Riflessioni
e dialogo sul Qoèlet
di Antonietta Potente
Dal
29 dicembre al 2 gennaio scorsi si è svolto
a Firenze l'atteso incontro promosso dal CIPAX con
Antonietta Potente, teologa domenicana che lavora
in Bolivia.
Pubblichiamo la trascrizione solo della prima giornata
(29/12/99) che costituisce l'introduzione all'intero
seminario, un testo di per sé già denso
e ricco di tante sollecitazioni.
L'intero testo dell'incontro è in corso di
pubblicazione presso il CIPAX (Via Ostiense 152, 00154
ROMA), a cui è possibile rivolgersi per richiedere
anche la trascrizione del successivo incontro romano
sul tema: "Gli amici e le amiche di Dio: bere
dalla propria terra", in cui Antonietta Potente
ha ripercorso i cammini alternativi tracciati da Benedetto,
Francesco e Domenico, e le donne che condivisero la
loro esperienza.
Introduzione.
Le ragioni di una scelta. Il contesto storico del
Qoèlet.
Credo che all'inizio del 2000 riascolteremo spesso
il libro del Qoèlet, per i suoi forti legami
e riferimenti alla questione del tempo.
Io non ho intenzione di raccontarvi delle grandi novità
su questo libro. Spero con ciò di non deludervi
visto che, soprattutto in Europa, c'è molte
sete di novità. Anche alla Cittadella di Assisi
sentivo, fra i partecipanti all'incontro con i giovani
,una grande nostalgia di cose diverse, di cose nuove;
aspettavano riflessioni anche apocalittiche, come
se dovesse venire qualcuno che ci possa svegliare.
Invece, io credo che possiamo svegliarci solo tutti
insieme, da tempo ne sono convinta, come ho detto
agli amici del CIPAX tante volte; non dobbiamo preoccuparci
se non abbiamo più grandi profeti.
Il libro del Qoèlet ci aiuterà a riconciliarci
con la nostra storia più quotidiana: bella,
meno bella, profetica o insignificante, questa è
la nostra storia. La storia di cui parla non apre
dei grandi futuri, perché il libro del Qoèlet,
lo vedremo, è terribilmente critico anche sul
futuro, o proprio sul futuro. In questi giorni dobbiamo
aiutarci ad essere persone più riconciliate,
riconciliate prima di tutto con la nostra vita e con
questo tempo della storia, che non è solo importante
perché finisce un secolo: io sono dell'idea
che il giorno del passaggio di secolo sarà
un giorno come un altro, perché per la maggioranza
della gente sarà un giorno come un altro, e
così sarà questo anno famoso e benedetto
del giubileo.
Credo che la cosa più importante sia prendere
sul serio quello che stiamo facendo.
Tutte le volte che ritorno in Europa, o anche quando
vado in luoghi dell'America Latina diversi dalla Bolivia,
ambienti non così 'quotidiani' come quelli
dove vivo, lo shock che provo è proprio per:
tutta la ricchezza e le possibilità che abbiamo
di poter parlare sulle cose: possiamo stare ore e
ore a parlare sulle cose.
Quest'anno sono andata varie volte in Centro-america.
Le persone con le quali vivo mi chiedono sempre: "Perché
ti chiamano tanto?". È vero, anch'io me
lo domando: perché chiamare una persona, perché
spendere i soldi per il viaggio? Non lo so, però
se lo facciamo, abbiamo una responsabilità
in più, che è non solo la mia di comunicarvi
con più trasparenza quello che mi sembra importante
e bello per ravvivare le nostre vite, ma anche e soprattutto
quella di riunire le infinite storie personali, comunitarie,
familiari, ecclesiali che viviamo, voi in Europa,
noi da altre parti. Io sento che questi sono giorni
di responsabilità, non solo per me, che magari
ho preparato di più un tema che mi interessa
e mi sembra particolarmente bello, ma anche per voi.
Costruiremo insieme questi giorni.
Ora vorrei spiegare perché abbiamo scelto il
testo del Qoèlet.
Una teologa latinoamericana, Elsa Tamis, responsabile
dell'Università Ecumenica Biblica del Costarica,
ha scritto un commentario molto bello e semplice sul
libro del Qoèlet. Lei giustifica questa rilettura
del libro del Qoèlet a partire da una lettura
della realtà storica contemporanea: questo
secolo, la postmodernità, la prospettiva globalizzante,
economica ma anche ideologica, tutto quello che sappiamo
e che immagino verrà fuori in questi giorni.
