La perdita e la
delusione sono senza dubbio tra le esperienze più comuni che si incontrano
nella professione medica. È proprio dei medici, infatti, provare ogni
settimana innumerevoli delusioni: dalla piccola contrarietà per un test
di laboratorio che rivela che una certa cura non è efficace fino al colpo
rappresentato da un paziente che muore. È un grosso carico da portare
per coloro che si prendono cura degli altri. Eppure la gran parte di queste
perdite restano ignorate e non elaborate.
Attualmente insegno, nella nostra scuola di medicina locale, in un corso per
gli studenti del primo e secondo anno. In uno dei seminari serali stiamo esplorando
i nostri atteggiamenti riguardo alla perdita, scoprendo alcune delle credenze
che abbiamo ereditato dalla nostra famiglia a tale riguardo e identificando
le strategie abituali con cui gestiamo la perdita; insomma esaminiamo tutto
ciò che facciamo invece di elaborare il lutto. Spesso si tratta di un'esperienza
ricca e profondamente toccante che permette agli studenti di conoscere se stessi
e di conoscersi tra loro in modi diversi.
Una volta, al termine di una di queste serate, una donna si alzò per
dirmi che la classe aveva già seguito due seminari sul lutto tenuti dal
dipartimento di psichiatria. Non ne ero stata informata e così mi scusai
dicendo che forse sarebbe stato meglio scegliere un altro argomento per la nostra
discussione serale. "Oh, no" mi disse "era un'altra cosa. Ci
hanno insegnato la teoria del lutto e come riconoscere quando i nostri pazienti
stanno elaborando un lutto. E a rispettare questo processo. Ma non ci hanno
mai detto nulla sul fatto che anche noi avremmo avuto qualcosa da elaborare".
L'aspettativa di trovarsi immersi nella sofferenza e nella perdita tutti i giorni
senza venirne toccati è altrettanto irrealistica di quella di camminare
nell'acqua senza bagnarsi. Non è certo una negazione da poco. Il modo
in cui affrontiamo la perdita forma la nostra capacità di essere presenti
alla vita più di qualsiasi altra cosa. Il modo in cui ci proteggiamo
dalla perdita è il modo in cui ci distanziamo dalla vita.
Il proteggerci dalla perdita - piuttosto che elaborare e guarire le nostre perdite
- rappresenta una delle cause principali del burn-out. Sono pochissimi i professionisti
che ho aiutato per problemi di burn-out che sono venuti da me dicendo che era
questo il loro problema. Ritengo che la maggior parte di loro non lo sapesse.
La cosa più comune che mi sono sentita dire era: "C'è qualcosa
che non va dentro di me. Non mi importa più di nulla. Intorno a me succedono
le cose più terribili e io non sento niente."
Però le persone a cui realmente non importa nulla raramente sono vulnerabili
al burn-out. Agli psicopatici non succede. Non esistono dittatori o tiranni
che ne abbiano sofferto. Solo coloro che si prendono realmente cura degli altri
possono arrivare a questo luogo di ottundimento. A noi succede non perché
non ci prendiamo cura degli altri, ma perché non elaboriamo i nostri
lutti. Perché abbiamo permesso ai nostri cuori di riempirsi così
tanto con la perdita da non avere più posto per provare del sentimento
verso gli altri.
La letteratura sul burn-out parla dei fattori che lo guariscono: riposo,
esercizio, gioco e lasciare andare aspettative irrealistiche. Ma in base
alla mia esperienza si inizia a guarire dal burn-out solo quando si inizia
a imparare a come elaborare il lutto. Elaborando il lutto ci prendiamo cura
di noi stessi, l'antidoto al professionalismo. I professionisti della salute
non piangono.
Purtroppo.
Il secondo giorno del mio periodo di formazione in pediatria, accompagnai il
medico al quale ero stata assegnata a informare dei giovani genitori che nell'incidente
automobilistico da cui erano usciti indenni era invece morta la loro unica bambina.
Ero nuova a questo tipo di situazioni e quando scoppiarono in lacrime io piansi
con loro. Più tardi il mio medico mi prese da parte per dirmi che mi
ero comportata in modo molto poco professionale. "Quelle persone contavano
sulla nostra forza" mi disse e io avevo deluso le loro aspettative. Presi
molto a cuore la sua critica. Quando a mia volta divenni anch'io medico responsabile,
erano anni che non piangevo più.
Durante quell'anno ci capitò un bambino di due anni che, lasciato solo
per un attimo, era affogato nella vasca da bagno. Tentammo di tutto, ma dopo
un'ora dovemmo accettare la sconfitta. Portando con me il giovane medico che
stava facendo tirocinio, andai a dire ai genitori che non eravamo riusciti a
salvare il loro figlio. Sopraffatti dal dolore scoppiarono in singhiozzi. Dopo
un po' il padre mi fissò. Io stavo lì, forte e silenziosa nel
mio camice bianco, con accanto a me il giovane medico molto scosso.
"Mi scusi, dottore" disse "tra un minuto mi riprenderò."
Ricordo quell'uomo, con il volto bagnato dalle lacrime di un padre, e penso
alle sue scuse con vergogna. Convinta allora che il dolore che provavo fosse
solo una perdita di tempo inutile, un auto indulgere, ero diventata quel tipo
di persona davanti alla quale ci si scusa per aver provato dolore.
Ricordo un periodo di servizio al reparto di pediatria al Memorial Sloan-Kettering
Cancer Center di New York. Moriva un bambino ogni giorno e ogni mattina iniziavamo
il nostro giro dal locale per le autopsie, parlando con il patologo del bambino
che era morto il giorno prima o durante la notte. E ogni mattina lasciavo quel
posto per tornare al reparto pediatrico dicendomi: "Su, passiamo al prossimo."
Questo tipo di atteggiamento che è stato così prevalente nella
mia formazione, era anche lo stesso approccio alla perdita che avevo imparato
in famiglia. Il pomeriggio in cui la mia gattina di dieci settimane fu investita
e morì, mia madre mi portò in un negozio di animali e ne comprò
un altro. Fin da molto piccola mi è stato insegnato che se succede qualcosa
di doloroso, la cosa migliore da fare è non pensarci su e lasciarsi prendere
da qualcos'altro. Purtroppo in medicina il 'qualcos'altro' da cui lasciarsi
prendere spesso è un'altra tragedia.
Ciò che dobbiamo sottolineare è che la nostra elaborazione del
lutto è mirata a non aiutare nessun paziente in particolare, ma serve
invece ad aiutare noi stessi, rendendoci capaci di andare avanti dopo una perdita.
Ci guarisce rendendoci nuovamente capaci di amare. Dire: "Passiamo al prossimo"
equivale a negare la nostra umanità, significa affermare che qualcuno
può morire davanti a noi senza che la cosa ci tocchi. È il rigetto
dell'interezza, della connessione umana che invece è fondamentale. Non
ha nessun senso quando pronunci queste parole ad alta voce.
Ringraziamo
l'autrice, la casa editrice Penguin Putnam e l'agente letterario per l'Italia
per l'autorizzazione che gentilmente ci hanno concesso a pubblicare questo capitolo
tratto dal libro, ancora inedito in italiano, "Kitchen Table Wisdom"
(New York 1996).