Lavorare nelle crepe

INTERVISTA DI JAMES SHAHEEN A BERNIE GLASSMAN


È vero che stai facendo un training per diventare clown?
Sì. Sto studiando da clown e ho un clown come mentore. Abbiamo fondato un ordine di clown, l'Ordine del Dis-ordine. Ma clown non è la parola giusta. In tedesco c'è un vocabolo migliore: narr o buffone, come il buffone di corte. Ci sono anche i bastian contrari e il coyote nella tradizione dei nativi americani, l'imbroglione. Ed è questo il training che sto seguendo.

Come ci sei arrivato?
Alcuni anni fa, sono entrato in una nuova fase. Ho diciotto successori di Dharma e tutti dirigono dei centri e promuovono attività molto utili. Nel corso degli anni ho dato vita a molti progetti e fondato alcune organizzazioni che funzionano bene. Nell'ultima parte della mia vita, volevo espormi in modo inaspettato e assicurarmi che la gente non si prendesse troppo sul serio o diventasse bigotta, che comprendessero veramente il concetto di lasciar andare. Sto cercando di impararlo a fare attraverso l'arte del clown. Quello che sto facendo ha a che fare col non essere troppo pesanti.

Fare il clown è un'altra forma di insegnamento?
Sì, nelle tradizioni dei nativi americani il clown, o l'imbroglione, copre una delle posizioni più alte. Vengono preparati con grande cura, e gli è permesso prendere in giro apertamente i sacerdoti. Dopo tutto, è facile cadere nella trappola del predicare senza osservare granché le proprie azioni. Il clown osserva al posto nostro e mostra le contraddizioni e l'ipocrisia con senso dell'umorismo quando nessun altro osa farlo. Ma, cosa ancora più importante, il clown, l'imbroglione, comprende l'unità della vita. È compito del clown avere a che fare con le situazioni e le persone che noi respingiamo, i senzatetto, i carcerati, quelli che sono stati spinti ai margini della società o semplicemente quelli con cui siamo in disaccordo. Il clown ci risveglia al fatto che sono tutte parti di noi, per quanto stretti siano i confini in cui abbiamo chiuso le nostre vite.

Com'è fare il clown?
È affascinante. Quando faccio il clown, mi metto un naso rosso. Ho un minimo di abbigliamento da clown. Il training che sto seguendo non è tanto orientato al trucco o al vestito, la tua identità la crei dall'interno. Ma uso quasi sempre un naso. Quando qualcuno si mette un naso, si può ascoltarlo senza offendersi. Ho notato che se riesco a immaginare il naso su qualcun altro, posso prendere in modo diverso quello che dice al di là di cosa sia. Prova a immaginare un naso su George Bush e ascoltalo parlare: vedrai che le tue reazioni saranno molto diverse. Se prendo le parole di qualcuno con cui sono in totale disaccordo, ma gli metto sulla faccia un naso… yeah, continuo a essere in disaccordo con quello che dice, ma non è più così terribile. (risata)

Mettersi il naso è liberatorio? Ti dà un'identità più flessibile?
Per me e per molti altri sì. È successa una cosa interessante alla fine del nostro ritiro di strada a New York l'anno scorso. Stavamo risalendo la Quinta strada. Il tempo era tiepido, all'inizio, partendo da Bowery, ma si era fatto freddo quando nel tardo pomeriggio raggiungemmo St. Patrick. In questi ritiri non permetto che ci si cambi, ma si possono indossare abiti a più strati. Dunque, c'era un tizio, che studiava all'abbazia di Pema Chodron in Nova Scozia, Gampo Abbey, che aveva freddo e voleva indossare un paio di mutandoni. Si mise il naso - era stato iniziato nell'Ordine del Dis-ordine - e qualcuno gli tenne intorno un cappotto e lui si cambiò. Beh, eravamo sulla Quinta strada, di fronte a St. Patrick, ma lui indossava il suo naso, dunque andava tutto bene. Mettiti il naso e va bene tutto, non c'è niente che tu possa fare di sbagliato. Si tratta solo di ciò che stai facendo e puoi riderne o prenderlo come ti pare.

