Riflessioni dopo il seminario sui dispositivi relazionali
di Sandra Parolin
Dopo lo stimolante
seminario tenuto a Torino da Renato Curcio e Nicola Valentino, si affacciano
alcune riflessioni. Vorrei provare a utilizzare le categorie da loro elaborate
e cercare di guardarle alla luce di altri lavori o 'strumenti di lavoro' che
intendono ampliare le potenzialità e la consapevolezza dell'esperienza
umana in generale, e non soltanto quella della reclusione.
Mi riferisco in particolare alla pratica del community building, ossia
del 'cerchio di consapevolezza', che esplora la relazione e la comunicazione
umana in un contesto di gruppo.
In particolare vorrei riprendere alcuni concetti-chiave emersi nel seminario:
1. dispositivi relazionali, 2. spostamento dalle istituzioni totali
a quelle ordinarie, 3. evento analizzatore, 4. dinamiche istituenti,
5. partecipante osservatore - osservazione consapevole - cantieri di
consapevolezza -esplorazione di apprendimento, 6. concetto di inclusione/esclusione,
per tentare una sorta di analogia con dinamiche ed eventi che sembrano accadere
anche 'all'interno dell'individuo'.
I condizionamenti esterni prodotti dalle istituzioni ordinarie e/o totalizzanti
sembrano 'innestarsi' su altrettanti condizionamenti interni che portano
spesso il soggetto, che non vive esternamente un particolare stato di reclusione,
a crearsi uno spazio mentale e relazionale chiuso, angusto, imprigionato. Prigioni
interne che ci costruiamo, e prigioni esterne che facciamo o lasciamo costruire.
Quale relazione può esistere tra le une e le altre? Può l'esperienza
di privazione propria delle istituzioni totali dirci qualcosa su quelle ordinarie,
ma anche sugli individui che le perpetuano? Lo spostamento dalle istituzioni
totali a quelle ordinarie (2) dimostra come anche in queste ultime siano presenti
elementi totalizzanti e mette in luce come gli essere umani, che di fatto le
compongono, siano in ultima analisi i portatori inconsapevoli di quegli stessi
meccanismi (così come sono portatori di tendenze di segno opposto).
In altre parole i condizionamenti negativi presenti nell'individuo si manifestano
nelle sue opere, e in certe situazioni sono più facilmente attivati e
attivabili (come per esempio nelle situazioni gruppali prive di un intento di
consapevolezza).
La società stessa può essere vista come l'insieme di queste istituzioni
e come il prodotto di tendenze (condizionamenti negativi, forze inconsce) che
esercitano un 'forte potere' sulle azioni dell'uomo.
Diventare consapevoli di queste tendenze e cercare una loro liberazione o attenuazione
è uno dei 'lavori' che si prefigge il cerchio del Community.
Nel cerchio comunitario - visto proprio come un cantiere di consapevolezza (5),
vengono alla luce i cosidetti ostacoli individuali, che sono per lo più
responsabili della mancanza di una comunicazione autentica tra gli esseri. Molti
di questi ostacoli sono abbastanza comuni e comprendono: pregiudizi e preconcetti,
il bisogno di curare e convertire gli altri, ideologie, teologie e soluzioni
pronte, il bisogno di controllare, ecc.
Prendiamo ad esempio il bisogno di controllo sugli altri e vediamo come
lo stesso meccanismo operi sia su scala individuale (impedendo probabilmente
al soggetto di vivere relazioni personali serene) sia in gruppo, quando egli
è parte di una istituzione ordinaria come in famiglia o nel posto di
lavoro. Ed è quello stesso bisogno di controllo che si manifesta poi,
in maniera eclatante, nelle istituzioni totali.
Una delle regole principali proprie del Community dice: "tendere a includere,
evitare atteggiamenti escludenti". Una vera comunità è inclusiva.
Il più grande nemico della comunità è l'esclusività.
I gruppi che escludono gli altri perché sono poveri, scettici, divorziati,
peccatori, di un'altra razza o nazionalità non sono comunità:
sono combriccole, veri e propri bastioni di difesa contro la comunità
(S. Peck).
Lavorare sul concetto di inclusione/esclusione è cruciale perché
impegna ciascuno a osservare, ad essere consapevole della 'propria tendenza
ad escludere'. La tendenza si può manifestare in maniera grossolana,
ma si può escludere l'altro anche in modi più sottili e severi
(come spesso sono i nostri giudizi) o perfino inconsapevolmente. Diventare consapevoli
di quando e di come escludiamo è un primo importante passo. Esistono
due principali forme di esclusione: l'esclusione dell'altro e l'esclusione di
sé. In un gruppo è abbastanza frequente il meccanismo della autoesclusione.
Se desidero includere tutti devo poterlo e saperlo fare anche con me. Spesso
il 'sentirsi esclusi' in un gruppo nasce da forme molto sottili e inconsce di
autoesclusione.
Per quanto riguarda invece il discorso sui dispositivi relazionali (1), dopo
il seminario mi sono posta una domanda: "Se esistono dei dispositivi relazionali
totalizzanti, che i due relatori hanno così ampiamente evidenziato partendo
dalla loro personale esperienza di reclusione, quale potrebbe essere la loro
controparte, ovvero quali sono e se ci sono dei dispositivi relazionali non-totalizzanti?"
