ONE BY ONE
Incontro con Edith Bruck

Sono di origine ungherese e in Italia dal '54. Dopo tre anni di permanenza in Italia, ho cominciato a scrivere.
Non so se potrei affermare con certezza ciò che diceva Primo Levi, che sono diventata scrittrice perché sono stata ad Aushwitz, ma certo che tutto quello che ho vissuto lo devo raccontare: milioni di altre persone purtroppo hanno vissuto le stesse esperienze, ma non sono tornate, e a noi sopravvissuti tocca il compito ingrato di raccontare. Per loro, per il mondo, per il futuro che non c'è senza passato.
Ho incominciato a scrivere il mio primo romanzo e da allora ho scritto una quindicina di libri; sono soprattutto narratrice, ma ho scritto anche tre volumi di poesie. La poesia per me era qualcosa di sacro alla quale temevo di avvicinarmi. Ho sempre amato la poesia sin da bambina, ma non osavo scrivere poesie, anche perché vengo da un paese dove sono nati grandi poeti. Comunque ho sempre desiderato scrivere versi. Improvvisamente nel '74 ho scritto una poesia che è nata da sè, come i miei libri che nascono da sè: crescono nel ventre, noi donne siamo viscerali.
Era una poesia nata da un ricordo di mio padre. Quando arrivammo ad Aushwitz, nel maggio del 1944, ci hanno scaricato dai vagoni bestiame e divisi dai genitori, dai fratelli. In un attimo, mia madre nel trambusto perse gli occhiali. Tra urla, spinte, mi gridò, a me che ero la figlia più piccola di sei fratelli: "Cerca tuo padre, non vedo più tuo padre". Io non riuscivo a vedere più niente: da tutte le parti vedevo prigionieri, sentivo grida, pianti. Un tedesco trafisse un bambino piccolo, il figlio di mia cugina perché lei non lo voleva lasciare. L'unica cosa che ho detto alla mamma è stata: "Eccolo, eccolo, ecco papà" mentre vedevo una fila di uomini nudi che si allontanavano, già lontani. E questa immagine mi è rimasta stampata nella mente sempre, fino ad oggi.
La prima poesia che ho scritto si chiama: "L'uguaglianza padre!", ed è ispirata a questo avvenimento indelebile, indimenticabile per tutta la vita. Credo sia inutile che spieghi le mie origini, quelle della mia famiglia, quello che sono, che ho vissuto, si capirà tutto dalle mie poesie.

L'uguaglianza padre!

L'uguaglianza padre! Il tuo sogno s'è avverato
ti intravedo ti vedo ancora stai camminando
accanto a Roth il possidente che ci negò
un po' di ricotta per le feste.
Klein il calzolaio che a credito non risuolò
le tue uniche scarpe, Goldberg il macellaio
con la barba da capra tagliata ti trascinò
in tribunale quando vendevi carne senza licenza,
Stein il maestro che ci diede lezioni di ebraico
in attesa di un compenso divino ci dirigeva
come un direttore d'orchestra indemoniato
rompendo dozzine di bacchette sulle nostre teste,
figli tuoi, in ebraico analfabeti destinati all'inferno.
E tu, il più povero, il più riconoscibile
da quelle natiche magre! Il più agile, più
sfruttabile per lavori forzati.
Avanti padre! Sei collaudato ad ogni evenienza
armato di esperienza
conosci la prima linea, i fucili, le trincee
anche la lotta quotidiana in tempi di abbondanza.
Conosci la prigionia, l'asse dura della cella buia
dove ti spidocchiavi, ti leccavi le ferite,
srotolavi le cicche.
Conosci il sapore del sangue nella bocca
per un dente guasto
per il pugno di un gendarme
per la pallottola
nel difendere la patria, ostinandoti a crederla tua.
Conosci la morte in agguato
la meschinità degli uomini
il gioco dei potenti
lo sfruttamento dei padroni.
Conosci tutta la scala dell'umiliazione
le strade oscure con le ombre minacciose
con i lupi famelici i cavalli imbizzarriti
in notti insonni nei tuoi viaggi solitari
nell'illusione di affari
fallimentari,
le promesse non mantenute
eccetto l'ira di Jehova!
Avanti padre conosci le marce
il gelo la fame! Su la testa!
non devi più nasconderti dai creditori
sono tutti lì nudi!
Ah, ti volti? Non mi riconosci,
sono cresciuta, ho i seni duri
una peluria tenera pura
come aveva la mamma quando te la portarono
in sposa. Prendimi padre!
Ti darò piacere non figli,
amore e non doveri,
amore non rimproveri,
amore da te sconosciuto,
da me immaginato, corri
è tempo d' Apocalisse!
Commettiamo un peccato mortale
per meritare la morte.


