ONE BY ONE
Inaugurazione della mostra

Ivan Vandor (La Rete di Indra)
(...) Il filo dell'impegno sociale e della ricerca interiore unisce la Rete di Indra e One by One, in particolare sui temi del dialogo profondo e del portare testimonianza. Come si legge nell'invito a questa mostra, One by One è un'associazione creata da individui le cui vite sono state profondamente segnate dalla Shoah; si tratta di ebrei e cristiani figli di sopravvissuti cresciuti nell'ombra del trauma e della sofferenza dei loro genitori. E anche dei discendenti del Terzo Reich, i cui genitori sono stati protagonisti o spettatori di uno dei più terribili capitoli della storia umana.
E, come dice Rosalie Gerut, una delle fondatrici di One by One: "Dobbiamo, se vogliamo chiamarci esseri umani, affrontare la miriade di lezioni che l'Olocausto ci esorta ad imparare. Forse, proprio noi, i figli di entrambe le parti, siamo gli allievi e gli insegnanti che hanno la responsabilità di trasformare noi stessi e il mondo, uno alla volta."
Vorrei ora citare due casi estremi che si trovano agli antipodi e che riguardano una situazione anch'essa estrema: Auschwitz. A una domanda fatta al noto filosofo Emanuel Levinas sulla sua esperienza fondamentale nel campo di sterminio, egli rispose: "Ho imparato a cercare il Santo nell'altro".
L'altro caso è raccontato da Elie Wiesel, premio Nobel per la pace. Durante una delle tante impiccagioni pubbliche ad Auschwitz, sentì mormorare due persone accanto a lui, di cui la prima chiedeva: "Dio mio, ma che senso ha tutto questo?" E l'altro: "Nessun senso, spero".
Ci troviamo dunque davanti al noto drammatico problema di senso e non senso sempre rinnovato nella vita quotidiana di tutti noi, consapevolmente o meno. Da un lato la follia, la repressione, il rancore, l'avversione, la violenza, la distruzione e l'autodistruzione. Dall'altro la fiducia, la benevolenza, la ricerca di un vero dialogo profondo come nel caso di One by One. E, lo sappiamo, non è facile fissare una volte per tutte l'ago della bilancia che sembra oscillare tra questi due estremi: fissarlo dalla parte del senso. Ma come dice l'ultimo verso della poesia "Buone notizie" di Thich Nhat Hahn: "L'ultima buona notizia è che puoi farlo".
Come conclusione permettetemi di citare queste parole di Levinas che riguardano sia la violenza sia il vero dialogo e che si addicono così bene tanto alla Rete di Indra quanto a One by One: "È violenta ogni azione in cui si agisce come se si fosse soli ad agire, come se il resto dell'universo non ci stesse che per ricevere l'azione. Di conseguenza è violenta ogni azione che noi subiamo senza esserne in nessun modo collaboratori. Parlare," - naturalmente parlare dal profondo dal cuore, dall'apertura del cuore - "parlare è al tempo stesso conoscere l'altro, è il farsi conoscere da lui. Non penso solo a quello che lui è per me, ma anche, al tempo stesso, io sono, io esisto per lui."

Martina Emme (One by One)
Innanzitutto vorrei ringraziare tutti voi per essere venuti. È una cosa bellissima essere qui a Roma e incontrare così tante persone che sono interessate a un argomento che di solito non viene considerato un bell'argomento. Spero di potervi dare almeno una piccola idea di ciò che facciamo rispetto a questa che è una delle più gravi tragedie che abbiano mai colpito l'umanità.
Ancora grazie per avermi dato la possibilità di parlare di questi argomenti così importanti. Grazie alla Casa delle Letterature per averci offerto questo bellissimo posto, alla Rete di Indra per averci dato per la seconda volta l'opportunità di venire a Roma e al Comune di Roma che ha reso possibile tutto questo.
Vorrei innanzitutto dire due parole sull'organizzazione di One by One. Nel 1993, per la prima volta si è incontrato un gruppo di persone in una situazione direi decisamente unica: ci siamo ritrovati tra persone che venivano dalle due parti, una metà erano discendenti di sopravvissuti alla Shoah che venivano dagli Stati Uniti e dalla Germania e alcuni di loro era la prima volta che venivano in Germania. Aver preso una tale decisione era stato per loro un passo difficilissimo. L'altra metà, invece, alla quale appartengo anch'io, era composta di tedeschi le cui famiglie erano state coinvolte dalla parte degli aguzzini. Ci siamo seduti insieme in una stanza: i figli dei sopravvissuti alla Shoah e i discendenti degli aguzzini. Con noi c'erano anche delle persone neutrali, che lavoravano per l'organizzazione dell'incontro.

