Con mente tranquilla, con cuore aperto
di Saki Santarelli

Saki Santarelli da più di 15 anni, insieme a Jon Kabat-Zinn, conduce corsi basati sull'insegnamento della consapevolezza per persone che soffrono di dolori cronici o di malattie associate con lo stress. Inoltre insegna anche in un programma indirizzato agli studenti di medicina che esplora il ruolo della mente contemplativa nella pratica medica. E' direttore del Centro per la Consapevolezza nella medicina, nella Sanità e nella società presso l'Università del Massachusetts.
Il libro di cui pubblichiamo qui un capitolo - purtroppo ancora inedito in italiano - racconta proprio il programma con le persone malate e la reciprocità che esiste tra paziente e medico nel rapporto di guarigione, un aspetto questo che la medicina di oggi ha quasi dimenticato.


La mente è la superficie del cuore,
il cuore la profondità della mente
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Hazrat Inayat Khan


Spesso, all'interno dell'espressione presenza mentale si fraintende il termine mente/mentale confondendolo col pensare o il limitare l'attenzione all'ambito cognitivo, immaginando che ci venga richiesto di impegnarci in una qualche forma di introspezione, di auto-analisi discorsiva, o di ginnastica mentale. In parole semplici, la presenza mentale consiste nel prestare piena attenzione a qualsiasi cosa stia accadendo e l'attenzione non è sinonimo di pensare.
Come rivela la citazione del maestro sufi Inayat Khan, il linguaggio di molte tradizioni contemplative rammenta che i termini "mente" e "cuore" non sono distinti. Anche l'artista e calligrafo giapponese Kazuaki Tanahashi descrive il carattere giapponese che si usa per definire la presenza mentale come composto di due figure interattive. Una rappresenta la mente, l'altra il cuore. Il cuore e la mente non sono immaginati separatamente. Partendo da questa prospettiva, Tanahashi traduce il termine "presenza mentale" con "portare il cuore-mente in questo momento".
Prendersi cura o essere oggetto di cura mantenendo l'equilibrio cuore-mente non è facile. Noi tutti passiamo troppo spesso da un estremo all'altro: o ci smarriamo nella simpatia e nella sofferenza dell'altro o ci ritroviamo a osservare freddamente, a distanza, in disparte e senza coinvolgimento. Le qualità di una mente tranquilla sono la spaziosità e la limpidezza, la fonte della nostra capacità di discernere con saggezza. Il cuore aperto è tenero, caldo e fluido. Unite, queste qualità ci permettono di percepire in profondità e di agire con saggezza. Anche nel caso in cui agire significa non fare niente. Forse, la compassione, nel suo significato più pieno, è il delicato equilibrio di una mente tranquilla e di un cuore aperto. Nella realazione curativa ci sono molte opportunità per coltivare questa qualità di presenza. Ma cosa significa una mente tranquilla e un cuore aperto? A cosa è simile? Anche se non posso sapere come sia per un altro, la mia sensazione è che abbiamo tutti assaporato questo modo di essere. E' difficile da afferrare, ma non è qualcosa da raggiungere, è piuttosto qualcosa da rivelare. Qualcosa che può essere coltivato attraverso il prestare attenzione. Qualcosa verso cui essere svegli, sia quando è presente che quando è assente.

Proprio oggi, passando dalla larga porta blu antincendio dietro l'angolo della clinica, mi sono inaspettatamente imbattuto nel gioco cangiante del cuore-mente. Mi sono trovato faccia a faccia con un uomo che aveva frequentato un corso un anno fa. Me lo ricordavo bene, soprattutto perché aveva sofferto per due anni di un persistente e cronico dolore alla schiena e alle gambe. A causa di questo disturbo, poteva stare in piedi o camminare solo tre o quattro ore al giorno e non poteva fare da padre ai suoi figli ancora piccoli nel modo in cui avrebbe desiderato. Mi aveva parlato spesso del profondissimo rammarico che provava per non poter giocare liberamente con i suoi bambini, dell'irritabilità causatagli dal dolore, della tensione che incombeva sul suo matrimonio e sul suo senso di virilità e della costante precarietà della situazione finanziaria della sua famiglia.
Sapendo tutto questo, mi ero sentito malissimo, quando aveva affermato di non aver avuto alcun miglioramento riguardo al dolore. Mi rivedevo seduto con lui durante il colloquio alla fine del corso, mentre lo guardavo negli occhi, sentendo la sua rassegnazione mista alla sua frustrazione e insieme percependo il mio lento sedimentare nella verità della sua esperienza. Accade spesso. Essere vigili in momenti come questo dà grandi frutti. Ci si sente sedotti sia dal desiderio di scappare in una sorta di distaccata distanza clinica in modo da non sentire la sofferenza dell'altro, che, all'inverso, dallo smarrirsi nel proprio stesso patos o nella vergogna o nel senso di inadeguatezza.
Era evidente che tutti e due avevamo sperato di più e che nessuno dei due biasimava l'altro o riteneva la condizione attuale equivalente a un fallimento. Tuttavia restavamo insoddisfatti e non ci piaceva lasciare le cose in quel modo. Discutendo di altre possibilità di intervento per la sua situazione avevamo deciso di prendere un appuntamento con la Pain Clinic (clinica del dolore). Alla fine del colloquio, percorremmo insieme il corridoio e ci stringemmo la mano; alcune settimane dopo ci parlammo di nuovo per telefono. Era stata l'ultima volta che avevo avuto sue notizie.
La parte superiore del suo tronco pende verso sinistra, la mano destra si tiene all'ampia ringhiera di sicurezza verso il muro. Stringendogli di nuovo la mano, gli chiedo come sta. Se il dolore è cambiato. Come va la sua famiglia. Risponde che il dolore è ancora intenso, che non lo abbandona quasi mai. Alcune recenti cure analgesiche gli hanno dato un po' di sollievo alla schiena, ma nessuno alle gambe. Fa tuttora molta fatica a camminare. Mentre parla, sento che rispondo alla sua evidente sofferenza aprendomi. Ma i miei occhi vagano, rifuggono dalla sua faccia, da questi occhi che dicono così tanto. Sento il battito delle palpebre, lo spostarsi dello sguardo. Suppongo che per lui questi minimi movimenti siano difficilmente percepibili. Per me, dall'interno, sono chiaramente evidenti, connessi con la marea interiore e con il trambusto della memoria che mi sospinge nella sensazione di non aver fatto abbastanza, di desiderare di più. Se non prestiamo loro attenzione o non le elaboriamo, queste onde riescono a prendere il sopravvento, a farsi largo, a erodere il suolo dove, in questo affollato corridoio, siamo momentaneamente insieme.
Sentire questa forza che mi attira mi mette in grado di fermarmi, mi permette di vedere che benché io sia in piedi di fronte a lui, in un altro senso, lo sto lasciando completamente solo. Tuttavia, sono risoluto a non mollare. Il cerchio senza saldature del respiro è un alleato, le sensazioni nel mio corpo strumenti di precisione che misurano le dimensioni invisibili del nostro incontro. L'impegno ad essere presenti al transitorio disagio è un piccolo prezzo da pagare per questa connessione. Nel mezzo di tutto questo, è sufficiente far ritorno ai suoi occhi. Non chiede nulla. Dimorando qui, il cuore si fa più tenero e la mente si acquieta in un silenzio e in una spaziosità che né chiede né rifiuta alcunché. Qui, nel corridoio, familiarizziamo l'uno con l'altro, poi, quando è il tempo, ci separiamo.

Traduzione di Chandra Candiani da: "Heal Thy Self", Bell Tower, 1999.