(da Il tatuaggio, Guanda 1975)

Questa è la prima poesia che ho scritto in assoluto. Per quel che riguarda lo spidochiamento, mio padre ha preso parte alla prima guerra mondiale, ed anche alla seconda. Nel 1942 in Ungheria era stranamente nell'esercito, ma fu mandato a casa perché un ebreo non poteva fare il servizio militare. Durante la prima guerra mondiale era anche stato decorato, e questo credeva che lo avrebbe aiutato.
Ci vennero a prendere la mattina dopo la Pasqua ebraica, e lui tirò fuori le sue medaglie: credeva che sarebbe servito a qualcosa, naturalmente fu insultato.
Nel nostro paese, erano i nostri connazionali, i nostri vicini di casa a voltarci le spalle. I compagni di scuola, i compagni di gioco, la gente come te, con la quale avevi vissuto, giocato, mangiato, dormito. Da un momento all'altro ciascuno di loro poteva sfogare il suo odio nei confronti di un ebreo adulto o bambino. Tiravano le barbe, sputavano addosso a coloro che uscivano della sinagoga. Questi due anni di sofferenza devo dire che furono i più tremendi, i più umilianti. Un tedesco nel mio paese non l'ho mai visto, mi capitò solo nel ghetto del capoluogo.
Eichmann arrivò nel '44 a Budapest, ma io vivevo in un villaggio, e quasi non sapevo dove fosse la Germania. i miei nemici erano i miei vicini, i miei connazionali e i fascisti. Mio padre si credeva nel pieno diritto di essere ungherese, così come gli ebrei italiani si sentivano perfettamente italiani, ma furono privati dal '38 in poi di tutti i diritti civili nell'Europa civile del XX secolo.
Dopo questa mia prima poesia, forse mi sono sentita in colpa e ne ho scritta una per mia madre. La prima è stata per mio padre perché credo che in quanto uomo fosse più indifeso di mia madre. Le donne hanno in genere maggiori difese. Era un uomo molto solo, penso, e ho dedicato a lui la prima poesia.
La seconda è stata per mia madre con la quale, con tutta la famiglia, sono stata nel vagone bestiame per quattro giorni. Si chiama: "Quel pensiero", non è molto più allegra delle altre, ma è difficile scrivere poesie allegre, anche se nell'ultima raccolta sono un po' meno tristi, più ironiche.