Lei mette in evidenza quella che chiama una 'crisi
di utopia', cioè una crisi di speranza: sentiamo
spesso questo lamento. Io lo sento molto viaggiando.
Magari non lo sento tanto in Bolivia dove vivo, ma
più in ambienti di riflessione intellettuali
o ecclesiali e di vita religiosa: in questi ambienti
sembra esserci una crisi di speranza, perché
il tempo è molto difficile, e i segni dei tempi
sono difficili da leggere.
A me sembra importante rileggere questo testo, come
comunità, come persone, come donne e uomini,
adulti e giovani, a partire dal nostro contesto, che
non è, ripeto, solo quello della fine del millennio,
ma è un contesto postmoderno, che già
dura da parecchi anni, e non sappiamo quando finirà.
Credo che ci sia da fare qualcosa di più, a
partire dalla nostra realtà storica contemporanea,
voi in Europa, altri in altre parti del mondo, credo
che sia necessario far parlare questo testo con un
linguaggio diverso da quelli che già conosciamo.
Noi conosciamo già il linguaggio della postmodernità,
forse non lo sappiamo ancora interpretare, però
è quello che abbiamo imparato: i più
giovani l'hanno imparato da noi, noi l'abbiamo imparato
prima, però tutti oggi parliamo il linguaggio
della postmodernità, che ci piaccia o non ci
piaccia. A volte lo parliamo serenamente, cioè
ci stiamo dentro, altre volte lo bestemmiamo, nel
senso che mandiamo degli accidenti al sistema economico
e a quello politico-sociale, però è
un linguaggio che parliamo. Tutti sappiamo che cos'è
la globalizzazione. Ieri ad Assisi chiedevano ai giovani:
"Che cos'è la globalizzazione?" e
bene o male veniva fuori il concetto vero, non un
concetto astratto: riuscivano a identificare come
ce lo portiamo dentro, anche se poi non riusciamo
a capire come uscirne fuori.
Però esistono altri linguaggi che non conosciamo,
o che solo intuiamo: ci affascinano, ci sembrano interessanti,
però non riusciamo a impararli. È come
quando uno ha a che fare con delle lingue che non
hanno niente a che vedere con le nostre lingue latine,
o perlomeno di radici europee più familiari,
e deve ristrutturarsi tutta la mente: il verbo al
principio, alla fine, nel mezzo, l'articolo non esiste,
questi termini non esistono... Questa è un
poco la forza che incontreremo nel libro del Qoèlet:
un linguaggio totalmente differente che irrompe, fa
spazio in mezzo a qualcosa che sembrava già
tutto conosciuto e che formava una logica. Così
noi possiamo ancora vivere e così può
ancora essere la nostra fede: la possibilità
di un linguaggio differente.
Gli aspetti positivi e negativi della postmodernità
- perché io credo che esistono due facce in
tutti i processi storici - ci sono familiari; i bambini,
gli studenti più piccoli già li sanno.
Ma questo non ci permette ancora di scoprire linguaggi
differenti. Credo però (e questa può
essere un sogno o un'illusione o un'utopia, non lo
so) che ci siano persone che sanno leggere i segni
di tempi così pesanti, questo cielo pieno di
nubi. Credo che sia successo sempre, in tutti i periodi
della storia e che oggi dobbiamo far memoria della
possibilità di leggere il nostro tempo, anche
se non abbiamo più le stesse parole, gli stessi
sentimenti o le stesse rabbie che avevamo prima.
Allora, come riascoltare questo testo? Riascoltarlo
come ritradotto in questi nuovi linguaggi. Può
darsi che sia un limite della mia lettura proporvela
dal punto di vista di un linguaggio che sto ancora
imparando. Adesso vivo in un contesto particolare
e sarebbe stupido dirvi che non ho dovuto e non devo
imparare un altro linguaggio. Sarebbe stupido, oltre
che arrogante, vivere in un posto e non voler imparare
il linguaggio - che non è solo la lingua, perché
questa è la cosa più semplice, quello
che è più difficile è riconoscere
la possibilità di un nuovo linguaggio, come
il linguaggio della fede.
