La mia esperienza allo Zen Hospice di San Francisco

di Elisabeth Manning

Due anni fa, quando ho partecipato al seminario che Frank Ostaseski (allora direttore dello Zen Hospice Project) fece a Venezia, sapevo già che volevo andare a San Francisco, allo Zen Hospice, per fare il training per volontari sull'accompagnamento a chi sta per morire.
Durante l'esercizio in cui Frank fa passare velocemente tra i partecipanti delle fotografie di persone che sono state ricoverate alll'hospice e ormai sono tutte già morte, a me alla fine era rimasta in mano la foto di un giovane uomo di colore molto arrabbiato. Ricordo che allora ebbi una sensazione di paura: ma io potrò mai affrontare una simile situazione? Quando poi ho dovuto riempire la domanda di ammissione al corso che era molto dettagliata sulle esperienze di lutto che ciascuno aveva vissuto, per me la domanda più difficile è stata quella che mi chiedeva di definire la mia identità culturale. Ho avuto un rifiuto verso questa domanda per diversi giorni… a mano a mano veniva fuori la mia paura: ma riuscirò a relazionarmi con persone che so essere senza casa, ammalati di AIDS, tossici, ecc.
Perché lo Zen Hospice nasce nel 1987 come tentativo di dare un indirizzo a chi viveva per strada non potendo di conseguenza accedere ai servizi pubblici. L'Hospice è una bellissima casa vittoriana, chiamata 'The Guest House', con 5 stanze e altrettanti degenti. L'assistenza dal punto di vista medico e infermieristico è assicurata da una struttura che opera a domicilio (Hospice by the Bay), mentre i volontari fanno tutto quello che farebbe un familiare: la spesa, puliscono, cucinano e poi anche le cose più intime per il paziente, come il bagno, ecc. Tengono compagnia, anche quando questo significa guardare insieme il Grande Fratello! Ascoltano, o semplicemente stanno vicino, quando la persona non ha più energie per parlare.
Lo Zen Hospice fornisce i volontari per un posto molto diverso: nel 1998 un medico del Laguna Hospital, un enorme ospedale geriatrico di 1.100 posti, ha voluto creare lì un hospice. È stato così attrezzato un reparto per 28 pazienti, 14 donne e 14 uomini, che riflettono in pieno la popolazione di San Francisco.
Lavorandoci ho conosciuto persone di ogni etnia, fede e orientamento sessuale. Tutti e due i posti, anche se molto diversi dall'esterno, raggiungono in pieno l'obiettivo dell'hospice che è di aiutare la persona malata a vivere, con la migliore qualità possibile, quello che ancora le resta da vivere. La degenza non è gratuita, ma ho potuto constatare che in entrambi i posti ciascuno veniva accettato in base alle esigenze di salute e non per la possibilità di pagare.
In 30 circa abbiamo partecipato al training che è durato circa 40 ore: uomini, donne, giovani, meno giovani, di otto diverse nazionalità e con ogni tipo di impiego. Quando la prima sera ci è stato chiesto di presentarci e di spiegare brevemente la nostra motivazione, sono stati un medico e due infermieri quelli che mi hanno colpito di più, dicendo che volevano riscoprire la motivazione che li aveva portati a fare il lavoro che avevano scelto.
La prima parte del corso riguardava soprattutto il rapporto con la nostra sofferenza, con i lutti nelle nostre vite, il dolore della perdita. Dopo ogni esercizio che facevamo in gruppo, ci sedevamo e meditavamo anche per pochi minuti prima di passare alla condivisione. E nello stesso modo si aprivano e terminavano tutti gli incontri. E questo aiutava molto a sentirsi centrati, senza sovrappiù di emozioni da scaricare, riuscendo a giungere all'essenziale dell'esperienza appena provata. Poi, a poco a poco, l'accento si spostava sul servizio agli altri. C'è stato un incontro con due pazienti della Guest House: Miriam, colta, brillante e senza casa e Clint, molto timido, invece. C'erano anche i familiari e gli amici di tre persone che erano morte lì quell'anno. È stato molto utile sentire che cosa li aveva aiutati mentre i loro cari stavano morendo, ma ancora più utile è stato ascoltare che cosa non li aveva aiutati.
Ci sono stati insegnati molti aspetti estremamente pratici come ad esempio imboccare una persona. Si provava direttamente, a coppie, imboccandosi a turno, bendati, immaginando di essere una persona cieca e non più in grado di parlare. Il cibo è molto importante per chi sta male ed è stato molto utile aver provato prima su noi stessi. Così come estremamente utile si è rivelato l'aver provato prima tra di noi come si fa il bagno a letto. O come mettere il pannolone, come toccare il malato, come girarlo nel letto, ecc.