Quel pensiero

<i>Quel pensiero di seppellirti
te l'hanno tolto con almeno trent'anni di anticipo!
Abbiamo avuto una lunga festa di addio
nei vagoni, stipati dove si pregava si facevano
i bisogni in fila dentro un secchio
che non profumava del tuo lillà di maggio
ed anche il mio Dio Sole ha chiuso gli occhi
in quel luogo di arrivo il cui nome
oggi irrita le coscienze, dove io e te
rimaste sole dopo una selezione
mi desti una prova d'amore
sfidando i colpi di una belva umana
anche tu madre leonessa, a carponi
per supplicare iddio maligno di lasciarti almeno l'ultima
la più piccola dei tuoi tanti figli.
Senza sapere la tua e la mia destinazione
per troppo amore volevi la mia morte
come la tua sotto una doccia
da cui usciva un coro di topi
chiusi in trappola.
Hai pensato alla tua piccola con quel frammento
di coscienza risvegliata dal colpo
del portoncino di ferro
con te dentro mio pane amato mio pane bruciato!
O prima ancora
sapone paralume concime
nelle mani parsimoniose di cittadini
che amano i cani i poeti la musica
la buona letteratura e hanno nostalgia
dei familiari lontani.
La mia memoria è meno organizzata
della tua morte
i ricordi sono pazzi
la rabbia sta per sopprimere
le gioie della vita della mia infanzia
le tue carezze la vista dei fiori gialli
delle patate nel tuo piccolo orto.
Ti ho sopravvisuto quasi trent'anni
di vita privilegiata in confronto alla tua
e oso sperare in una fine più umana
più vicina a te anche per l'età
(che ho saputo solo con la tua morte)
ti riconosco nei miei occhi
che sanno di pianto
nel mio viso tondo dagli zigomi alti
nei fili bianchi tra i capelli su una testa micragnosa
nelle pieghe amare intorno alla mia bocca
nella mia nuca rigida e artritica
nei miei seni vuoti
nel mio cuore che si spaventa per un nonnulla
nelle mie braccia mature e tenere
nelle miei fianchi piene di smagliature
nel mio ventre martoriato da operazioni non figli
nelle mie cosce larghe
nelle mie gambe robuste
nei miei piedi piatti che fanno male
nelle mie scarpe storte
nel vomitare bile tra le lacrime
nell'abitino di flanella paesana
nella mia stitichezza
nell'annodare un fazzoletto sul capo
nella mia voce quando ti invoco
nei sentimenti ebraici!
nella mia stanchezza
nell'attesa della morte non liberatrice -
no, madre nella fede non mi riconosco in te.</i>

(da Il tatuaggio, Guanda 1975)

Mia madre era molto religiosa. Una madre che ha parlato più con Dio che con i figli. Si rivolgeva a Dio per qualsiasi cosa, per avere la farina per poter fare il pane ogni settimana, perché la gente non fosse così cattiva, per salvare i propri figli, per sfamare i propri figli, sei figli, sei bocche da sfamare come diceva lei. Una donna che ha lavorato, ha pregato, ha lavorato, ha pianto, ha pregato, ha lavorato. In questa poesia, anche nei miei libri mi auguro veramente che lei sia rimasta religiosa fino alla fine, nel forno crematorio. Io purtroppo non riesco a credere.
Un mio libro: "Lettera alla madre", è una lunga lettera a mia madre che va avanti per cento pagine e alla fine divento io la madre di mia madre. Il libro finisce che finalmente io dico un kaddish, la preghiera per i morti, per mia madre. Nel libro però, perché nella realtà non ho mai potuto pregare. Non riesco.
Un giorno mio marito ha detto che sono molto religiosa, perché gli avevo detto che non ero degna di toccare il libro della preghiera. È molto facile dire io credo e poi la gente vive e si comporta come se non credesse. Mi preme chiarire che ho profondo rispetto per coloro che credono in qualsiasi religione, se non sono fanatici. Ora torniamo alla lettura.
Non vi leggo la poesia che ho dedicato a mio fratello ucciso, vi leggo invece "L'infanzia" che riguarda l'infanzia nel mio villaggio e "L'arrivo", ad Aushwitz. Dove dopo la selezione, dopo la rasatura dei peli e dei capelli, dopo che ci avevano dato quella specie di vestito sacco a righe, ci hanno tolto i nomi, ci hanno dato un numero e abbiamo cessato di essere persone umane. Più tardi, anche tra di noi.
La poesia descrive l'arrivo ad Auschwitz dove siamo stati spogliati di tutto, e messi a nudo, di fronte a delle masse enormi di persone.
"L'infanzia" riguarda sempre mia madre.

L'infanzia

Il tuo latte era già avvelenato
da un presagio minaccioso
le tue braccia stanche
non mi offrivano protezione
i tuoi occhi erano consumati dal pianto
il tuo cuore batteva per paura
la tua bocca si apriva solo per pregare
o maledire me l'ultima nata che chiedeva rifugio
dalle sagome umane che colpivano nel buio
dai cani aizzati contro dai padroni taciturni e grevi
dallo sputo di bambini nutriti di ignoranza
dagli idioti lasciati liberi
dalla vergogna e dalle catene familiari
per sfogarsi con gli ebrei
all'uscita dalla sinagoga.