Il linguaggio della fede è il linguaggio che
tu non sai. In questi giorni in cui abbiamo vissuto
l'avvento e poi il mistero dell'incarnazione, il linguaggio
della fede è rappresentato dall'irruzione dell'angelo,
che ha un linguaggio terribilmente diverso e sconvolge
Maria, sconvolge Giuseppe, sconvolge la storia, perché
poi sconvolge i pastori, il re, tutti i suoi scribi
e signori che stanno lì intorno pensando che
già sapevano tutto. Invece tutto si sconvolge.
È importante il linguaggio della fede nel nostro
cammino storico, perché è il linguaggio
degli altri: sono gli altri che ti insegnano questo
linguaggio. L'angelo non sta dentro Maria o Giuseppe,
sta nel sogno o in questa irruzione di persone, sta
in Maria quando incontra Elisabetta: il linguaggio
della fede non ci appartiene, normalmente sta negli
altri. E se noi lo perdiamo nel momento storico presente,
se perdiamo l'irruzione della diversità, della
differenza, l'irruzione che non capisci, un linguaggio
totalmente differente da quelli che già conoscevi,
credo che perderemo un'altra occasione. Cioè
l'occasione non della salvezza in generale, perché
non dobbiamo redimere il mondo, ma l'occasione di
poter ancora pensare il nostro mondo, non solo criticarlo
o accusarlo (o anche accusare noi stessi dentro il
mondo).
Il libro del Qoèlet dà questa possibilità,
perché il suo è un linguaggio della
cui forza non abbiamo idea, che irrompe in una storia
che sembra già tutta sistemata e che sembra
conoscere già il suo futuro. È impressionante,
credo che si possa capire meglio solo se si studia
un po' di più il contesto del libro del Qoèlet.
Il contesto storico ci presenta l'irruzione di una
mentalità totalmente diversa da quella di altri
libri della Bibbia. Qoèlet è un testo
che esce dai canoni fissi della prospettiva biblica:
i canoni sapienziali, profetici, messianici, e anche,
potremmo dire, della legge, dei comandamenti, sacerdotali.
I commentatori non riescono a collocare il libro del
Qoèlet in questi canoni normali di interpretazione
della Bibbia.
È un libro terribilmente critico, vedremo che
gioca sempre su un termine, quello che noi traduciamo
normalmente, nelle nostre traduzioni in lingue moderne
europee, come 'vanità'. Esso torna e ritorna,
è un po' come il ritornello di un canto che
continua a potersi cantare in diversi momenti di questa
riflessione sulla realtà.
Ma questo termine 'vanità' non traduce bene
il termine ebraico nel testo originale, che è
un termine molto più forte e in certi momenti
terribile, perché la vanità che viene
scoperta è in relazione a tutta la realtà.
È la critica più forte della realtà.
Non so come si potrebbe tradurre questo termine nella
forma più efficace, perché è
un termine abbastanza violento. Non è solo
vanità, perché vanità sembra
una cosa che c'è e non c'è e che quando
c'è non è tanto importante, perché
è vana. In realtà il termine ebraico
suona come: 'una cosa schifosa'. Per esempio, nel
mondo ligure il termine 'porcheria' (che poi si usa
anche in castigliano) è molto eloquente in
tal senso: una porcheria non serve. Alcune traduzioni
più vicine al contesto lo rendono proprio come
una 'cacca', qualcosa da rifiutare. Noi lo traduciamo
con 'vanità', ma rendetevi conto che quando
si dice che una cosa è vanità vuol dire
che è una cosa che non ha ragione di avere
valore, perché non ce l'ha, è una cosa
di cui si può anche fare a meno, che si può
espellere dal contesto dei valori. Quindi, in positivo
e in negativo, si tratta di una critica molto forte
e oltretutto non di una critica intellettuale. Il
Qoèlet non è un libro intellettuale,
o per intellettuali, è un libro della vita,
con un linguaggio diverso da tutti gli altri. Per
questo in molte traduzioni bibliche è compreso
tra i libri sapienziali, nel senso che si avvicina
più alla sapienza quotidiana della gente: i
detti popolari della gente semplice, sulle questioni
della vita, sulle relazioni con gli altri, sulle relazioni
con le cose.
Questa per me non è una critica, ma una cosa
molto bella: a me sempre è piaciuto molto e
ancora più da quando sto in Bolivia, questo
linguaggio, perché è veramente alternativo.