Per coloro che venivano dalla parte delle vittime, anche se non ci piace usare queste etichette: vittime, aguzzini, sopravvissuti..., si trattava di un'esperienza davvero unica. Preferisco usare una metafora: immaginate un ponte in cui da un lato entrano i discendenti degli aguzzini e dall'altro i figli dei sopravvissuti che cercano di incontrarsi. Nessuno sapeva che cosa fare, ma tutti sapevamo che era importante trovaci lì. Vorrei aggiungere che da allora si sono tenuti a Berlino sei gruppi di dialogo, uno ogni anno, della durata di cinque giorni ciascuno.
Spesso ci viene chiesto che cosa facciamo lì, tutti insieme. Parlare o avere un dialogo sembra molto facile, ma in realtà non lo è affatto. È davvero difficile descrivere ciò che succede, ma una cosa deve essere assolutamente chiara: ciò che facciamo non ha assolutamente nulla a che vedere con il dimenticare o il perdonare. Vogliamo al contrario portare testimonianza di ciò che è avvenuto, della storia delle nostre famiglie che portiamo con noi.
Vorrei darvi un esempio parlandovi di me prima di proseguire parlando di One by One. Sono nata nel 1959 in Germania dove sono cresciuta e ho studiato. Quando andavo a scuola i programmi di storia si fermavano al 1900, si arrivava fino a Bismark. A scuola quindi non ho mai sentito parlare del nazismo, di Auschwitz, dell'Olocausto. Il movimento degli studenti del 1968 è stato per me molto importante: improvvisamente l'atmosfera era cambiata e noi volevamo rompere il silenzio. Ciò che succedeva in Germania potrei definirlo in un modo molto esatto come una cospirazione del silenzio. C'era ancora come un tabù: non fare domande sul passato, non chiedere particolari. Il tabù era presente soprattutto nelle famiglie, e lo è ancora.
La domanda "Che cosa hai fatto tu, papà?" - che era il titolo di un famoso libro - era una domanda che non si faceva, che non riceveva risposta e che tuttora viene ignorata. Spesso, quando andiamo a parlare nelle scuole, che è una delle nostre attività, facciamo proprio questa domanda: "Che cosa sapete della storia della vostra famiglia?" Ecco la risposta tipica di un ragazzino di tredici anni: "Mio nonno è stato in campo di concentramento, credo in un campo inglese. E mentre cercavo di fargli delle domande più precise, capivo che non aveva affatto le idee chiare su che cosa era stato un campo di concentramento. In qualche modo metteva insieme il nome di Auschwitz, che come tutti anche lui aveva sentito, con la vicenda del nonno che dunque diventava per lui un sopravvissuto ai campi di concentramento. Ma quando gli chiesi in che periodo era successo, mi rispose: "Ah, sì, nel 1945". A questo punto capii che il nonno era stato un prigioniero di guerra.
Ci sono molti studi attualmente per capire e ricostruire queste situazioni di poca chiarezza, per aiutare i giovani a capire che cosa hanno fatto i loro genitori o le loro famiglie. Io sono un po' un'esperta di questa cospirazione del silenzio perché sono stata una ribelle sia a scuola che in famiglia. Quando andai dai miei e chiesi di sapere che cosa avessero fatto esattamente, la risposta che ottenni fu: "Beata te che non sei vissuta in quei tempi". Nel frattempo avevo cominciato a fare delle ricerche su mio nonno e iniziai così a scoprire qualcosa di cui in qualche modo avevo avuto sentore. Risultava che era marconista, che aveva lavorato nelle comunicazioni. Però a me venne il sospetto perché erano un'infinità i nonni o i genitori che risultavano essere stati marconisti!
Aveva invece partecipato alla liquidazione del ghetto di Schaulen in Lituania, e ciò che veramente mi ha ferito è che non solo vi avesse preso parte e sostenuto quanto accaduto, ma che vi avesse trovato anche un certo piacere. È qualcosa che ancora oggi mi causa sofferenza. Lui era proprio il nonno che amavo tanto. Ho potuto verificare di persona la doppia possibilità che c'è in ogni persona, da una parte il nonno tanto buono e dall'altra la parte cattiva.
Andando avanti ho scoperto che questa storia non era solo mia, ma che in molte altre famiglie si potevano ascoltare gli stessi racconti. Tutti si presentavano come vittime della guerra. Che è anche vero: la mia famiglia ad esempio, veniva dai Sudeti e dunque sono stati anche dei rifugiati. Sapevo ciò che era accaduto alla mia famiglia dopo il 1945, ma prima di quella data non avevo nessuna informazione. C'era un buco nero nella storia di famiglia. Ma ora vorrei tornare al motivo per cui One by One è così importante per me.
Sedere con altri e ascoltare le storie di persone che possono dirmi che cosa accadde tra il 1933 e il 1945, che è il buco nero della mia famiglia, mi fa scoprire la verità che sto cercando. Il nome stesso, One by One, vuol dire che ogni storia, una alla volta, deve essere raccontata per riempire il buco di tutte le storie non dette. Quando un po' alla volta ho imparato qualcosa di più sul concetto ebraico di tikkun olam, ho capito che è proprio questo che io, come tedesca nata nel 1959 con questa eredità alle spalle, stavo cercando da tanto tempo. Riparare il mondo, rimettere insieme ciò che è disconnesso, ciò che è stato rotto è quello che stiamo facendo, o almeno che cerchiamo di fare, in One by One.
A volte vivere in Germania è difficile perché sento che non è questa la Germania che vorrei. Sento l'assenza delle persone che sono state allontanate o cacciate dal mio paese, o dalla mia città, che non possono più vivervi perché hanno sofferto troppo.
Organizzare questo tipo di incontri, i gruppi di dialogo, è per me come creare uno spazio dove queste persone possono tornare e sentirsi accolte. Non voglio essere sola con tutti questi tedeschi in Germania! Quando c'è il gruppo di dialogo per me è la settimana più entusiasmante di tutto l'anno, si tratta di un vero e proprio processo di trasformazione quello che ha luogo nei gruppi di dialogo, le persone possono cambiare e alla fine ci incoraggiamo a vicenda a fare ciò che possiamo per sentirci sicuri e forti nel dire no ogni volta che ci imbattiamo in situazioni in cui la dignità umana viene calpestata.
Questa è la mia speranza, poter crescere e incoraggiarci a vicenda sempre più, per diventare i "guardiani" - per così dire - della dignità umana. È questo il momento nel quale mi sento veramente utile e a casa mia in questo mondo.