Hai sconvolto le aspettative dei tuoi studenti iniziando a fare il clown?
Ho sempre cambiato le situazioni. E ci sono sempre stati studenti che nutrivano aspettative su come fosse un maestro Zen. Se ti sposti dalle loro aspettative, si arrabbiano. Poi ci sono quelli che arrivano perché io rappresento quello che vogliono, ma poi io cambio. E loro si arrabbiano perché non sono rimasto come mi volevano. E poi ci sono gli studenti, e sono la maggioranza, che mi hanno preso per come sono e parte di come sono è questo costante cambiamento. È il gruppo che è rimasto con me più a lungo e che mi ha visto entrare nel mondo del clown. Gli studenti che arrivano adesso hanno letto qualcosa su di me e non sanno cosa aspettarsi, tranne che fa parte dell'aspettativa non sapere cosa aspettarsi.

Dunque distruggere le aspettative fa parte del tuo lavoro?
Penso di sì. È quello che ci vuole, non avere aspettative. E le aspettative le abbiamo tutti, che siano su di noi, sugli insegnanti o su qualsiasi altra cosa.

Quale relazione c'è tra tutto questo e il lavoro dello Zen Peacemaker Order?
Fare il clown amplia il nostro lavoro. Il clown lavora nelle crepe della socetà. Lavora per includere quelli che non riconosciamo, gli indesiderabili della società, quelli che ci fanno sentire a disagio. Fare il clown comprende gli stessi principi del nostro Zen Peacemaker Order.

Quali sono questi principi?
Di recente, ho scritto un articolo per una scuola Soto giapponese per un libro che hanno fatto su Dogen, il maestro Zen del tredicesimo secolo. Ho iniziato da quelli che penso siano i tre principi fondamentali negli scritti di Dogen e che si rispecchiano nei principi dello Zen Peacemaker Order. Il primo è non-pensare, che io metto in relazione col nostro primo principio, non-conoscere. Non conoscere è proprio il luogo in cui un koan intende portarti. Un secondo importante principio è shikantaza, semplicemente sedersi. La mia traduzione è "portare testimonianza". E per me portare testimonianza è lo stato di totale nondualità. Robert Heinlein, lo scrittore di fantascienza, usa la parola "grokking" per significare "diventare l'esperienza". Portare testimonianza, shikantaza e grokking sono un tutt'uno per me. Il terzo principio è butsudo, la via dell'illuminato. Per me è guarire se stessi e gli altri attraverso atti d'amore.

Dunque le condizioni inusuali che crei, che sia un ritiro di strada o sedere ad Aushwitz, si propongono di mettere le persone in una situazione in cui saranno messe di fronte al primo principio, non-conoscere?
Esattamente, e per me questi ritiri sono come koan esperienziali. Il più forte dei koan è quello che accade nella tua vita. Quelle che ora io chiamo "immersioni", i ritiri di strada, sedere ad Aushwitz, il lavoro con lo Zen Peacemaker Order, sono più trasformativi di quanto non sia un lavoro formale col koan.

In che modo?
Lavorare su un koan è un'immersione; andare a una sesshin è un'immersione. Ma dopo un po' puoi diventarne condizionato e una sesshin può diventare una vacanza, o per lo meno qualcosa di abituale, e non più necessariamente un'immersione.
Un'immersione nella vita è un modo molto efficace per portarti fuori dallo spazio che conosci e trasportarti nel non conosciuto.

Dopo un'immersione nel non conosciuto, metti un ritiro ad Aushwitz, come avviene il "portare testimonianza"?
Fondamentalmente è che vieni esposto a una pluralità di voci diverse su diversi aspetti. Riunendo sopravvissuti o figli di sopravvissuti e figli di ufficiali delle SS, zingari, omosessuali, gente di diversa estrazione, ti trovi ad ascoltare tutte queste voci. È così se accetti di stare con tutto questo, perché altrimenti è facile arrivare, ascoltare una voce e poi correre via e dire: "Beh, sono stronzate," per negare l'esperienza. Ma se resti nella situazione e continui ad ascoltare le voci, la tua come quella di tutti gli altri, penso che precipiti in quella che si potrebbe chiamare una crisi, ma che io preferisco chiamare un'espansione del nostro concetto di noi stessi, lasciando andare l'attaccamento alle nostre particolari prospettive. Allora, puoi portare testimonianza e farlo senza giudizio.