(da Il tatuaggio, Guanda 1975)


Arrivo

Il grembo del sistema di colpo ha partorito
gemelli a milioni.
Le sue ruote gonfie di odio e di obbedienza
urlano ordini.
Sbucano dalla nebbia e le palandrane grige
come impazzite si spostano in continuazione
ci colpiscono alla cieca rompendo la fila
guadagnata con pugni e calci e colpi di fucile.
Le orecchie sono sorde, le parole
le inghiotte il vento
che dalle fabbriche di morte
porta odore di carne bruciacchiata e cenere
sulle nostre teste calve di colpe non commesse
.

(da Il tatuaggio, Guanda 1975)

Questo mio primo libro di versi è stato pubblicato nel '75. Nei due successivi esprimo già diversamente gli stessi temi. E altre esperienze.
La prima poesia nel secondo libro "In difesa del padre" è per mio padre. Lui mi fece una immensa pena anche quando ero bambina. Ho ripensato molto alla sua vita: un uomo molto povero, una specie di Don Chishotte. Una volta tornò dai suoi affari fallimentari solo con la giacca, in un inverno molto freddo con 20° sotto zero, senza quel cappotto che si chiamava Mikado e che avevano mandato dei parenti dalla Cecoslovacchia. Alla domanda dove hai messo il cappotto, rispose: "Ho trovato uno più povero di me". Un uomo che mi commuove, ecco.

In difesa del padre
(scusandosi con la madre)

Anche l'uomo nasce oppresso
da potere e doveri
il più delle volte
fare il padrone
gli costa la fatica di Sisifo
e quando ha accanto a sé
una donna forte nel suo ruolo
lo tormenta se non guadagna
e lo considera un incapace
un mezzo uomo
una nullità
né un marito
né un padre
né niente
meno di un "goy"!
neanche un uomo
non certo un oppressore
pover'uomo.


(da: In difesa del padre, Guanda 1980)


Poi di nuovo torno a mia madre.

Il tuo grembiule
sapeva di mestruo
di farina
di pane caldo
di grano fresco
di gioia
di paura
di morte
di tutto
di niente
mamma
che parola strana
da adulta non l'ho mai scritta
non l'ho mai pronunciata
se non da piccola
se non a scuola
dove il tema favorito
era la mamma
la casa
la famiglia
parole strane
parole.


(da: In difesa del padre, Guanda 1980)


Ti rivedo nel tentativo
di infilare l'ago
sento la tua bocca
da cui sgorgano improperi
per questo e per quello
perchè non possiedi neanche occhiali
perchè ci hai messo al mondo
se di otto figli non ce n'è uno
che accorre
avevi ragione
non valeva la pena
né per te che ci hai avuti
né per noi che ti abbiamo perso
.

(da: In difesa del padre, Guanda 1980)

Nel mio ultimo libro di versi ho un tono più leggero, più riflessivo, mi pare…

Tra non molto
quando dalla bocca
di un esperto di quiz
la gente sentirà parlare di Aushwitz
si chiederà se avrebbe indovinato
quel nome
commenterà il campione di turno
che non sbaglia mai le date
e azzecca sempre il numero dei morti.
In uno stanco sbadiglio
dirà che forse preferiva
la storia greco-romana
a questi ebrei…
hanno fatto sempre parlare di sé
attirano proprio la persecuzione.


(da: In difesa del padre, Guanda 1980)


Ditemi

Dimmi tu
ditemi
chi è amico
chi non lo è
chi ama chi
se l'oro è oro
il sole sole
se il pane è di farina.
Quando e chi dice il vero
se c'è una verità.
Ditemi che differenza fa
tra la donna e l'uomo di potere.
L'animo non è che un'esistenza
più delle volte grama
perché tanti affanni
spinte
tradimenti?
Ditemi che differenza c'è
tra il colto e l'incolto
tutti pronti
a mentire a obbedire
a giocare per vincere.
Ditemi cos'è il male
e cosa il bene
a chi deve rivolgersi
chi non prega
chi mangia pane pulito
chi non ha né padri, né padrini
solo pudore da vendere.
Ditemi se è fedele
chi non lo è,
se ama chi non dice di amare
o se nessuno ama nessuno
e tutto è paura.


