Chi può guarire un mondo simile?

di Elias Amidon


IL KOAN DEL CENTRO COMMERCIALE

Per tenere un corso di ecologia profonda a 25 monaci e una monaca buddhisti provenienti da Birmania, Cambogia, Thailandia e Laos, ci siamo accampati in kuti, piccole capanne sopraelevate, al Wongsanit Ashram fuori Bangkok, un posto tranquillo situato tra stagni di fiori di loto e canali che si raggiunge attraversando uno di questi canali su un'umile zattera.
Passiamo il primo giorno esplorando, attraverso svariati esercizi, la vasta misteriosa interdipendenza dell'universo che il buddhismo esprime con chiarezza attraverso il concetto di pattica samupaddha, l'originazione co-dipendente di tutti i fenomeni.
Domando: "Perché tutte le volte che si raffigura il Buddha, in un discorso o dipinto, al momento della sua illuminazione, lo si raffigura sempre seduto sotto l'albero della bodhi? Cosa ne pensate? Ecco il vostro koan per i compiti a casa di domani: l'albero della bodhi è parte o no del risveglio del Buddha?" La domanda apre degli spiragli nel nostro tema e provoca proprio quel genere di discussione investigativa che speravo nascesse (compresa la curiosità intorno al concetto di 'koan'). Alcune risposte negano che l'albero abbia preso parte all'illuminazione del Buddha, "perché l'albero non ha mente". Suggerisco che l'albero potrebbe sapere cose che noi non sappiamo, come stare tanto fermi da far posare gli uccelli sui suoi rami, o come trasformare la luce del sole in cibo. Il suggerimento viene raccolto e i partecipanti aggiungono altre cose che gli alberi sanno. Qualcuno afferma che sì l'albero partecipa perché offre ombra al Buddha. Un altro (all'apparenza un lettore di libri Zen) afferma: "Certo che è partecipe. Il Buddha è l'albero della bodhi e l'albero della bodhi è il Buddha." E un altro: "Sì, forse anche noi abbiamo partecipato, visto che in una vita precedente potremmo essere stati un uccello che portava nel becco il seme dell'albero della bodhi e l'ha lasciato cadere proprio dove è poi cresciuto perché il Buddha vi si sedesse sotto."
Con il procedere del corso, aumentano la fiducia reciproca e il benessere. Dopo una giornata passata nel folto della foresta per una pratica chiamata 'passeggiata contemplativa', con la natura come insegnante di Dharma, ci imbarchiamo in una rischiosa escursione in un regno opposto: una passeggiata contemplativa in un enorme centro commerciale, con tutti i simboli della modernità come insegnanti di Dharma.
Non ci si aspetta che i monaci vadano nei centri commerciali e alcuni non ci sono mai entrati. Avendo rinunciato ai possessi, al sesso, alla musica, al denaro, e a molti altri stimoli, non c'è ragione perché ci vadano. Molti monaci temono questa gita e il suo potenziale imbarazzo, anche se nessuno è obbligato ad andarci. Suggerisco che entrino nell'esperienza come una meditazione e che cerchino di essere consapevoli di qualsiasi cosa sorga nel loro cuore: giudizio, rabbia, imbarazzo, desiderio, curiosità.
Il nostro grande autobus entra nel parcheggio del centro commerciale. Chiedo il silenzio, invito poi i monaci a cantare lo stesso canto di protezione e benedizione che hanno cantato il giorno prima nella foresta. Finito il canto, suono la campana che segna l'inizio delle nostre due ore di consapevolezza silenziosa. Sediamo nel bozzolo di metallo dell'autobus finché l'atmosfera non è salda anche se carica di aspettative. Poi uno a uno scendiamo dall'autobus e ci dirigiamo verso gli edifici dell'immenso centro commerciale, la piccola fila di figure vestite d'arancione scompare sotto il baldanzoso cartello "Parco del futuro".