E non è un linguaggio pessimista, come si dice
anche in molti commentari moderni, non solo antichi.
Se ne parla come di un libro totalmente non cristiano,
dicendo che non conosce la speranza. Non è
vero, il libro del Qoèlet, secondo me, ci può
dare una grande speranza: la speranza di una possibilità
alternativa di vita. Però per arrivare a questa
possibilità alternativa di vita devi anche
con fatica accettare un altro linguaggio, accettare
che cadano, o che restino in piedi, ma che non siano
più nella lista dei valori, alcuni valori di
prima e aggiungerne o toglierne altri.
Voi sapete benissimo, soprattutto chi lavora nell'ambito
dell'etica, che tutti i testi di teologia morale oggi
parlano della crisi di valori, soprattutto quando
parlano dei giovani. Io non credo che ci sia una crisi
di valori, credo che ci sia una forte sete di autenticità.
Ci siamo accorti che quello che stiamo vivendo molte
volte non è autentico. Avevamo dei valori intellettuali,
morali, spirituali, però abbiamo iniziato a
renderci conto che erano come quelli di alcuni gruppi
al tempo di Gesù, che continuavano a criticare,
pur essendo loro ad avere solo delle maschere, ad
essere degli ipocriti. Il libro del Qoèlet
è un libro contro l'ipocrisia, contro le maschere
che continuiamo a portare. L'ipocrisia non è
sempre cosciente, ci sono maschere anche istituzionali,
che assumiamo anche in nome di una fedeltà
("per essere fedele io devo difendere questa
cosa"), anche quando non è così
necessario difenderla. Ci sono maschere religiose:
l'ecumenismo tarda soprattutto perché ci sono
maschere religiose che si assumono in nome di alcuni
valori.
Il libro del Qoèlet è un libro che pone
una critica, una critica 'sapienziale', una critica
che dovrebbe essere in sintonia con la nostra postmodernità.
Ieri ad Assisi nella seconda parte dell'incontro è
stato mostrato ai giovani un video sul '68 - un'intervista
a Marcuse sugli hippy del Nordamerica - e poi è
stato chiesto loro quali fossero le proteste oggi,
facendo una lettura del movimento hippy come un movimento
di protesta contro una società che stava organizzandosi
in un certo modo. Io non credo che possiamo usare
il cliché del '68 per interpretare la storia
di oggi, che è totalmente differente e soprattutto
la storia di una generazione che non conosciamo. I
giovani, che ci piaccia o non ci piaccia, sono una
generazione differente e hanno dei linguaggi che possono
anche non piacere o non essere capiti da noi, però
sono dei linguaggi differenti. E noi continuiamo a
volere interpretare questi fatti con le nostre maschere
sociologiche.
Lo stesso vale per le nostre culture occidentali tematizzate,
quando ci poniamo a confronto con quelle di altri
popoli. Noi continuiamo a dialogare coi popoli e con
queste culture attraverso le nostre maschere, cioè
le nostre categorie di valori, anche belli. O attraverso
la maschera religiosa, istituzionale, pesante.
Il libro del Qoèlet ci dà la possibilità
di dire: ma guarda, forse non c'è una crisi
di valori, c'è sete di vita. E c'è sete
anche di identità. Qui non vogliamo più
che ci vengano a dire come dobbiamo essere. Vorremmo
dire come abbiamo sognato molte volte di essere. E
lì incomincia il dialogo del Qoèlet
con ipotetici ascoltatori, che vanno dai nobili della
classe medio-alta fino alla classe più esclusa
(anche per una situazione storica che sta vivendo
l'autore, come vedremo).
A me sembra urgente, ma anche bello, arrivare, come
vi dicevo all'inizio, a riconciliarci con la nostra
epoca, ad essere meno moralisti: questo è buono
l'altro è cattivo, questo è bianco l'altro
è nero, qui siamo tutti cattivi, nel Sud del
mondo sono tutti buoni. Queste sono posizioni che
sì, in certi momenti possono essere importanti,
però non portano grandi novità. Credo
invece che dobbiamo scoprire persone e storie e popoli
nei quali convivono differenti realtà, a volte
buone, altre volte meno buone, andando oltre. Il Qoèlet
in questo è molto bello, non è moralista.
Supera la categoria così occidentale della
dicotomia, del dualismo: buono/cattivo, sacro/profano,
città/tempio.