Susan Erony (One by One)
Il tikkun olam è l'aspetto che personalmente preferisco nell'ebraismo. Come ha già detto Martina, si riferisce all'idea di guarire il mondo e anch'io vorrei ringraziare tutte le persone che qui a Roma ci hanno aiutato nel nostro lavoro di contribuire a riparare il mondo.
Vorrei parlare senz'altro dell'arte, ma vorrei parlare anche di qualcosa di più personale. Io non so molto della mia famiglia a differenza di Martina e di altri figli di persone che hanno partecipato al regime nazista. C'è un grande silenzio che le persone che subiscono un trauma di questo genere devono affrontare.
Non posso parlare in pubblico di mio padre perché mi renderebbe troppo triste, posso dire soltanto che era un rifugiato dai pogrom in Ucraina e che non mi ha mai parlato di nulla che riguardasse la sua vita. E ancora oggi, e ho 51 anni, sento che la mia vita è un percorso teso a riempire questo silenzio, tutto ciò che non so.
Sono persone come Martina che mi hanno spinto a conoscere One by One perché il loro coraggio nel parlare delle proprie famiglie mi ha fatto sentire che anch'io avrei potuto parlare di ciò che era accaduto alla mia.
Come per gran parte degli artisti per me è l'arte lo strumento più adatto per esprimermi. Ma devo aggiungere che fino a quando non sono stata in grado di parlare in un gruppo composto principalmente da ebrei e da tedeschi non riuscivo a trovare la pace sufficiente per sentirmi bene come artista.
Una degli aspetti più importanti di One by One è che considera l'arte e la bellezza come componenti essenziali del processo di affrontare le tragedie della storia.