Anche se non avrei voluto fare personalmente la pratica del centro commerciale, avendola già fatta ed essendo stato ogni volta sommerso dalla tragedia umana ed ecologica della cultura tecno-industriale-multinazionale-consumistica, mi ritrovo dietro ai monaci e alla monaca cambogiana vestita di bianco, e mi metto a camminare lentamente, consapevolmente, respirando, respirando, attraverso la sfida dell'urlante pop rock, KFC's e Mc Donald's, e i milioni e milioni di merci del mondo saccheggiato. Ognuno se ne va per proprio conto e ben presto ci perdiamo di vista, anche se durante le due ore scorgo per caso una figura vestita d'arancione esitante di fronte a un banco di profumi Estée Lauder che sembra chiedersi dove posare lo sguardo, o un'altra che passa silenziosamente sulla scala mobile attraverso il vasto atrio centrale come un angelo smarrito. Torniamo in silenzio all'ashram. Avevo suggerito in anticipo che potevamo aver voglia di stare zitti, ma non c'era bisogno di dirlo. L'atmosfera sull'autobus è triste, pensosa e sgomenta.
Più tardi, raccontando le loro storie, diventa chiaro quanto sia stato difficile per loro. Uno dice: "Pensavo che sarebbe stato facile, ma una volta all'entrata mi tremavano le ginocchia!" Avevo chiesto che prendessero appunti durante la loro esperienza a intervalli, perché li avrebbe aiutati a restare centrati. Tornati all'ashram, i monaci guardano i loro appunti e sorridono di se stessi.
"Non avevo mai visto una scala mobile" dice uno. "Mi sono fermato a vedere come faceva la gente, poi ci ho messo su un piede e il meccanismo ha portato in su il mio piede e ho dovuto saltare!" E un altro: "Mi imbarazzava trovarmi lì vestito da monaco. Allora mi sono tolto le scarpe, per rendere la cosa ancora più difficile. Ho capito che il centro commerciale era come il mondo che il padre del Buddha aveva ostentato davanti al giovane Siddharta, un mondo di sola felicità e piacere, senza sofferenza, vecchiaia e morte. Nella foresta, gli alberi mostrano tutti i lati della vita, le foglie cadono e muoiono proprio sotto a dove sbocciano i fiori. Il centro commerciale è un tentativo di creare un paradiso senza sofferenza. Ma per imparare a essere liberi dalla sofferenza bisogna stare con la sofferenza. Quando ho camminato all'esterno, ho visto i lavoratori che cercavano di riposarsi nella calura e come i poveri, che sono indispensabili perché la cosa continui a funzionare, debbano soffrire." E un altro ancora: "Mi sembrava che fossimo una fila di coraggiosi soldati che entravano silenziosamente nel centro. Ero orgoglioso di noi. Sentivo i miei fratelli monaci come santi che offrivano i meriti ai sofferenti di quel regno infernale."
E un altro: "All'inizio mi sentivo a disagio, e confuso. C'era molto fracasso. Non sapevo come mantenere in un posto simile una pratica di presenza mentale, di solito la facciamo in un tempio tranquillo o nella foresta. Poi ho immaginato che i rumori fossero grilli e uccelli che cantavano forte. Due bambini si sono fermati e si sono inchinati verso di me. La loro gentilezza mi ha fatto sentire euforico." E ancora: "Ho visto il centro commerciale come un grosso robot. Il reparto del cibo era lo stomaco. Quello dei vestiti il corpo. E all'ultimo piano i video erano la testa." Un altro: "Ho visto il desiderio senza limiti del mondo."
Come contrappunto aggiungo i miei appunti, scritti appoggiato ai muri durante le due ore di presenza mentale nel centro commerciale. La tecnica usata durante questa ricerca, che sia nella foresta o nel centro commerciale, è di mantenere il più attentamente possibile nel proprio cuore una domanda e di cercare poi una risposta da quel mondo.