E la guarigione?
La guarigione sorge naturalmente dai primi due principi. Forse "guarigione" non è la parola giusta. L'ho presa dall'ebraico tikkhun olam, che tradotto alla lettera significa "la guarigione del mondo". Tikkhun olam è riportare all'interezza i disparati frammenti della nostra vita, diventando interi. Il che può accadere solo attraverso quelli che chiamiamo "atti d'amore". E dunque gli atti d'amore diventano il terzo principio.

Nutri qualche dubbio su fino a che punto ti puoi spingere a giocare con queste forme di pratica?
Vedi, ci sono dieci paramita, o virtù, e una è upaya, o mezzi abili. Un insegnante deve capire quali upaya aiutino a portare la gente alla realizzazione della nondualità. Altrimenti sarebbe noioso, no? (ride) Voglio dire, quanti anni puoi andare avanti senza giocare con le forme se sei un insegnante?

Pensi che qualcosa possa andare perduto con queste nuove forme di upaya? Dopo tutto lo zazen ha funzionato per secoli.
No, perché non ho buttato via molte upaya. Qualunque nuova upaya abbia introdotto, ho mantenuto la meditazione seduta, che continuo a praticare. Ci sono alcuni per cui è diventata solo un'altra forma di condizionamento. La loro meditazione seduta non è quanto definirei nondualistico, e non le attribuisco alcun particolare valore rispetto a qualsiasi altra cosa. Il punto secondo me è quale upaya porta alla consapevolezza, alla realizzazione e all'attualizzazione dell'unità della vita.

Quando una persona inizia a praticare, cominci con gli strumenti tradizionali della pratica zen o non li usi più?
Ho delle difficoltà con la parola 'tradizionale'. Implica un qualche punto di riferimento, ma pochissimi di quelli che la usano fanno riferimento a Shakyamuni Buddha. Spesso risalgono solo fino ai loro insegnanti. Io cerco di aiutare le persone a studiare in un modo che sia appropriato per loro e la loro situazione; se si tratta di zazen, vada per zazen; se si tratta di un'immersione, va bene l'immersione. Ma con me tutte le forme di pratica saranno soggette al cambiamento, perché solo il cambiamento esiste.

Hai detto che ci abituiamo ad alcune pratiche che così perdono la loro efficacia. Suppongo che tra un po' ti abituerai ad essere un clown, potresti trovarlo comodo, dobbiamo dunque aspettarci un altro cambiamento, un altro trucco in vista?
Un altro sviluppo. Sì, lo spero; non so mai cosa farò o dirò. Spero di essere sorpreso dagli sviluppi. È questo che li mantiene per me interessanti.

La maggior parte di noi non riesce a spingersi oltre il punto in cui ci sentiamo comodi; sentiamo che è necessario un insegnante. Certo, ci sono coincidenze che ci insegnano qualcosa, ma di solito ci vuole qualcuno che ci spinga.
Non lo so. Ci sono diversi modi per descrivere le cose. Nel contesto buddhista tenderei a dire che sono un servitore del Buddha-dharma. E che ho un'estrema fede in esso e che so che le cose giuste finiscono per accadere. E c'è un altro linguaggio che potrei usare ed è quello dello Zen Pacemaker Order: le cose che faccio consistono nel portare il corpo unico della vita a un miglior livello di coscienza, di consapevolezza, e di attualizzazione. Esiste anche un'intera teoria dei memi e io mi vedo come una marionetta del meme di un corpo. Nello Zen Rinzai c'è un koan che afferma che siamo tutte marionette. Chi tira i fili? Nella terminologia buddhista è il Buddha-dharma e in linguaggio più scientifico è il meme (1) di un corpo. Si possono usare altri linguaggi: Dio, o Allah. Se ci atteniamo al significato, stiamo dicendo tutti la stessa cosa.


Pensi che al cuore di ogni tradizione tu batta sempre sullo stesso tasto?
Sì. Le persone delle più diverse tradizioni hanno sperimentato l'unità della vita. Lo si vede chiaramente con i mistici che toccano le stesse verità.