(da: Monologo, Garzanti 1990)

La prossima poesia si chiama "American express". Sono tornata in Germania dopo quarant'anni, volevo tornare in quel paese perchè per me la Germania intera era rimasta un lager. Si sa spero mi illudo che in Germania e nelle terre occupate dai nazisti ci sono stati 1634 lager, quasi tutti in Germania. Per noi deportati nei campi la vita era altrove, non certo intorno o vicino a noi. Ho saputo solo dopo la guerra che Dachau per esempio era solo a 17 km da Monaco di Baviera. E Monaco era una grande città, e per noi era impensabile che vicino ad una città così grande ci fosse un luogo di morte, perchè pensavamo di essere del tutto fuori del mondo, confinati nell'inferno, non più appartenenti al mondo dei vivi, invece eravamo a due chilometri da Dachau stessa che è una piccola città dell'800, piena d'arte e a 2 km da questa antica cittadina c'era un campo di sterminio dove sono passata anch'io e tornata dopo 40 anni per ricordare, verificare l'incredibile.
Prima non osavo mettere i piedi in Germania e mi pareva ingiusto vedere un paese come interamente popolato da assassini e seminato di campi. Forse mi ha spinto anche la volontà di riconciliazione, di parlare, di vedere in faccia un tedesco, perchè nella mia memoria c'erano solo militari, belve che torturavano, picchiavano, ammazzavano. Nel compiere quel viaggio mi sentivo davvero eroica. Sono andata all'American Express e ho comprato un biglietto per il treno. Volevo proprio andare con il treno, vedere la Germania, le facce dei viaggiatori. E quando sono tornata ho scritto questa poesia intitolata "American Express".

American Express

Che bel viso
mi ha detto la ragazza dagli occhi belli
da dietro il banco
io le sorrisi felice
come una sposa innamorata
volevo sentire proprio qualcosa del genere
per stare meglio
a volte basta così poco
quasi niente
appena un gesto
uno sguardo
come quando nei Lager
ti concedevano una patata
una rapa
un guanto bucato.
È bella in quei momenti la vita
e come sono buoni gli uomini.


(da: Monologo, Garzanti 1990)

In Germania, scesa dal treno, mi aspettava un'amica tedesca, originaria della Slesia, con la quale con molta fatica ho fatto amicizia dopo tantissimi anni di conoscenza. Mi accolse quasi fossi una paralitica, mi prese quasi in braccio per guidarmi. Ho visto la bellissima e grandissima stazione di Monaco; alcuni uomini vestiti in tuta arancione e dell'immondizia per terra, ciò che mi aveva fatto felice: anche in Germania, l'immondizia per terra! dissi alla mia amica: "Ah, sono i turchi che sporcano" rispose lei e io sono rimasta talmente male che volevo tornare indietro. Sono stata solo tre giorni. In albergo mi hanno accolta con pane nero e sale, beneaugurale, e tutti mi trattavano come fossi una specie di malata. Sono stata male anche perché sono stata trattata da sopravvissuta, zoppa, malata di mente, di anima. Quando ero deportata a Dachau facevo parte di un gruppo di quindici donne che pelavano le patate, le carote per gli ufficiali, sistemati in un castello nella vicinanza di Dachau. Stupidamente chiesi alla mia amica di fare un salto anche in quel castello, dopo il Museo-Memorial ex campo.
Prendemmo un taxi, il taxista disse che non sapeva dove era il Memorial e ci portò nella città di Dachau, dicendo che era molto bella; perchè mai andare al Memorial? Chiese. Ancora un'esperienza negativa per me.
A Dachau città entrammo in una birreria tipica della Baviera e chiesi ad un signore anziano dove era il Memorial. Lui aveva indietreggiato e risposto: "Non lo so".
Pensate il campo era vicinissimo alla città e se durante gli esperimenti che i nazisti facevano sulle persone vive, i prigionieri avessero urlato, quasi quasi li sentivano.
All'ingresso del Memorial c'era scritto: "Qui sono morti 272.502 prigionieri". Ma quali prigionieri? Non c'era scritto chi e perchè sono morti, la maggior parte ebrei, ma anche militari italiani deportati, partigiani, preti, democratici ma soprattutto ebrei, perché ebrei.
Il problema è che per noi sopravvissuti non sono passati 56 anni, ed è tutto come se fosse stato ieri. È difficile spiegare cosa significa essere un sopravvissuto. Vorrei ricordare ancora che non tutti i campi di concentramento sono stati liberati il 27 gennaio, ma solo Aushwitz. Gli altri oltre 1600 sono stati liberati dopo mesi fino verso la metà di maggio. E quei mesi furono i peggiori, perchè la maggior parte dei prigionieri morirono di stenti o marce mortali proprio in quei mesi. Più si avvicinava la liberazione, più i nazisti uccidevano, pur avendo già perso la guerra, sembrava che il loro scopo era quello di annientare più gente possibile. Io stessa ho fatto più di mille chilometri a piedi attraverso la Germania, proprio alla fine della guerra, nel '45. Siamo arrivati a febbraio a Bergen Belsen, dove sono stata liberata il 15 aprile, dopo aver attraversato la Germania dal confine con la Polonia a quello olandese.