Per alcuni autori antichi si trattava di un testo
blasfemo, perché si spinge nella critica anche
nell'incontro col mistero. Questa porcheria, questa
vanità, è detta anche per questioni
che per il popolo o per i benpensanti erano sacri.
Ecco la difficoltà che ci provoca il testo.
Queste sono le mie intuizioni. Voi potete aggiungerne
altre in questi giorni, perché lo volete ascoltare,
perché lo volete rileggere; se qualcuno non
l'ha mai letto prima, ci può mettere tutti
i suoi sogni, ma anche tutti i suoi silenzi, perché
è un testo a volte un po' difficile.
Vi anticipo gli argomenti principali che affronteremo.
Meriterebbe almeno un semestre di lettura e quindi
raccoglieremo solo alcuni temi. Domani cercheremo
di entrare nel tema del tempo etico e del luogo, due
dimensioni che nel mondo occidentale abbiamo reso
questioni puramente filosofiche: nei libri di filosofia
incontrate molte cose sul tempo e sullo spazio, sull'ambiente.
Invece nella Bibbia ci sono dei suggerimenti molto
belli. Questo testo ha una sintonia con i linguaggi
nuovi di altre culture.
Un altro tema sarà quello delle nostre relazioni
con le cose, con la vita. Noi normalmente non ci rendiamo
conto che i problemi di relazione non sono solo problemi
di relazione tra di noi, se ci sono, ma anche e soprattutto
di relazione con le cose e con la nostra vita, con
la vita degli altri in generale.
Poi ci sarà un altro momento, collegato a questo
della relazione con le cose, che io chiamerei: 'l'economia
dei pieni di desiderio', cioè parleremo di
un altro modo di trattare le cose. Io credo che ci
siano già tentativi di trattare le cose in
modi differenti.
Poi ci dedicheremo alla festa, che è un segno
molto bello, in quasi tutti i popoli. Noi occidentali
ce la siamo dimenticata, però la possiamo ancora
recuperare. È importantissima la festa nel
mondo di Dio, così come nel mondo umano e anche
nel mondo degli animali e della creazione: anche gli
animali e la creazione hanno desiderio di far festa,
non di essere utilizzati per far festa.
Un ultimo tema sarà quello del camminare umilmente,
recuperando alcuni aspetti molto importanti che la
postmodernità non vuole sapere, ossia il limite,
il dubbio, la morte, il peccato, cioè tutte
quelle dimensioni che normalmente ci danno fastidio.
Soprattutto credo che la dimensione che ci dà
più fastidio sia quella del limite, più
ancora della morte. Nella morte tutti diventano santi,
ma nel limite nessuno è santo e la persona
stessa normalmente lo vive male.
Momenti di dibattito
D. Mi riferisco alla tua introduzione sulla
necessità di introdurre nuovi linguaggi, di
capire e parlare nuovi linguaggi come tu stai facendo
in Bolivia, cosa che, come tutti sappiamo, non è
facile. La tua spinta a cercare nuovi linguaggi è
nata da una opposizione al contesto nel quale prima
vivevi e quindi al bisogno, anche naturale, di cercare
nuovi significati? Questo svuotamento, questa perdita
di senso ti ha spinto ad accogliere qualcosa di nuovo?
R. Io credo che dovremmo renderci conto che
normalmente noi pensiamo al nostro cammino, agli incontri,
alla relazione con la vita, come un tenere-eliminare:
tenere una cosa eliminarne un'altra. Come quando uno
gioca coi birilli: questo mi serve l'altro non mi
serve, questo che vale venti punti lo elimino, questo
che vale trenta punti lo tengo.
Io non sono psicologa, però credo che succeda
invece un'altra cosa: i cammini non si fanno eliminando.
Credo che la nostra mentalità, occidentale
per tradizione, commetta l'errore di giocare sempre
tra il bene e il male: il cammino di perfezione si
può fare solo attraverso il bene, il male non
serve e va eliminato; anche a livello di tradizione
sociologica, filosofica, noi giochiamo sempre su queste
due cose. A me sembra, per quel poco che riesco a
leggere della mia esperienza personale, che invece
il cammino si faccia aggiungendo. Così per
esempio io non posso dire che uno incomincia ad ascoltare
una nuova musica, solo perché si è stancato
di quella precedente; forse dice: "Mi piace questa
nuova musica" e fa entrare tutta la ricchezza
di quel mondo musicale nel suo ascolto; però
se un autore piace, continua a piacere.