Sei molto coinvolto col lavoro interreligioso. Qual è il tuo obbiettivo?
Prendiamo il mio corpo, per esempio le dita della mia mano. Se non posso far cooperare le mie dita, esse sono inutili per me. Se lavorano insieme, diventa facile sollevare la tazza e bere il caffé. Se le dita si mettono a competere e a litigare, non raggiungerò mai la tazza. Prova a pensare alle tradizioni come a diverse dita al servizio di uno stesso corpo.
Quando iniziai a lavorare a Greyston, moltissimi mi consigliarono di non includere nei nostri sforzi il governo. Molti mi dissero di lasciar fuori le chiese, che non erano adatte, di escludere i ricchi. Ma io creai un consiglio direttivo che includeva tutti. La mia idea è di creare un mandala che includa tutti quanti, per imparare a trasformare i nemici in alleati. Di nuovo considera come i nostri corpi non potrebbero funzionare se ogni parte andasse a casaccio rispetto all'altra. In ogni caso stiamo parlando di qualcosa di grosso, siamo arrivati a un bel punto e così è la vita: è il ganze, il Tutto. Il cerchio infinito!

E quando la gente dice che il lavoro del buddhismo è l'illuminazione?
Ma cos'è l'illuminazione? Per me lo stato illuminato è la realizzazione dell'unità della vita. E la prova è nei fatti: come ti comporti? Aiuti gli altri?

In altre parole, il riconoscimento dell'unità della vita porterebbe le persone a lavorare naturalmente per il beneficio degli altri?
Penso di sì. Ho letto nello Shingon che la profondità della realizzazione di qualcuno può essere scorta dal loro servizio agli altri. All'umanità. O al pianeta. È un processo senza fine. Secondo me, l'ampiezza della tua comprensione dell'unità della vita è l'ampiezza della tua illuminazione.

Nel vostro sito web dici che uno degli scopi del lavoro del peacemaker è di diventare "chi si è veramente". È questo il riconoscimento dell'unità della vita, comprendere che non c'è separazione?
Proprio così. Quando i vari meravigliosi maestri di diverse tradizioni hanno usato come koan fondamentale: "Chi sono io?", ci hanno portato sempre più profondamente nella realizzazione dell'unità della vita. Facciamo un passo indietro. Immagina che abbia una malattia a causa della quale io creda che le mie mani non facciano parte di me. Ora, per riprendere il discorso, la vera malattia è che penso che tu non sia parte di me. Ma tutti hanno una qualche comprensione dell'unità della vita. Possono averla attraverso il corpo, la famiglia, il loro club, la società.

Molti sono contrari all'azione sociale. Se ogni cosa è illuminata così com'è, si chiedono, qual è il punto?
È piuttosto semplicistico. Non riesco a immaginare molta gente che dica: "Sì, certo, ho questo corpo, è illuminato così com'è, quindi non devo nutrirlo, non devo lavarlo, vestirlo, è così com'è. Se si ammala, va bene, lascialo ammalato."
In realtà, non so nemmeno cosa davvero significhi l'espressione 'azione sociale'. Quando guardi al quadro complessivo, si tratta semplicemente di prendersi cura delle cose che ne hanno bisogno. Prendersi cura degli aspetti di sé che ne hanno bisogno. Forse per 'azione sociale' si intende il prendersi cura degli altri. Ma in effetti non esiste un 'altro'.

E tuttavia, incontri qualcuno che ha fame. Lui sente la fame, ma io no. Il non sentirla è un effetto dell'ignoranza?
Ignoranza nel senso di vedere la separazione. Rifletti su questo koan: se nutri il bestiame in Cina, le mucche saranno sazie nel Maine. Cosa significa? A che livello di profondità possiamo realizzare l'unità della vita? Quando Madre Teresa diceva di prendersi cura di Cristo nell'attendere ai bisogni degli altri, stava riconoscendo questa unità. Non è azione sociale. È comune buon senso.

Puoi parlare di questo rispetto ai principi dello Zen Peacemaker Order? Come, per esempio, il non conoscere conduce a portare testimonianza all'unità della vita e dunque ad agire?
Di nuovo, se prendi in considerazione il tuo corpo, non dirai: "Queste mani fanno parte di me". Qualunque concetto tu abbia è un concetto di separazione, ma riguardo al tuo corpo riconosci che non c'è separazione. Nello stato di non sapere ti prenderai automaticamente cura delle cose che sorgono; non c'è separazione.

