Al servizio della vita

Intervista con Rachel Naomi Remen
a cura di Eva Guralnick

Rachel Naomi Remen è stata uno dei primi medici, un vero pioniere in questo campo, nel considerare la salute come integrazione di mente e corpo. Ha fondato e dirige l'Istituto per lo studio della salute e della malattia che lavora con medici che desiderano rapportarsi ai loro pazienti con maggiore compassione e che intendono riconfermare il giuramento di Ippocrate come modo di vita.
L'intervista che pubblichiamo è ripresa da
"Hospice by the Bay", il bollettino dell'omonima associazione di San Francisco di assistenza ai malati terminali e ai loro familiari.
È autrice del libro, non ancora tradotto in italiano:
"Kitchen Table Wisdom: Stories that Heal" (La saggezza della cucina da tavola: storie che guariscono).

D. Come definisci il servizio?
R. La migliore definizione che mi sia mai capitata di ascoltare l'ha data un mio amico artista che ha detto che il servizio è appartenenza. Ossia una connessione così profonda con la vita e con gli altri che tu sai che il tuo dolore è come se fosse il loro e che la loro gioia è come se fosse tua.
Da questo profondo senso di umanità condivisa emerge una certa gentilezza naturale. Il servizio è appartenenza, sapere che tu appartieni, lasciando che le vite intorno a te tocchino la tua, essendo pronto a tua volta a toccare le vite degli altri.
In America tutto è azione e pensiamo che agendo cambiamo le cose. Ma spesso il cambiamento è più potente quando siamo testimoni, quando riceviamo. Quando riceviamo, quando abbiamo cura, stiamo facendo un'enorme trasformazione per gli altri. Li aiutiamo a trovare la loro forza piuttosto che usare la nostra per aiutarli.

D. Chi è stato il primo a insegnarti il servizio?
R. Mio nonno, era un rabbino ortodosso e un kabbalista che vedeva la vita come una rete di connessioni. Non avrebbe mai usato il termine servizio, sebbene sia stato il primo a insegnarmelo! Fu grazie a lui che mi aprii all'idea che sia possibile avere effetti e influenza profondi nelle vite che ci sono vicine. La maggior parte delle persone non si rendono conto di esserne capaci e non hanno nessuna idea sugli effetti che si possono avere sugli altri. La prima volta che ho fatto esperienza della benedizione del servizio ero ancora abbastanza piccola.
Mio nonno quando veniva a farci visita la domenica, mi portava sempre dei fantastici regali. Una volta arrivò con una piccola tazza fatta di carta piena di terra, io rimasi molto delusa. Mi disse che se promettevo di mettere un po' di acqua tutti i giorni, qualcosa sarebbe successo. Allora abitavo a New York, al sesto piano di un palazzo e dunque non avevo la minima idea di che cosa si potesse trattare. Avevo però un'enorme fiducia in lui e così ogni giorno misi un po' d'acqua nel vaso. La prima settimana ero eccitata, ma quando poi con il passare dei giorni non succedeva nulla iniziai a stancarmi. La seconda settimana fu più dura e cercai di restituirgli la tazza. La terza settimana fu durissima, ma non saltai un giorno.
Una mattina infine comparvero due piccolissime foglioline verdi che non c'erano la notte precedente. Rimasi sbalordita ed ero certa che anche mio nonno lo sarebbe stato, ma ovviamente non era così. Mi disse solo: "La vita è dappertutto, anche nei posti più ordinari e inaspettati". "Ha bisogno solo di acqua?" gli chiesi e lui: "No, tesoro, ha solo bisogno della tua fiducia".
Questa è stata la mia prima lezione sui benefici del servizio. Mio nonno mi insegnò che tutti possiamo benedire la vita e riparare e restaurare il mondo. Sapere che possiamo benedire la vita è la chiave per vivere una vita che valga la pena ricordare. Ci rende capaci di riempire il senso di vuoto che spesso sta al cuore delle nostre vite tanto indaffarate. Chi ha scoperto come benedire la vita non sarà mai solo, non si sentirà mai disconnesso, invisibile.