All'inizio andavo in giro senza la domanda, solo cercando di essere testimone. Mi sono ritrovato sommerso e confuso. "Cosa ci faccio qui?" mi sono chiesto. Proprio in quel momento stavo entrando in un negozio. Un video stava sopra la mia testa. Era sintonizzato su MTV e suonavano le ultime note della canzone di Michael Jackson "Cry". Lo so perché era scritto sullo schermo. Nell'immagine si vedevano migliaia di persone, donne, uomini, bambini, di tutte le razze e le età, mano nella mano in bellissimi paesaggi e vie cittadine. Era un'immagine entusiasmante di fratellanza. Mentre passavo sotto il video, la canzone finì e la voce di Michael Jackson disse semplicemente: "Cambia il mondo." Oh!
Siccome sembrava funzionare, dopo altri dieci minuti gironzolando mi sono fatto una domanda più buddhista: "Quali sono le cause e le condizioni di questo mondo?". Ho alzato gli occhi e ho visto di fronte a me un negozio che vendeva graziosi cuscini, per teenagers immagino, dozzine di cuscini appesi. Il mio sguardo è caduto su un cuscino con la scritta in inglese: "Mi ami anche tu?" Cosa aveva a che fare con le cause e le condizioni?
E poi l'ho capito. L'enorme, disperato desiderio di essere amati di noi umani. Tutti noi. Che io possa essere ammirato, che io possa essere al sicuro, curato, amato. Che questi vestiti, scarpe, orologi, cellulari, gioielli, giocattoli, TV, cassette, mutande, mi amino, che mi rendano accettabile, che mi diano un'appartenenza, che mi rendano bello ai tuoi occhi, oh amami anche tu!
Dopo altri dieci minuti, questa volta chiedo: "Quali sono le conseguenze di un mondo simile?" Giro l'angolo. Di fronte a me c'è una larga stanza circolare coperta di specchi con dentro due cerchi concentrici di computer, con i monitor girati verso l'esterno. Tutti i monitor mostrano lo stesso video game: una fortezza nel deserto e il giocatore nei panni di un commando all'attacco, la visione è quella del punto di vista del commando. Tutto l'ambiente rimbomba del rumore degli spari di pistola e delle pistole che vengono ricaricate. Ai computer giocano dei giovani tailandesi dalle facce miti, ognuno intento al suo compito. Il sangue sgorga dalle ferite dei nemici che cadono. Guardo se ci sono donne che giocano. No, sono tutti uomini. C'è solo una giovane donna vicino al suo ragazzo nel cerchio esterno dove mi trovo io in osservazione. Sta abbandonata sopra lo schienale della sedia, guarda verso l'esterno con la faccia triste e annoiata. Conseguenze: aggressività, violenza, morte, alienazione, mancanza d'amore, mancanza di amicizia. Perdita.
Il rumore è insopportabile. Musica pop vibrante, digitale, metallica, pistole, chiacchiere di gente che va e viene, che guarda, che vuole. Sono depresso e triste. Voglio andarmene. Non so dov'è l'uscita.
Mi faccio un'ultima domanda: "Cosa può guarire un mondo simile?" Sto passando vicino a un negozio di libri. Ci sono migliaia di riviste esposte in file ordinate, ognuna sovrapposta a metà sopra la successiva. Abbassandovi lo sguardo, noto gli occhi delle migliaia di persone che dalle copertine delle riviste mi restituiscono lo sguardo. Mi fermo. Ogni faccia fissa la macchina fotografica che la sta fotografando, con quell'aria che hanno di solito tutte le persone che vengono fotografate per essere viste da altri: graziose, sorridenti, ferme, amichevoli. Ognuno delle migliaia di sguardi che mi fissano è una finestra sull'anima. Al centro di ogni sguardo c'è il loto del cuore, la luce del divino, probabilmente inconsapevole di se stesso, ma comunque il limpido, sgombro sguardo delle gemme della rete di Indra, l'intero universo riflesso in ogni gemma. In questa miriade di sguardi c'è la risposta, questo eterno, in continuo rinnovamento, cuore gentile al centro di ognuno di noi, che infine trapasserà la falsità, l'illusione, l'odio, la violenza, e questo colossale spreco della bellezza del mondo per toccare l'amore che ci lega tutti e tutti guarisce.

22 febbraio 2002
dal giornale di Elias Amidon sul suo viaggio in Thailandia.
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Traduzione di Chandra Candiani