E i civili non possono dire di non averci visti perchè se io ho visto loro, loro hanno visto me. Negare l'accaduto è come uccidere i morti e noi testimoni che non dovremmo mai morire, perchè dopo di noi verrano solo le mistificazioni, le negazioni, le menzogne. È da quarant'anni che vado nelle scuole a raccontare, e racconterò finchè avrò fiato. Per gli altri, per me, per dare un senso alla mia sopravvivenza del tutto casuale, miracolosa. Aggiungo che dovrei diradare la testimonianza per poter dare il più possibile soprattutto a voi giovani che o sapete poco o sapete male.
Ora vi leggo l'ultima poesia che ho scritto in questa terza raccolta, si chiama "Meditazione".

Meditazione

Ecco forse
la fede viene
quando tutto se ne va
quando si sa com'era
come è come sarà
da saggi indifferenti.
È la passione che non ci dà pace
l'ambizione,
il bisogno d'amore d'amare
la paura della morte.
Quando si è pronti
per una voce nuova, chissà…


(da: Monologo, Garzanti 1990)

Nonostante tutto sono una persona come le altre, nella mia diversità, ma nessuno mi ha mai chiesto qualcosa che non avesse a che fare con il nazismo o la deportazione, se amo più il riso o le patate.


Roma, 16 febbraio 2001

Edith Bruck, ungherese d'origine, è nata in una famiglia di ebrei poveri e numerosi. Nel 1944, poco più che bambina, il primo viaggio l'ha portata nel ghetto del capoluogo e da lì ad Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen…
Sopravvissuta alla deportazione, dopo anni di pellegrinaggi, è approdata definitivamente in Italia nel '54, adottando la lingua italiana, lingua in cui scrive.
Nel 1958 esce il suo primo libro Chi ti ama così, un'autobiografia che ha per tappe l'infanzia in riva al Tibisco e la Germania dei lager. Nel 1962 pubblica un libro di racconti, Andremo in città. Nel 1969 esce il romanzo Le sacre nozze, ambientato in Israele. Del 1974 sono i tre racconti riuniti dal titolo: Due stanze vuote. Nel 1978 pubblica Transit. Escono anche tre libri di versi: Il tatuagio del 1975, In difesa del padre del 1980 e Monologo del 1990. Del 1988 è il romanzo Lettera alla madre. Seguono i romanzi: Nuda proprietà del 1993 e L'attrice del 1995.
Ha pubblicato un libro sul peso-condanna della testimonianza: Signora Auschwitz. Il suo ultimo romanzo si intitola Sentimenti.