Perché una scelta nonviolenta

di Roberto Silvi


In Italia il dibattito sulla nonviolenza si è esteso a macchia d'olio, da quando il movimento antiglobalizzazione sembra averne fatto il suo strumento di battaglia. E questo è avvenuto in maniera tanto più naturale quanto più profondo e lacerante è stato, negli anni settanta il confronto sull'uso della violenza.
A parte la maldestraggine dei vari goffi tentativi di farne una bandiera da parte degli improvvisati o radicati leader del movimento, quali Agnoletto o Casarini, il movimento, nella sua maggioranza, mi sembra decisamente orientato sull'uso di una nonviolenza attiva, non soggiogata alle regole del gioco e tutta tesa a imporre dei reali cambiamenti di rotta. Sulle gesticolazioni 'mitopoietiche' delle tute bianche, già è stato detto molto, per un verso, dal mio amico Oreste Scalzone e, in maniera precisa e come sempre pertinente, in un altro senso da Adriano Sofri nella polemica che lo ha visto confrontato a Casarini.
Quindi, messe da parte queste critiche che già sono state espresse sicuramente meglio di quanto possa fare io, mi interesserebbe dare il mio contributo a quanto si discute oggi proprio all'interno dei centri sociali o nei luoghi di associazione dove si vuole ancora 'cambiare la società', dove ancora le patenti disuguaglianze sociali sono vissute come ingiustizie, dove lo sviluppo basato sulla sola logica del profitto è visto con sospetto e se ne discutono le conseguenze negative sull'equilibrio ecologico mondiale, sui rapporti umani, sull'impoverimento crescente di ampie zone del pianeta e sulla mancanza di assistenza sanitaria nelle regioni più povere del mondo, dove ancora si discute di quali strumenti utilizzare per arrivare a cambiare tutto questo.
Io sono stato implicato nei movimenti della lotta armata degli anni '70 in Italia e ho collezionato anch'io i miei bravi anni di condanna per banda armata, quindi non vorrei che questa mia filippica a favore della nonviolenza e della disobbedienza civile fosse presa in maniera distorta. Già sento le orecchie fischiarmi per i commenti del tipo: "ci mancava solo lui, che diritto ha di parlare… ci poteva pensare prima… chissà che interessi ha… forse si vuole rifare una verginità."
Di verginità tardiva non ne ho bisogno, anche perché diffido di chi pensa di aver avuto sempre ragione. Di interessi personali non ne ho, visto che la mia pena me la sono scontata tutta senza chiedere niente a nessuno né rinnegare niente, e inoltre non ho mai brigato nei sottoboschi politici. Inoltre credo che nessuno più di chi abbia sparato possa sapere quanto può essere inutile, se non controproducente la sua azione.
Ho letto su Lo straniero (www.lostraniero.net) l'articolo recentemente pubblicato di George Lakey: La spada che guarisce: una difesa della nonviolenza attiva. Vi ho trovato un interesse particolare perché l'autore, uno statunitense impegnato da più di vent'anni nelle lotte nonviolente nel suo paese, pone subito in evidenza tre caratteristiche della nonviolenza così come la intende lui:

1 - il carattere attivo e non passivo di accettazione del presente
2 - il suo carattere pragmatico e tattico
3 - la forza di prefigurazione che una tale azione può avere.

Ecco, su questi tre punti credo ci possa essere l'adesione più ampia per un'accettazione laica della pratica nonviolenta. È difficile pensare che una pratica nonviolenta sia avulsa da una scelta anche morale, da un riconoscimento dell'altro: "La nonviolenza - ha fatto notare Antonio Vigliante, parlando in un convegno del pensiero e dell'azione di Aldo Capitini - è una rivoluzione per tutti, che, come ogni rivoluzione, deve combattere contro alcuni, ma lo fa avendo costantemente presente il loro stesso bene. La premura per l'avversario è l'essenza della prassi rivoluzionaria nonviolenta, che la distingue da ogni altra concezione rivoluzionaria".
Anche se al suo posto scegliamo il termine di disobbedienza civile, impiegato dal poeta e saggista H. D. Thoreau, alla fine del XIX secolo, e già ampiamente usato dalle tute bianche per identificare la loro pratica, secondo me, l'implicazione etica della scelta nonviolenta resta un punto cruciale con il quale è necessario misurarsi, perché non resti un non detto, un rimosso, che tuttavia è presente in ogni scelta.
Nell'intervento di Lakey, tuttavia, non c'è nessun accenno al valore etico di questa scelta, ma solo a quello tattico e alla redditività che queste azioni hanno rispetto alle scelte violente. Quindi può costituire una base di confronto anche per coloro che delle scelte etiche non vogliono sentir parlare.
