I professionisti non piangono

di Rachel Naomi Remen

La perdita e la delusione sono senza dubbio tra le esperienze più comuni che si incontrano nella professione medica. È proprio dei medici, infatti, provare ogni settimana innumerevoli delusioni: dalla piccola contrarietà per un test di laboratorio che rivela che una certa cura non è efficace fino al colpo rappresentato da un paziente che muore. È un grosso carico da portare per coloro che si prendono cura degli altri. Eppure la gran parte di queste perdite restano ignorate e non elaborate.
Attualmente insegno, nella nostra scuola di medicina locale, in un corso per gli studenti del primo e secondo anno. In uno dei seminari serali stiamo esplorando i nostri atteggiamenti riguardo alla perdita, scoprendo alcune delle credenze che abbiamo ereditato dalla nostra famiglia a tale riguardo e identificando le strategie abituali con cui gestiamo la perdita; insomma esaminiamo tutto ciò che facciamo invece di elaborare il lutto. Spesso si tratta di un'esperienza ricca e profondamente toccante che permette agli studenti di conoscere se stessi e di conoscersi tra loro in modi diversi.
Una volta, al termine di una di queste serate, una donna si alzò per dirmi che la classe aveva già seguito due seminari sul lutto tenuti dal dipartimento di psichiatria. Non ne ero stata informata e così mi scusai dicendo che forse sarebbe stato meglio scegliere un altro argomento per la nostra discussione serale. "Oh, no" mi disse "era un'altra cosa. Ci hanno insegnato la teoria del lutto e come riconoscere quando i nostri pazienti stanno elaborando un lutto. E a rispettare questo processo. Ma non ci hanno mai detto nulla sul fatto che anche noi avremmo avuto qualcosa da elaborare".
L'aspettativa di trovarsi immersi nella sofferenza e nella perdita tutti i giorni senza venirne toccati è altrettanto irrealistica di quella di camminare nell'acqua senza bagnarsi. Non è certo una negazione da poco. Il modo in cui affrontiamo la perdita forma la nostra capacità di essere presenti alla vita più di qualsiasi altra cosa. Il modo in cui ci proteggiamo dalla perdita è il modo in cui ci distanziamo dalla vita.
Il proteggerci dalla perdita - piuttosto che elaborare e guarire le nostre perdite - rappresenta una delle cause principali del burn-out. Sono pochissimi i professionisti che ho aiutato per problemi di burn-out che sono venuti da me dicendo che era questo il loro problema. Ritengo che la maggior parte di loro non lo sapesse. La cosa più comune che mi sono sentita dire era: "C'è qualcosa che non va dentro di me. Non mi importa più di nulla. Intorno a me succedono le cose più terribili e io non sento niente."
Però le persone a cui realmente non importa nulla raramente sono vulnerabili al burn-out. Agli psicopatici non succede. Non esistono dittatori o tiranni che ne abbiano sofferto. Solo coloro che si prendono realmente cura degli altri possono arrivare a questo luogo di ottundimento. A noi succede non perché non ci prendiamo cura degli altri, ma perché non elaboriamo i nostri lutti. Perché abbiamo permesso ai nostri cuori di riempirsi così tanto con la perdita da non avere più posto per provare del sentimento verso gli altri.
La letteratura sul burn-out parla dei fattori che lo guariscono: riposo, esercizio, gioco e lasciare andare aspettative irrealistiche. Ma in base alla mia esperienza si inizia a guarire dal burn-out solo quando si inizia a imparare a come elaborare il lutto. Elaborando il lutto ci prendiamo cura di noi stessi, l'antidoto al professionalismo. I professionisti della salute non piangono.
Purtroppo.
Il secondo giorno del mio periodo di formazione in pediatria, accompagnai il medico al quale ero stata assegnata a informare dei giovani genitori che nell'incidente automobilistico da cui erano usciti indenni era invece morta la loro unica bambina. Ero nuova a questo tipo di situazioni e quando scoppiarono in lacrime io piansi con loro. Più tardi il mio medico mi prese da parte per dirmi che mi ero comportata in modo molto poco professionale. "Quelle persone contavano sulla nostra forza" mi disse e io avevo deluso le loro aspettative. Presi molto a cuore la sua critica. Quando a mia volta divenni anch'io medico responsabile, erano anni che non piangevo più.
Durante quell'anno ci capitò un bambino di due anni che, lasciato solo per un attimo, era affogato nella vasca da bagno. Tentammo di tutto, ma dopo un'ora dovemmo accettare la sconfitta. Portando con me il giovane medico che stava facendo tirocinio, andai a dire ai genitori che non eravamo riusciti a salvare il loro figlio. Sopraffatti dal dolore scoppiarono in singhiozzi. Dopo un po' il padre mi fissò. Io stavo lì, forte e silenziosa nel mio camice bianco, con accanto a me il giovane medico molto scosso.
"Mi scusi, dottore" disse "tra un minuto mi riprenderò." Ricordo quell'uomo, con il volto bagnato dalle lacrime di un padre, e penso alle sue scuse con vergogna. Convinta allora che il dolore che provavo fosse solo una perdita di tempo inutile, un auto indulgere, ero diventata quel tipo di persona davanti alla quale ci si scusa per aver provato dolore.
Ricordo un periodo di servizio al reparto di pediatria al Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York. Moriva un bambino ogni giorno e ogni mattina iniziavamo il nostro giro dal locale per le autopsie, parlando con il patologo del bambino che era morto il giorno prima o durante la notte. E ogni mattina lasciavo quel posto per tornare al reparto pediatrico dicendomi: "Su, passiamo al prossimo."
Questo tipo di atteggiamento che è stato così prevalente nella mia formazione, era anche lo stesso approccio alla perdita che avevo imparato in famiglia. Il pomeriggio in cui la mia gattina di dieci settimane fu investita e morì, mia madre mi portò in un negozio di animali e ne comprò un altro. Fin da molto piccola mi è stato insegnato che se succede qualcosa di doloroso, la cosa migliore da fare è non pensarci su e lasciarsi prendere da qualcos'altro. Purtroppo in medicina il 'qualcos'altro' da cui lasciarsi prendere spesso è un'altra tragedia.
Ciò che dobbiamo sottolineare è che la nostra elaborazione del lutto è mirata a non aiutare nessun paziente in particolare, ma serve invece ad aiutare noi stessi, rendendoci capaci di andare avanti dopo una perdita. Ci guarisce rendendoci nuovamente capaci di amare. Dire: "Passiamo al prossimo" equivale a negare la nostra umanità, significa affermare che qualcuno può morire davanti a noi senza che la cosa ci tocchi. È il rigetto dell'interezza, della connessione umana che invece è fondamentale. Non ha nessun senso quando pronunci queste parole ad alta voce.

Ringraziamo l'autrice, la casa editrice Penguin Putnam e l'agente letterario per l'Italia per l'autorizzazione che gentilmente ci hanno concesso a pubblicare questo capitolo tratto dal libro, ancora inedito in italiano, "Kitchen Table Wisdom" (New York 1996).