D. Il servizio è qualcosa che dobbiamo fare intenzionalmente?
R. Spesso aiutiamo gli altri in modi molto profondi senza nemmeno saperlo. Possiamo provocare un enorme cambiamento nella vita di qualcuno attraverso delle piccole cose che diciamo o facciamo, restituendo qualcosa che era smarrito o con un sorriso. Tutti abbiamo benedetto molte più persone e dato un contributo alla vita più grande di quanto siamo portati a credere. Per mio nonno il servizio non aveva niente a che fare con il sacrificio, ma piuttosto con il riempirsi e poi rovesciarsi per così dire sugli altri.
In un certo senso il messaggio basilare del servizio è ripetuto su ogni aereo all'inizio del volo: "Se la pressione della cabina dovesse scendere, mettete la vostra maschera di ossigeno prima di aiutare gli altri". È proprio questo il messaggio fondamentale: se intendi benedire la vita, tu sei la risorsa della vita e non puoi sacrificare te stesso perché la vita ha bisogno di te.

D. Esistono molti tipi di servizio?
R. Ognuno serve nel proprio modo, in modi che sono unici, proprio come le nostre impronte digitali. Nel servizio non usiamo il nostro essere esperti in qualcosa, ma usiamo noi stessi. E dunque ogni servizio sarà unico come lo è ciascuno di noi. Però l'effetto del servizio sugli altri è sempre lo stesso; essi avranno un senso più profondo del loro valore come essere umani, della loro interezza, non importa dove siano nella vita. L'essenza dell'hospice è il servizio.

D. Qual'è la differenza tra riparare, aiutare e servire?
R. Si tratta di tre modi di vedere la vita. Quando si ripara qualcosa ci si fida delle proprie conoscenze e si ripara qualcosa che si vede come rotta. Nell'aiutare si usa tutta la propria forza per aiutare qualcuno che si vede come più debole rispetto a noi. Ma quando si serve, si serve sempre un nostro uguale.
La cosa interessante del servizio è che è reciproco. Aiutare e riparare possono essere molto stancanti, ma servire, invece, rinnova. Otremmo dire che in un certo senso servire è come guarire, mentre riparare e aiutare sono equivalgono a curare. A volte, per esempio, nel nostro lavoro all'hospice, ci troviamo a servire persone le cui condizioni fisiche forse non miglioreranno, ma anche loro possono trovare una maggiore interezza.

D. In che modo il servizio guarisce chi serve?
R. Il servizio è il passo finale nel processo di guarigione da qualsiasi ferita profonda. Quando le persone recuperano è possibile che sentiranno un senso più profondo di connessione con gli altri, di altruismo, di sentirsi aperti al semplice stare lì per gli altri. Qualche volta le nostre ferite potranno aiutarci nella sofferenza, rendendoci più dolci e gentili con le ferite degli altri e insegnandoci la compassione. La nostra solitudine ci aiuta a riconoscere quella degli altri e a trovare coloro che stanno nel buio. Serviamo con la nostra interezza, con tutto ciò che siamo.

D. Che cosa ti hanno insegnato i pazienti terminali?
R. Chi sta per morire assume un rapporto più autentico con le persone che ha intorno perché solo ciò che è realmente genuino mantiene significato per lui. Queste persone lasciano andare i modi con cui si sono adattati per avere l'approvazione degli altri e così facendo rendono possibile anche agli altri di fare lo stesso, ossia di rimuovere le maschere. La loro costante accettazione mi ha permesso di ricordare qualcosa di quasi dimenticato. Stare con loro ha fatto sì che comprendessi quanto mi avessero reso più piccola e debole i modi con cui mi ero cambiata. Parti di me stessa che avevo giudicato e nascosto per annierano benvenute e chi stava per morire aveva bisogno di quelle parti.
Ho sentito la vita in me benedetta da queste persone, l'ho sentita espandersi nella sua reale dimensione, forma e potenza, senza più vergogna. C'è voluto molto tempo prima che capissi che non c'è bisogno di stare per morire per poter benedire la vita degli altri in questo modo.