Nella vita di una persona più o meno credente
(e solo Dio può dire quanto sia credente io
o quanto lo siete voi) avviene la stessa cosa, cioè
tutte le cose diventano via via importanti. Io credo
che se ci si stanca di ascoltare una voce, vuol dire
che non abbiamo imparato ad ascoltare. A livello biblico
l'ascolto arriva fino alla sensibilità per
i rumori più insignificanti: la 'brezza leggera'
o, com'è detto nel testo originale, il 'sottile
silenzio' del profeta Elia. Per cui normalmente quando
una persona mi dice "Io voglio fare questa cosa
perché mi sono stancato di fare quell'altra"
io le dico: "Aspetta, prima riconciliati con
la cosa che fai, poi può darsi..."; soprattutto
quando si tratta di relazioni tra gruppi o tra persone
io credo che i passi nuovi si facciano quando si è
riconciliati e quando si è capito bene ciò
che si è ascoltato.
Sono contenta di tornare in Bolivia, anche se mi dispiace
lasciare mia mamma, la gente che conosco ecc. Ora
sto meglio là che qua e non è perché
sono cattiva, è normale, come quando ci si
sposa.
Dobbiamo stare molto attenti a questo. Un linguaggio
differente lo si può accogliere, magari senza
capirlo: quello che ci è chiesto è di
accoglierlo, non necessariamente di capirlo; può
darsi che passi molto tempo senza che ci si capisca
niente, però, come dice la Scrittura, lo si
tiene nel cuore e prima o poi uscirà fuori,
parlerà, scalderà il cuore oppure continuerà
a restare nel cuore se gli si fa spazio.
Per cui l'invito che vi faccio (e che faccio a me)
all'inizio di questo nuovo anno e secolo, è
quello di imparare a tenere dentro tutto e tutti.
Questo è importante, soprattutto per noi che
parliamo tanto di cammini di pace, di cammini di riconciliazione
a livello ecumenico. Non è qualunquismo, relativismo,
non è dire: "Vogliamoci tutti bene".
Ci sono persone che uno tiene dentro, nel proprio
intimo, persone o situazioni di cui non sa cosa farsene,
che gli danno anche fastidio, che gli fa male tenere
dentro, che sarebbe meglio buttare fuori. Credo invece
che questo 'tenere dentro' sia molto importante, sia
la sapienza dell'uomo e della donna moderni.
Dobbiamo imparare, e non continuare, noi occidentali,
a metterci in relazione con gli altri e con le cose
soltanto secondo il criterio di bene/male, serve/non
serve, come siamo abituati a fare. Oggi uno dei linguaggi
più forti della relazione è il linguaggio
economico: solo con le categorie economiche riusciamo
a salvarci o a condannarci, ad aiutarci o a distruggerci.
È importante considerare, per lo meno quando
ci muoviamo nella prospettiva dell'aiutarci, che quello
economico non è l'unico linguaggio, è
uno degli infiniti linguaggi, forse è il più
urgente per noi. Quando si è in questi paesi
tutto è urgente e se non si aiuta chi ha bisogno,
questo sparisce o comunque sparisce qualcosa di molto
importante. Ma io credo che noi dobbiamo aiutarci
ad ascoltare i nuovi linguaggi che sono parlati in
questi paesi, anche totalmente differenti, imparare
ad ascoltarli, a tenerli nei nostri orecchi, nel nostro
ascolto.
Le nostre culture occidentali hanno un vantaggio:
da anni possiamo ascoltare queste voci, se volessimo
farlo davvero. Il problema è che non ascoltiamo,
è che abbiamo anticipato tutto e continuiamo
ad anticipare tutto. È una cosa indecente quello
che noi del Nord facciamo con gli altri popoli: anticipiamo
tutto, siamo sempre i primi della classe. "Te
la do io la cosa, tu sei lento, questo non lo puoi
fare, te lo faccio io". La cosa più brutta
e che causa maggiore sofferenza quando si sta dall'altra
parte del mondo è sentirsi dire: "Ma io
già lo so".
