
numerosi sono le relazioni e i
rapporti.
Personalmente faccio parte della
segreteria dell'INEB (International
Network of Engaged Buddhists)
e questo è un altro legame
molto importante sia verso l'Asia
che l'Europa, al di là
di ogni adesione formale alla
BPF. Certo, sarebbe molto bello
se ci fossero nuove adesioni e
io invito ciascuno ad aderire
e a sottoscrivere l'abbonamento
al nostro periodico "Turning
Wheel".
Secondo me, però, la cosa
più importante è
riuscire a trovare un modo per
lavorare nel mondo. Certo, un'organizzazione
come la BPF o altre che sostengono
questo genere di lavoro sono molto
utili, aiutano le persone a farlo.
Ma, ripeto, ciò che conta
secondo me è fare il lavoro
e, allora, non mi interessa poi
molto quale organizzazione ne
ricavi i meriti o ci metta sopra
la sua etichetta. Tutti i meriti
vanno a chi porta avanti il lavoro.
Ma, come sapete anche voi della
Rete di Indra, c'è una
tensione che nasce dal fatto che
abbiamo bisogno di adesioni perché
rappresentano la nostra base economica
ed è solo in questo modo
che riusciamo a crescere, ma non
siamo un centro di pratica in
senso stretto, anche se per alcuni
la BPF rappresenta la loro pratica.
Ci stiamo orientando sempre più
verso l'esplorazione di altri
modelli di comunità perché
abbiamo visto che questo è
il bisogno e non tutti sono in
una comunità. Siamo profondamente
convinti sul valore della comunità
e, ad esempio, la BPF ha avviato
un programma che permette a circa
dodici praticanti di vivere sei
mesi insieme svolgendo diverse
attività sociali nell'area
di San Francisco. Il programma
prevede anche come fondamentali
i momenti di pratica in comune
e periodi di ritiro. Ma è
questo il modello oppure gruppi
formati da membri della BPF? Stiamo
cercando di creare delle strutture
alternative che siano diverse
dai sangha tradizionali. Ma è
ancora tutto nuovo.
La Buddhist Peace Fellowship
è stata fondata nel
1978 per portare una prospettiva
buddhista nel movimento
per la pace e per portare
il movimento per la pace
nella comunità buddhista
Pubblica il trimestrale
"Turning Wheel".
Membri del Consiglio Internazionale
sono: Robert Aitken, A.T.Ariyaratne,
V.B. Dharmawara, Christina
Feldman, Maha Ghosananda,
Ane Pema Chödrön,
Lodi Gyari, Mamoru Kato,
Joanna Macy, Thich Nhat
Hanh, Sulak Sivaraksa, Gary
Snyder, Christopher Titmuss.
|