Se qualcuno dicesse: "Il mondo va a rotoli, l'ambiente è in grave pericolo, abbiamo raggiunto il punto di non ritorno, perderemo la battaglia." e se ci credesse davvero, cosa risponderesti?
Se immaginassi di avere una gravissima malattia, metti un cancro, e vedessi che va tutto quanto storto nelle cellule del mio corpo, direi: "Bene, accidenti, sono senza speranza, morirò." È così, ma la mia unica scelta sarebbe di fare il possibile per migliorare la situazione. È la risposta naturale: si tratta del nostro corpo. E se davvero facciamo l'esperienza di noi stessi, ci 'grokkiamo', come fossimo l'intero universo, come puoi contaminare te stesso? Non puoi. Cominceresti ad occupartene, a prendertene cura. E ritorniamo alla fede per cui grazie alla realizzazione dell'unità farai il meglio che potrai senza alcuna aspettativa di guarigione.

In altre parole, non c'è altro da fare?
Sì, è così che la penso; non ho speranze in un mondo migliore; non so cosa voglia dire. Voglio dire che il mondo è quello che è e io farò il mio meglio per guarire quel che posso, per compiere azioni amorevoli.

Dove pensi che vada il buddhismo in America?
Mi entusiasma vedere dove si dirige e osservarne lo svolgimento. Il nostro paese è vario e gli insegnanti occidentali hanno praticato il buddhismo in diverse culture. La mia pratica principale è lo Zen, ma mi ha influenzato anche la pratica tibetana e sono molto attratto dalla vipassana. Se osservo la mia vita, noto che il mio insegnamento utilizza molti diversi indirizzi di pratica. E in Occidente siamo influenzati dal sufismo, dall'ebraismo, da così tanti indirizzi diversi. Ed è qualcosa di nuovo.
Molto tempo fa seguii un corso di buddhismo allo UCLA in cui una donna parlò del buddhismo come della religione dell'assimilazione. Dunque stiamo vivendo questo periodo di assimilazione e non è chiaro cosa ne nascerà. Penso che accadrà che i gruppi che sono fortemente allineati con una tradizione asiatica diventeranno pian piano sempre meno numerosi. E i gruppi che nasceranno da questa nuova religione occidentale diventeranno sempre più forti e numerosi. Sarà entusiasmante vedere quali upaya e forme di pratica ne nasceranno.

Un sacco di persone sembrano assaggiare le diverse tradizioni come farebbero coi pasticcini. Altre seguono rigidamente una tradizione. Ne è nato un vero e proprio self-service ed è facile perdersi. Qualche consiglio?
Di seguire il cuore. Sei a un banchetto, con tanti diversi cibi e dici: "Beh, cosa scelgo? Sarebbe meglio andare in un locale dove servono, metti, cibo cinese così saprò cosa prendere."
Questo è un modo e se ti si calza, va bene, dovresti fare così. Ma puoi anche essere a un banchetto e assaggiare tante cose diverse. Yasutani Roshi, che è stato uno dei miei maestri, diceva: "Se vai a Tokyo, troverai dei negozi di tagliatelle giapponesi. Forse centinaia di questi negozi, tutti con tagliatelle speciali. Ma se vieni nel mio negozio, io ti servirò le tagliatelle che vuoi tu." Funzionano entrambi i modi. E puoi perderti in entrambi, puoi bloccarti su una strada o confonderti tra molte. Personalmente, non temo i banchetti. Mi sono interessato di sufismo, di vedanta e mi sento a casa con l'ebraismo, mi piace la pratica dei monasteri trappisti. Hanno ampliato gli orizzonti del mio addestramento di base nello Zen.

Qualsiasi cosa purché funzioni?
Questo è quello che penso.

E cosa ne pensi del proliferare degli insegnanti di Dharma? Molti si preoccupano dell'"autenticità". Ci si preoccupa molto se un insegnante sia qualificato e se gli insegnamenti siano il "vero Dharma".
Dogen dice che non si può macchiare il Dharma e io ho fede in questo. Alcuni insegnanti non sono molto preparati e scompariranno. Alcuni sono straordinari come Shakyamuni e dureranno. Il Dharma si prende cura di se stesso. Sono diventato molto più liberale su questo argomento. Ci sarà un'autoregolazione.