È sufficiente la consapevolezza del dispositivo per disinnescare tutto
il potenziale di sofferenza in esso intrinseco? Oppure occorre attivare una
qualche 'altra' facoltà umana che operi certo nel senso della consapevolezza,
ma anche in quello della motivazione (motivazione al cambiamento per
esempio) e della responsabilità.
Sembra che una caratteristica dei dispositivi totalizzanti sia infatti quella
di de-sensibilizzare o alterare in qualche modo la coscienza del soggetto proprio
nell'area della motivazione e in quella di responsabilità.
La de-responsabilizzazione da parte del soggetto attraverso una sommersione
della sua identità in quella di un gruppo (con esempi eclatanti come
quello del battaglione 101) è solo a mio avviso l'ultimo anello di una
catena o meglio il manifestarsi di una tendenza latente in qualsiasi individuo
nel quale, anche in condizioni ordinarie, opera un meccanismo di delega della
propria responsabilità ad altri o in cui il senso di responsabilità
manca di forza, di consistenza e di consapevolezza.
Questo è ciò che emerge nella pratica del Community, che nel tentativo
di costituire un gruppo di responsabilità egualmente condivisa
incontra numerose difficoltà e resistenze.
La vera comunità, sottolinea Peck, è un gruppo in cui 'tutti sono
leader'. Sebbene questa definizione possa essere per molti un obiettivo interessante
e accattivante, in realtà pochi vogliono veramente fare lo sforzo
necessario per raggiungere quello stadio in concreto, poiché le resistenze
alla responsabilità si manifestano in svariate forme, molte delle quali
sono poco visibili o riconoscibili anche al soggetto stesso che ne è
investito. È qui che interviene l'altro come specchio, spesso indispensabile
per poter diventare consapevoli di quegli ostacoli e di quelle resistenze profonde.
Prendersi la propria parte di responsabilità nel processo significa
disinnescare un 'dispositivo totalizzante interno' che si costituisce come assegnazione
di parti di sé scomode ad altri; si preferisce la delega inconsapevole
alla fatica del processo. Nella pratica del Community, ci sono momenti
in cui ognuno spera che sia l'altro a farlo: se tu ti prendi la responsabilità
forse, dopo, lo farò anch'io.
Anche se è inevitabile che qualcuno debba essere il primo a mostrare
l'esempio, rompendo quel meccanismo inconscio di delega (proprio come in un
gruppo di lavoro c'è qualcuno che deve disinnescare il mito). A volte
l'atto simbolico di un singolo è a tutti gli effetti un sacrificio che
egli compie per il gruppo, ma in questo caso non per sommergersi perdendo la
sua identità, ma al contrario trovando il coraggio di metterla a nudo.
Il coraggio di mostrare la propria differenza!
La propria differenza e la propria ferita.
L'ascolto di una testimonianza e di una ferita che si cela dietro quel
particolare essere umano, è la via alla comunanza, all'esperienza della
vera comunità; tutte le forme di comunanza basate su ideali, compiti,
obiettivi comuni, cioè sul principio della similitudine (siamo tutti
uguali) sono in realtà delle pseudocomunità e contengono
già in sé i semi di quei dispositivi totalizzanti di cui si è
parlato. Troppe cose sono date per scontate (naturali!) Troppe fatiche vorrebbero
essere evitate. Anche i condizionamenti diventano naturali
L'unico vero terreno di uguaglianza tra gli esseri umani è il terreno
della sofferenza (e della gioia), che si manifesta attraverso il cerchio, nella
testimonianza della propria identità (o delle proprie identità).
Condividere nel cerchio il sogno e la ferita produce quel 'rispecchiarsi
nell'altro', porta a vedere parti di sé emergere dall'altro (ma
come viste da una diversa angolazione) e, in luogo della sommersione si sperimenta
l'empatia.
Per riprendere la domanda posta all'inizio sui dispositivi relazionali non-totalizzanti,
mi piace pensare al community building come a uno di questi. In verità
lo si potrebbe anche considerare come un evento analizzatore (3) che rompe la
routine, che porta alla luce. In ogni caso qualcosa di creato appositamente
e intenzionalmente, con una motivazione di ricerca e di consapevolezza;
uno strumento per esplorare e apprendere, per sperimentare e attivare nuove
risorse nel campo dell'esperienza umana.
(Si è visto tra l'altro dall'esperienza di Nicola e Renato che oltre
alle risorse dissociative che il singolo metteva in atto, all'interno
del carcere avevano anche attivato una risorsa di gruppo che è
stata così feconda da gettare le basi per tutto il loro lavoro futuro).
Le risorse di gruppo devono essere quindi attentamente studiate e sperimentare,
una ricerca di strumenti e modalità diverse, alternative al sistema delle
varie istituzioni(4). In sostanza, come non essere istituzione?
La pratica del 'cerchio di consapevolezza' cerca di andare, il più umilmente
possibile, in questa difficile direzione.
Ancora grazie a Nicola e Renato che ci hanno offerto il loro sogno e la loro
ferita.