Due
anni fa, quando ho partecipato
al seminario che Frank Ostaseski
(allora direttore dello Zen Hospice
Project) fece a Venezia, sapevo
già che volevo andare a
San Francisco, allo Zen Hospice,
per fare il training per volontari
sull'accompagnamento a chi sta
per morire.
Durante l'esercizio in cui Frank
fa passare velocemente tra i partecipanti
delle fotografie di persone che
sono state ricoverate alll'hospice
e ormai sono tutte già
morte, a me alla fine era rimasta
in mano la foto di un giovane
uomo di colore molto arrabbiato.
Ricordo che allora ebbi una sensazione
di paura: ma io potrò mai
affrontare una simile situazione?
Quando poi ho dovuto riempire
la domanda di ammissione al corso
che era molto dettagliata sulle
esperienze di lutto che ciascuno
aveva vissuto, per me la domanda
più difficile è
stata quella che mi chiedeva di
definire la mia identità
culturale. Ho avuto un rifiuto
verso questa domanda per diversi
giorni
a mano a mano veniva
fuori la mia paura: ma riuscirò
a relazionarmi con persone che
so essere senza casa, ammalati
di AIDS, tossici, ecc.
Perché lo Zen Hospice nasce
nel 1987 come tentativo di dare
un indirizzo a chi viveva per
strada non potendo di conseguenza
accedere ai servizi pubblici.
L'Hospice è una bellissima
casa vittoriana, chiamata 'The
Guest House', con 5 stanze e altrettanti
degenti. L'assistenza dal punto
di vista medico e infermieristico
è assicurata da una struttura
che opera a domicilio (Hospice
by the Bay), mentre i volontari
fanno tutto quello che farebbe
un familiare: la spesa, puliscono,
cucinano e poi anche le cose più
intime per il paziente, come il
bagno, ecc. Tengono compagnia,
anche quando questo significa
guardare insieme il Grande Fratello!
Ascoltano, o semplicemente stanno
vicino, quando la persona non
ha più energie per parlare.
Lo Zen Hospice fornisce i volontari
per un posto molto diverso: nel
1998 un medico del Laguna Hospital,
un enorme ospedale geriatrico
di 1.100 posti, ha voluto creare
lì un hospice. È
stato così attrezzato un
reparto per 28 pazienti, 14 donne
e 14 uomini, che riflettono in
pieno la popolazione di San Francisco.
Lavorandoci ho conosciuto persone
di ogni etnia, fede e orientamento
sessuale. Tutti e due i posti,
anche se molto diversi dall'esterno,
raggiungono in pieno l'obiettivo
dell'hospice che è di aiutare
la persona malata a vivere, con
la migliore qualità possibile,
quello che ancora le resta da
vivere. La degenza non è
gratuita, ma ho potuto constatare
che in entrambi i posti ciascuno
veniva accettato in base alle
esigenze di salute e non per la
possibilità di pagare.
In 30 circa abbiamo partecipato
al training che è durato
circa 40 ore: uomini, donne, giovani,
meno giovani, di otto diverse
nazionalità e con ogni
tipo di impiego. Quando la prima
sera ci è stato chiesto
di presentarci e di spiegare brevemente
la nostra motivazione, sono stati
un medico e due infermieri quelli
che mi hanno colpito di più,
dicendo che volevano riscoprire
la motivazione che li aveva portati
a fare il lavoro che avevano scelto.
La prima parte del corso riguardava
soprattutto il rapporto con la
nostra sofferenza, con i lutti
nelle nostre vite, il dolore della
perdita. Dopo ogni esercizio che
facevamo in gruppo, ci sedevamo
e meditavamo anche per pochi minuti
prima di passare alla condivisione.
E nello stesso modo si aprivano
e terminavano tutti gli incontri.
E questo aiutava molto a sentirsi
centrati, senza sovrappiù
di emozioni da scaricare, riuscendo
a giungere all'essenziale dell'esperienza
appena provata. Poi, a poco a
poco, l'accento si spostava sul
servizio agli altri. C'è
stato un incontro con due pazienti
della Guest House: Miriam, colta,
brillante e senza casa e Clint,
molto timido, invece. C'erano
anche i familiari e gli amici
di tre persone che erano morte
lì quell'anno. È
stato molto utile sentire che
cosa li aveva aiutati mentre i
loro cari stavano morendo, ma
ancora più utile è
stato ascoltare che cosa non li
aveva aiutati.
Ci sono stati insegnati molti
aspetti estremamente pratici come
ad esempio imboccare una persona.
Si provava direttamente, a coppie,
imboccandosi a turno, bendati,
immaginando di essere una persona
cieca e non più in grado
di parlare. Il cibo è molto
importante per chi sta male ed
è stato molto utile aver
provato prima su noi stessi. Così
come estremamente utile si è
rivelato l'aver provato prima
tra di noi come si fa il bagno
a letto. O come mettere il pannolone,
come toccare il malato, come girarlo
nel letto, ecc.