Per uno come me che ha creduto che la realizzazione del comunismo avrebbe portato al cambiamento della società e che lo scontro violento con la borghesia, con l'apparato militare dello stato, fosse inevitabile, e ci si doveva preparare per poter vincere questo scontro, accettare questi argomenti può essere difficile, ma uno sguardo attento sulle esperienze del passato non può che portare alle conclusioni di G. Lakey.
La sua analisi è, infatti, molto convincente, e risulta chiaro quanto le mobilitazioni non violente per ottenere degli obiettivi di cambiamento fino al rovesciamento nel loro insieme di imperi che sembravano incrollabili, come l'Iran dello Scià di Persia o l'India inglese dei tempi di Ghandi, siano state più efficaci di tante mobilitazioni di guerriglia guerreggiata.
Restando all'esperienza italiana degli anni '70, mi sembra che serenamente possiamo dire che le maggiori conquiste, sul piano dei diritti civili e direttamente operai, siano state ottenute proprio in quel periodo e con i peggiori governi democristiani, Rumor, Fanfani, Andreotti, etc… Non è stata la 'presa del potere rivoluzionario' che ha garantito l'approvazione dello statuto dei lavoratori, degli aumenti salariali, delle leggi sull'aborto e il divorzio, dell'apertura dei manicomi o delle riforme delle carceri e della scuola, ma una formidabile mobilitazione di tutto il paese, a partire dalle fabbriche che hanno portato i livelli di profitto a zero fino a far temere ai padroni per la tenuta del loro stesso potere. È stata quella eccezionale stagione di lotte a trasformare fin dentro il suo DNA il tessuto sociale dell'intero paese. In questo clima si è inserita l'illusione di poter rovesciare completamente il sistema, con la forza delle armi, dando corpo a teorie che solo in pochi casi, e non sempre in modo perfetto, hanno raggiunto risultati concreti (vedi Cuba), oppure facendo ricorso a schemi teorici riguardo allo scontro delle classi ancora ottocentesche.
È possibile oggi pensare di avere l'esercito che si schiera con le lotte operaie come ai tempi della Comune di Parigi, dove fu la Guardia Nazionale che condusse la rivolta, oggi che gli Stati si dotano esclusivamente di eserciti professionali? Possiamo ancora pensare al capovolgimento delle guerre imperialiste in guerre di classe come nell'ottobre russo del 1917? Credo di no, ma è inseguendo questi miti uniti all'esempio delle lotte in centro e sud america, che alcuni di noi hanno preso le armi.
Già negli anni '70 il dibattito era molto avanzato sul fatto che non si trattava tanto di conquistare il 'potere', le strutture di comando, lo stato, ma di dar vita a quel 'movimento che distrugge e supera lo stato di cose presenti' che è il comunismo. Già allora si metteva l'accento sul fatto che l'importante è attivare un movimento perenne nella società, che sappia partire dai propri bisogni e sappia battersi per trasformarli in diritti riconosciuti, e, laddove è necessario, anche per vie legislative. La forma dello stato che li riconosce è relativamente importante perché la sua natura sarà modificata dalla forza stessa dei movimenti.
A questo punto però ritorna la questione sul come raggiungere questi obbiettivi, e secondo me, almeno dal punto di vista puramente tattico, 'pragmatico', bisognerebbe ammettere che quanto affermato da G. Lakey costituisce il minimo fattore comune su cui convergere, e sposare, così, la nonviolenza come strumento di lotta. Personalmente vorrei tuttavia sottolineare l'importanza del terzo punto che ho individuato nelle argomentazioni di G. Lakey e cioè la forza di prefigurazione che la lotta nonviolenta contiene in sé ed è capace di manifestare.
La pratica stessa di mezzi di lotta nonviolenta, dallo sciopero del lavoro a quello della fame, dalle occupazioni di case alle manifestazioni, dai sit-in alle marce dimostrative per la pace, etc…, può e deve risultare una denuncia di un mondo che soprattutto nel secolo scorso ha raggiunto livelli di ferocia inimmaginabili, tanto da rendere impossibile citare le atrocità avvenute senza incorrere nell'errore di dimenticarne la maggioranza. Voglio, tuttavia elencarne velocemente qualcuna delle più conosciute per evocarne l'orrore: i massacri delle due guerre mondiali con milioni di morti, il genocidio della Shoa, le bombe su Hiroshima e Nakasaki, i processi staliniani, i 30.000 morti causati dal colpo di stato in Argentina, quelli del Cile, in Rwanda, nel Kurdistan, le atrocità delle guerre in Yugoslavia, l'inestricabile e pazzesco conflitto mediorentiale, fino ad arrivare alla inaugurazione del nuovo millennio con la spettacolarizzazione dell'orrore con gli attentati in diretta a New York contro le Twin Towers.