Per esempio, nella zona dove vivo io, capita spesso
che religiosi o religiose che stanno lì da
cinquant'anni dicano ai più giovani: "Io
sono più boliviano di te", oppure: "Io
parlo il quechua meglio di uno che è nato qui".
Non è così, queste sono le nostre categorie.
Per cui credo che l'ascolto - per camminare, per vedere
se possiamo pensare una storia un po' più completa
- sia una cosa essenziale.
Fra pochi giorni faremo a Roma un corso su tre grandi
spiritualità, quella benedettina, quella francescana,
quella domenicana; sono spiritualità di ascolto,
Benedetto, Francesco e Domenico non erano arroganti,
insegnavano ad ascoltare le diversità. Noi
invece diciamo: "Noi abbiamo questo e guai chi
ce lo tocca, o lo imparano o sono degli asini".
Invece no, sono cose che servono per incontrarsi,
per ascoltare.
D. Prima hai parlato di speranza e non hai
parlato di fede. Il discorso che hai fatto fino adesso
è molto umano, ma allo stesso tempo molto energico,
molto spirituale, non evanescente, ma profondo. Nei
prossimi giorni ci spiegherai il senso di questa speranza
e che legame ci sia con la fede?
R. Di questo parleremo in questi giorni, ma
posso già dire qualcosa.
Io credo sempre di più che la fede non sia
qualcosa che ci appartiene. È uno degli aspetti
più misteriosi nella nostra storia e dovremmo
cercare di definirlo anche in termini diversi, perché
il discorso della fede non è da vedere solo
in prospettiva religiosa. La fede per me è
ciò che mette in luce di più (per questo
poi cammina con la speranza) la 'presenza di'. È
quello che dicevo all'inizio: la diversità,
la 'possibilità di'. Non sono più figlio
unico o figlia unica, non siamo più da soli,
non siamo gli unici. Credi o non credi? Cioè:
ti apri o non ti apri alla possibilità della
diversità?
Noi abbiamo messo in relazione la fede solo al mistero
di Dio, che è questa alterità più
grande, qualcosa di totalmente differente. Invece
credo che siamo chiamati alla fede nella vita quotidiana.
Per questo il Dio cristiano è il Dio che riconosciamo
come fortemente presente, è la provocazione
costante che gli altri ci fanno. Chi mi chiama alla
fede? Gli altri, la loro presenza, il loro essere
così differenti da come sono io, dalla mia
tradizione, dalla mia appartenenza.
Credo allora che si tratti di una prospettiva divina,
teologica, ma anche fortemente umana. E credo che
oggi i sentieri che le religioni e la teologia devono
ripercorrere siano proprio i sentieri dell'umanità,
il Verbo che si è fatto carne. La carne, nella
religione cristiana, diventa una parola terribilmente
eloquente. O la carne la guardi, la accogli, la sai
riconoscere, oppure la fede diventa qualcosa di intellettuale,
una grande prospettiva utopica. Senza la carne non
ha un gran senso. Noi abbiamo interpretato 'la carne'
a livello morale, come 'le opere' ("tu a questa
parola devi dare carne"): no, la carne sono gli
altri. E la domanda della fede è: come ti metti
in relazione con loro?
Io credo che in questi giorni verrà fuori un
po' più chiaramente, però non penso
che si possa parlare di fede saltando questi sentieri
dell'umanità, questi cammini così umani,
a volte troppo umani, altre volte un po' sporchi,
com'è la nostra umanità, che ha degli
aspetti belli, giocosi, ma ha anche aspetti molto
pesanti, come le malattie, e come tutti i nostri limiti.
Però la fede è questa. Il mistero più
grande è metterci in relazione tra noi. Metterci
in relazione con Dio è facile. Normalmente
le società in crisi si rifugiano nelle religioni.
Questo è normale ai nostri giorni e dunque
andiamo a cercare le cose più esotiche. E invece
la vita della gente che non fa tanti voli pindarici
è terribilmente carnale. Perché gli
europei, quando sono arrivati nel continente amerindio,
chiamavano 'animali' gli altri? Perché noi
europei siamo quelli che pensiamo allo spirito. Mentre
qui la gente è essenziale, pensa sempre alla
carne, perciò diciamo: 'questi sono animali'.