Presentazione della mostra

Il lavoro dell'associazione con l'arte costituisce un luogo in cui l'individuo e gli avvenimenti storici si incontrano. Un critico, John Berger, che ha scritto un libro intitolato "Il senso della vista", in un saggio sul rapporto tra la poesia e la tortura, afferma che uno degli scopi principali della tortura è proprio quello di togliere la poesia dalla bocca delle vittime. Questo è lo scopo di ogni processo di disumanizzazione, il desiderio di distruggere tutto ciò che è sublime, che riguarda le articolazioni di significato e l'individualità nell'essere. Le grida senza parole delle vittime, sempre secondo questo autore, non sono distinguibili dalle grida degli animali feriti e sono la ricompensa per i torturatori. Il torturatore ricava piacere nel dire alle sue vittime: "Puoi gridare quanto vuoi, tanto nessuno ti ascolterà". Il riapparire delle parole, l'atto di rimettere la poesia sulle labbra della persona è un atto contrario alla disumanizzazione.
Ed è proprio in relazione a questo penso al palazzo bombardato a Sarajevo nelle recenti guerre: la stupenda biblioteca con più di due milioni di volumi e con manoscritti unici è andata distrutta. Assistiamo dunque di nuovo alla dissacrazione e alla distruzione del linguaggio e della poesia. Ci fu una famosa attrice cecoslovacca, Vera Schoenova, che venne mandata a Terezin, che era considerato un campo di concentramento speciale per artisti e prigionieri privilegiati. Ha scritto che fino a quando non arrivò in quel campo e non vide un prigioniero scambiare un pezzetto di pane per un biglietto per il teatro, non capì il significato dell'arte.
A Terezin, a differenza degli altri campi, certe forme di arte erano concesse. Comunque anche a Terezin produrre arte che non fosse approvata dalle autorità veniva punito con la morte. Nei campi di concentramento nazisti sono state trovate undicimila opere d'arte: su pezzetti di carta o scarabocchiate sul muro. Il bisogno di creare qualcosa di artistico è un profondo bisogno dell'uomo, ma in nessun modo intendo dire che l'arte garantisce la moralità. Hitler era pittore e si è sempre considerato un artista. I suoi assassini accompagnavano i loro crimini con la musica di Bach e Beethoven. L'arte aveva un ruolo molto alto ed elevato nel regime e nell'ideologia nazista.
Come John Berger vedeva nella poesia una risposta alla tortura, così facciamo anche noi con la nostra arte per dare una risposta alla sofferenza causata dall'Olocausto. E per me in qualche modo si tratta anche di una piccola risposta all'uso che i nazisti fecero dell'arte.
In alcune opere di questa mostra, gli artisti parlano della propria storia particolare di sofferenza. Alcuni di noi lavorano su un piano più simbolico e culturale. In altri c'è quasi una provocazione perché lo spettatore rimanga consapevole di quanto accaduto e dell'eredità che ha lasciato. Lo scopo di questa mostra è di chiedere a noi stessi di essere vigili e al tempo stesso di darci conforto. Fornire un luogo sicuro da cui poter guardare alle idee più oscure.
E io penso che l'arte possa farlo in modo ottimale, creando un luogo di trascendenza. Tutti gli artisti di questa mostra creano perché sentono di non avere altra scelta, sentono che devono farlo, anche se tutti noi speriamo che il nostro lavoro va al di là di qualcosa di solo personale.
Il nostro augurio è che troviate questa mostra utile.


Roma, 24 gennaio 2001