Abbiamo fatto anche dei "giochi di ruolo" per esplorare insieme le varie situazioni difficili in cui ci saremmo potuti trovare. Ma al di là dell'ottimo contenuto del corso, per me l'aiuto più grande è stato il sentirmi tenuta, accettata e non giudicata dagli insegnanti, Frank, Eric, Zuza e Brad e da tutto il resto del gruppo. C'era un clima di profonda fiducia reciproca che ho trovato estremamente arricchente.
Terminato il corso sono rimasta due mesi a lavorare in entrambe le strutture. A ogni cambio turno, prima del passaggio di consegne, ci incontravamo tutti insieme per una seduta di meditazione. E questo ha aiutato davvero molto la mia possibilità di essere presente durante le ore che stavo lì.
Ancora oggi quando rifletto su quel periodo passato a San Francisco, a me sembra che sia stato tutto come un ritiro, un ritiro senza dubbio aperto a molti stimoli che non ci sono in un ritiro normale. Prima di partire avevo trascorso un mese di ritiro intensivo, ma penso che propio il tipo di lavoro che svolgevo, le continue sedute di meditazione hanno fatto sì che avessi una grande facilità ad essere presente, e non solo dentro l'hospice. E una condizione così difficilmente mi durava più di qualche giorno dopo un ritiro normale.
Durante il corso, Frank ci aveva detto che i pazienti sarebbero stati i nostri insegnanti e che avremmo visto in loro i nostri familiari più cari. Una signora cinese, una donna di 79 anni, l'età di mia madre, stava morendo e il marito Huan, sebbene fosse cinese, mi ricordava molto mio padre. Per lui era molto difficile accettare che la moglie stesse per lasciarlo e continuava a ripetere: "Ma siamo insieme da 56 anni…".
Il direttore con l'aiuto di un interprete ha cercato di fargli capire che la moglie stava per morire. Ero molto presa dalla sofferenza di quest'uomo, ero a fine turno e sono scesa per la riunione tra di noi. E lì, durante la seduta di meditazione, ho visto chiaramente che in fondo il mio dolore nasceva dal sapere che avrei perso i miei genitori. Prima nella stanza non lo avevo visto.
Il giorno successivo ero nella stanza sistemando dei fiori quando lui è arrivato e le ha presa la mano e insieme hanno pianto. Ho ispirato il loro dolore e ho espirato il mio amore e questo mi ha riconciliato molto con il sapere che un giorno perderò i miei genitori.
Verso la fine del mio periodo a San Francisco, c'era una donna di colore sui 70 anni di nome Betty a cui ero molto affezionata. Stava morendo e io ero andata a farle compagnia una domenica mattina. Aveva la fronte molto calda e io ho sempre le mani molto fredde e così a lei piaceva che la toccassi. Mi trovai a dirle: "Ti voglio bene, Betty", e nel momento che lo dicevo ho visto come in un flash la mia paura iniziale sul fatto che non sarei stata capace di stabilire un rapporto. Ho sorriso e le ho detto: "So che sembra incredibile, non ci conosciamo, ma è vero: ti voglio bene". Allora lei mi prese la testa e portò la mia fronte fino a toccare la sua e mi disse: "Grazie".
Direi che la cosa più grande che ho ricevuto da tutta questa esperienza è stata la maggiore possibilità che ho sentito di accettare me stessa, di amarmi per come sono per poter accettare e amare gli altri. E questo mi è rimasto.
Attualmente lavoro a Roma per la Fondazione Sue Ryder in quella che viene chiamata 'assistenza al lutto', cioé parlo con i familiari della persone ammalata che riceve l'assistenza domiciliare e il mio rapporto con loro prosegue anche dopo il lutto.
A volte mi è capitato di trovarmi in situazione in cui niente è come tu vorresti, nella stanza della persona che tu sai ha molto poco ancora da vivere, c'è la televisione accesa, l'ex marito che litiga con la figlia, la vicina di casa un po' curiosa che è venuta a sentire. Io sedevo lì e sentivo la distanza tra me e tutti loro e mi sentivo male; poi però ho visto il mio giudizio e allora l'ho tolto, proprio come se fosse un cappotto e l'ho depositato. A quel punto è nata una bella conversazione con la donna ammalata: la televisione era sempre lì, l'ex marito, ecc ma ora era tutto molto differente.
L'esperienza che ho fatto a San Francisco mi aiuta enormemente: innanzitutto delle volte, anzi direi molto spesso, non c'è bisogno di far nulla. Semplicemente stare lì e raccogliere i racconti degli altri, sentire che cosa hanno da dire. Il solo fatto di essere lì in qualche modo li aiuta perché sanno che tieni la loro sofferenza.
È un lavoro molto speciale, ma, in fondo, molto normale.