Cosa vuol dire quando qualcuno dice di "proteggere il Dharma"?
È molto soggettivo, no? Se Dogen dice che non puoi macchiare il Dharma, cosa significa proteggerlo? Spesso, quando sento quest'espressione, penso che in realtà stiano dicendo: "Devo proteggere la mia immagine del Dharma."

Ti sei smonacato per insegnare come laico. Perché?
C'è un ruolo monastico e c'è un ruolo laico. Monaci e laici hanno forme diverse di pratica e sono tutte valide. Poiché guardo alla totalità della vita, vedo che tutte le forme hanno il loro scopo. Quello che non condivido è che solo i monaci possano illuminarsi. Personalmente, sono interessato a lavorare con upaya che si rivolgono ai non monaci e penso che è in questo campo che io sono più efficace. Avrei potuto continuare a lavorare entro i confini della tradizione del mio insegnante, Maezumi Roshi, ma volevo rivolgermi a chiunque. Non solo ai monaci, non solo alle persone che arrivano a uno zendo, ma a tutti.

Nel tuo libro Bearing Witness dici di aver iniziato come tipo molto solitario. E ora sei conosciuto da molti, e raramente sei solo.
Cerco di includere tutti, assicurandomi che ci siano anche quelli da cui facilmente potremmo distogliere lo sguardo. Buffo, no? All'inizio un solitario e ora do il più grande dei ricevimenti!

Cos'è successo?
Ho intitolato il mio nuovo libro The Infinite Circle perché questo è il mio ruolo nella vita: allargare il cerchio, ampliare il nostro spazio di gioco. Qualunque sia la nostra realizzazione, a qualunque profondità giungiamo, finiamo coll'inscatolarci di nuovo. Cominciamo a decorare la scatola, a renderla più bella o più comoda. E poi ci vantiamo con i nostri amici: "Guarda che vita grandiosa è la mia." Dunque, a me piace demolire i muri di queste scatole, pur sapendo che sto solo creando una scatola più grande. La meta è un cerchio infinito in cui è inclusa ogni cosa. Ed è un lavoro che prende innumerevoli vite, dunque non ho fretta. (risata)


da Tricycle, inverno 2001
Traduzione di Chandra Candiani
Foto di Peter Cunningham


(1) La memetica (o scienza del meme) è una nuova disciplina nata da un concetto coniato da Richard Dawkins nel 1976. L'idea, apparentemente semplice, è che esistano delle unità di trasmissione della cultura, dette memi. In altri termini, i memi sono le idee che, trasmesse da mente a mente, acquisiscono una sorta di vita autonoma e manifestano una loro caratteristica capacità di diffusione e replicazione. Dal punto di vista della memetica, non è importante quanto un'idea sia vera o profonda, ma come e quanto si diffonda e si replichi. La forza di un meme, dunque, non deriva dalla sua verità o bellezza, ma da una serie di altri fattori che sono appunto l'oggetto di studio della memetica.

Nato a Brooklyn da una famiglia di immigrati ebrei, Bernie Glassman ha iniziato lo studio dello Zen con Taizan Maezumi Roshi nel 1967 mentre lavorava come ingegnere nell'industria aerospaziale. Ricevuta la trasmissione del Dharma, nel 1980 ha fondato la comunità Zen di New York e più tardi il Greyston Mandala a Yonkers, New York, un insieme di strutture che forniscono vari servizi sociali alla popolazione. Insieme alla moglie, Roshi Sandra Jishu Holmes (1941-1998), nel 1996 ha fondato lo Zen Peacemaker Order, e poi la Peacemaker Community, un network globale e multireligioso che integra spiritualità e lavoro per la costruzione della pace. Nel 2000, ha lasciato l'abito per porre l'accento sulla pratica laica dello Zen.
È autore di Instructions to the cook (Il pane e lo Zen, Ubaldini, 1997), Bearing Witness: A Zen Master's Lessons in Making Peace (Testimoniare, Ubaldini 1999) e del libro, appena uscito, The Infinite Circle (Shambala, 2002).