Di fronte a quest'ultima manifestazione della violenza, ad esempio, è difficile sottrarsi alla pulsione immediata di solidarizzare con chi viene colpito in maniera così cieca. Come giustificare una strage così freddamente architettata per distruggere quante più vite umane possibili unicamente perché americane? Solo una mente guidata dal più feroce razzismo, ammantato di follia religiosa, può immaginare una cosa simile. Viene naturale allora pensare che una reazione è legittima, auspicabile, e che sia completamente fuori luogo una posizione invitante a volgere l'altra guancia. Solo che a reagire in questo caso è lo stato più potente del mondo, lo stato che ha fatto di tutto per raggiungere la posizione di leader mondiale dei sistemi capitalistici, non arretrando di fronte a nulla e rendendosi colpevole delle peggiori nefandezze, in nome della difesa della democrazia.
Anche se finora è giusto riconoscere che in due mesi di guerra e di combattimento, a quanto si sa, gli USA hanno fatto un numero di vittime largamente inferiore a quello fatto in un solo giorno da Bin Laden, assistiamo comunque a una lotta per la supremazia in uno scontro che passa sopra le nostre teste per interessi che è perfino difficile individuare sotto le ideologie 'democratiche' o dell'ottuso isterismo religioso.
Possiamo essere, e lo sono profondamente, solidali col popolo americano, ferito orribilmente e costretto ad un risveglio brutale dall'illusione dell'intoccabilità degli USA e dalla retorica della way of life americana. Ma come si fa a solidarizzare con Bush sapendo ciò che i governi degli USA hanno fatto finora nel mondo?
Lo potremmo fare come quando nei film western siamo dalla parte delle tute blu contro i cattivi sudisti, ancora schiavisti, ma lo facciamo dimenticandoci del genocidio degli indiani sul quale si è fondato l'intera struttura del nascente stato americano. O come quando assistiamo ad una partita di calcio e teniamo per la squadra del nostro paese senza pensare che fino al giorno prima abbiamo detto peste e corna del nostro paese e ci scordiamo del sistema commerciale che regge lo spettacolo calcistico.
In questo caso, restiamo esterni alla realtà, attori passivi di qualcosa che non abbiamo determinato noi e di cui accettiamo le dinamiche interne.
Mutatis mutandis, e mettendoci in una situazione enormemente più grave, non ci si può chiedere di schierarsi in un conflitto che ci sorpassa, e che è il punto di arrivo di sistemi portati all'estremo, di cui non condividiamo la natura, con da una parte la superpotenza americana, che pur difendendo una civiltà a noi più vicina, è l'espressione stessa dell'arroganza del capitale, e dall'altra un terrorismo odioso espressione di interressi misti dove i desideri di vendetta di un miliardario nostalgico della supremazia ottomana si coniuga con la disperazione di popoli diseredati sotto la bandiera unificante del fanatismo religioso e dell'antiamericanismo.
In questa scalata della follia, la pratica non violenta, allora, è già di per sé denuncia dello squilibrio esistente nel pianeta. È l'unico modo di sottrarsi a tutto questo e dichiarare la propria estraneità ontologica ad ogni moto di sopraffazione.
Se ciò che si vuole combattere è l'oppressione dell'uomo sull'uomo, questa è presente nello sfruttamento dei bambini nel lavoro nero e nella tratta delle nuove schiave sessuali, bianche o nere, nello sfruttamento in fabbrica e nell'oppressione delle donne, nelle violenze carnali e nelle coercizioni psicologiche, e il tipo di oppressione non è meno grave se ad esercitarlo sono soggetti diversi. La pena capitale è un orrore se praticata negli Stati Uniti o in Cina, gli attentati mortali sono ugualmente terribili se sono praticati dai kamikaze palestinesi o dai militanti dell'Eta.
Sono banalità che a quanto pare non sono mai ripetute abbastanza, come quella che il fine, lo faceva notare già A. Camus ne L'uomo in rivolta, non giustica i mezzi, ma li determina e viceversa sono questi ultimi a determinarlo.
Uno stato sorto sui massacri e sul sangue non eserciterà mai un governo libero e tollerante.
In che modo potrebbe avere credibilità una lotta di 'liberazione' che trascura l'oppressione interna esercitata sul proprio stesso popolo, ad esempio e in particolare, su quel 50% dell'umanità che sono le donne. Il burka, oggi è il più forte esempio di una guerra che si combatte anche in nome della liberazione di un popolo in cui la sorte delle donne e il loro ruolo rischia di essere sacrificato, ancora una volta, in nome delle ragioni superiori che riguardano l'interesse dei nuovi poteri da stabilire.
La prefigurazione di un modo diverso di intendere i rapporti umani si farà solo se nelle nostre pratiche di lotta faremo vivere già nel presente la nostra utopia.
La nonviolenza ci garantisce tutto questo: è una prassi, capace di metterci al riparo dalle semplificazioni autoritarie, anche le più intime, e ci costringe ad un confronto reale con l'altro.
Chiamarsi fuori dal balletto dell'orrido, che ci circonda in modo particolare in questo momento, dichiararsi estranei ad ogni forma di aggressione ed oppressione, è quanto di più urgente ci resta da fare.