Abbiamo fatto anche dei "giochi
di ruolo" per esplorare insieme
le varie situazioni difficili
in cui ci saremmo potuti trovare.
Ma al di là dell'ottimo
contenuto del corso, per me l'aiuto
più grande è stato
il sentirmi tenuta, accettata
e non giudicata dagli insegnanti,
Frank, Eric, Zuza e Brad e da
tutto il resto del gruppo. C'era
un clima di profonda fiducia reciproca
che ho trovato estremamente arricchente.
Terminato il corso sono rimasta
due mesi a lavorare in entrambe
le strutture. A ogni cambio turno,
prima del passaggio di consegne,
ci incontravamo tutti insieme
per una seduta di meditazione.
E questo ha aiutato davvero molto
la mia possibilità di essere
presente durante le ore che stavo
lì.
Ancora oggi quando rifletto su
quel periodo passato a San Francisco,
a me sembra che sia stato tutto
come un ritiro, un ritiro senza
dubbio aperto a molti stimoli
che non ci sono in un ritiro normale.
Prima di partire avevo trascorso
un mese di ritiro intensivo, ma
penso che propio il tipo di lavoro
che svolgevo, le continue sedute
di meditazione hanno fatto sì
che avessi una grande facilità
ad essere presente, e non solo
dentro l'hospice. E una condizione
così difficilmente mi durava
più di qualche giorno dopo
un ritiro normale.
Durante il corso, Frank ci aveva
detto che i pazienti sarebbero
stati i nostri insegnanti e che
avremmo visto in loro i nostri
familiari più cari. Una
signora cinese, una donna di 79
anni, l'età di mia madre,
stava morendo e il marito Huan,
sebbene fosse cinese, mi ricordava
molto mio padre. Per lui era molto
difficile accettare che la moglie
stesse per lasciarlo e continuava
a ripetere: "Ma siamo insieme
da 56 anni
".
Il direttore con l'aiuto di un
interprete ha cercato di fargli
capire che la moglie stava per
morire. Ero molto presa dalla
sofferenza di quest'uomo, ero
a fine turno e sono scesa per
la riunione tra di noi. E lì,
durante la seduta di meditazione,
ho visto chiaramente che in fondo
il mio dolore nasceva dal sapere
che avrei perso i miei genitori.
Prima nella stanza non lo avevo
visto.
Il giorno successivo ero nella
stanza sistemando dei fiori quando
lui è arrivato e le ha
presa la mano e insieme hanno
pianto. Ho ispirato il loro dolore
e ho espirato il mio amore e questo
mi ha riconciliato molto con il
sapere che un giorno perderò
i miei genitori.
Verso la fine del mio periodo
a San Francisco, c'era una donna
di colore sui 70 anni di nome
Betty a cui ero molto affezionata.
Stava morendo e io ero andata
a farle compagnia una domenica
mattina. Aveva la fronte molto
calda e io ho sempre le mani molto
fredde e così a lei piaceva
che la toccassi. Mi trovai a dirle:
"Ti voglio bene, Betty",
e nel momento che lo dicevo ho
visto come in un flash la mia
paura iniziale sul fatto che non
sarei stata capace di stabilire
un rapporto. Ho sorriso e le ho
detto: "So che sembra incredibile,
non ci conosciamo, ma è
vero: ti voglio bene". Allora
lei mi prese la testa e portò
la mia fronte fino a toccare la
sua e mi disse: "Grazie".
Direi che la cosa più grande
che ho ricevuto da tutta questa
esperienza è stata la maggiore
possibilità che ho sentito
di accettare me stessa, di amarmi
per come sono per poter accettare
e amare gli altri. E questo mi
è rimasto.
Attualmente lavoro a Roma per
la Fondazione Sue Ryder in quella
che viene chiamata 'assistenza
al lutto', cioé parlo con
i familiari della persone ammalata
che riceve l'assistenza domiciliare
e il mio rapporto con loro prosegue
anche dopo il lutto.
A volte mi è capitato di
trovarmi in situazione in cui
niente è come tu vorresti,
nella stanza della persona che
tu sai ha molto poco ancora da
vivere, c'è la televisione
accesa, l'ex marito che litiga
con la figlia, la vicina di casa
un po' curiosa che è venuta
a sentire. Io sedevo lì
e sentivo la distanza tra me e
tutti loro e mi sentivo male;
poi però ho visto il mio
giudizio e allora l'ho tolto,
proprio come se fosse un cappotto
e l'ho depositato. A quel punto
è nata una bella conversazione
con la donna ammalata: la televisione
era sempre lì, l'ex marito,
ecc ma ora era tutto molto differente.
L'esperienza che ho fatto a San
Francisco mi aiuta enormemente:
innanzitutto delle volte, anzi
direi molto spesso, non c'è
bisogno di far nulla. Semplicemente
stare lì e raccogliere
i racconti degli altri, sentire
che cosa hanno da dire. Il solo
fatto di essere lì in qualche
modo li aiuta perché sanno
che tieni la loro sofferenza.
È un lavoro molto speciale,
ma, in fondo, molto normale.