Anche ieri ad Assisi sentivo alcune interpretazioni
che contrastano con quello che si vede normalmente
in altre culture. Per esempio, diciamo che siamo popoli
sviluppati perché siamo riusciti a dominare
la natura, a non essere, diceva ieri uno dei filosofi,
dipendenti solo dai fenomeni naturali. Per altri popoli
invece si è sapienti solo se si riesce a convivere
con tutti gli elementi della natura, con i suoi movimenti,
i suoi silenzi, le sue forze, e anche a non averne
paura quando si è dominati dalla natura. Non
è passività, è una forma di sapienza.
Si tratta di prospettive diverse. Credo che se riuscissimo
a coglierle, o a scambiarcele, le cose cambierebbero
un po'.
Conclusioni
Per chiudere questa parte introduttiva vorrei accennarvi
al contesto storico di Qoèlet.
Di Qoèlet non si sa niente, le poche cose che
conosciamo ce le dice il testo (come in molti libri
biblici) grazie alla ricostruzione con le tecniche
moderne e a quello che egli ci racconta: tutti i libri
della Bibbia traggono un'ispirazione forte del contesto.
La situazione storica in cui Qoèlet si trova
sembra metterlo in crisi: e, dopo molti secoli, Qoèlet
riesce a mettere in crisi anche noi. Perché
mette in crisi? L'autore critica gli avvenimenti e
gli atteggiamenti etici che aveva intorno. Guarda
la sua realtà, guarda la storia e comincia
a leggerla criticamente. Da questo noi possiamo capire
di che storia si tratta.
Sembra che si tratti di un tempo fortemente pieno
di novità (per questo ci ricorda il nostro
tempo). Novità tra virgolette, perché
la postmodernità non è poi tanto nuova,
così come il tempo del Qoèlet non era
tanto nuovo. Però superficialmente è
un tempo di novità, con cambiamenti di struttura
politica, economica, mercantile. Cambiamenti, quindi,
molto forti anche a livello ideologico.
Secondo gli ultimi studi, il libro del Qoèlet
si colloca nella seconda metà del secolo III°
a.C., cioè possiamo collocare gli avvenimenti
che provocano la riflessione del Qoèlet nell'arco
di tempo tra il 280 e il 230 a.C.
È il tempo dei Tolomei, che aprono nuove possibilità
per i popoli, possibilità di relazioni, di
innovazioni tecnologiche e di strumenti, soprattutto
nell'ambito della guerra: nuovi strumenti militari,
nuove tecnologie nell'ambito del lavoro, dell'agricoltura,
dell'artigianato e anche nuove leggi economiche e
finanziarie. Storicamente è il tempo di Archimede
e di Euclide, quindi nuove prospettive filosofiche,
teorie che insegnano ai popoli a leggere la storia
da un'altra prospettiva, da un'altra ottica. Cambia
anche la geografia, per questioni economiche: il tempo
dei Tolomei è il tempo in cui si creano centri
di potere economico che fanno sognare i popoli, che
diventano la meta di popoli e di categorie di persone.
Però come sempre è anche il tempo in
cui affiorano nuove categorie che non trovano spazio
in questo tipo di società, in questa nuova
apertura di prospettive economiche o filosofiche o
politiche.
Ciò che trovo molto interessante è che
l'epoca dei Tolomei, mentre dava la possibilità
di far incontrare la ricchezza del mondo ellenista
con le nuove scoperte, dava anche la possibilità
di libertà religiose. L'espressione religiosa
poteva avere vari volti. Ciò che, invece, non
poteva avere varie facce era l'espressione politica
ed economica.
Lo trovo interessantissimo perché è
quello che si ripete oggi. Oggi siamo molto più
'ecumenici' a livello religioso (tra virgolette, nel
senso che le istituzioni non sono tanto ecumeniche,
oltretutto in questi anni io credo che abbiano fatto
dei passi indietro), nel sentire della gente, nelle
nostre famiglie. In quante famiglie oggi ci sono espressioni
religiose differenti, tra i figli e i padri ecc. Invece
ciò su cui si è molto esigenti, anche
quando non lo vogliamo, è la questione economica
e quella politica: l'unica forma politica è
la nostra fantomatica democrazia e l'unica forma economica
il neoliberalismo, con tutto ciò che lo produce
e lo rafforza, cioè la globalizzazione e la
postmodernità. Questo lo vedremo meglio in
seguito, però è interessante notare
che la critica parte da un contesto molto simile al
nostro.
Questo mondo come affronta le nuove scoperte, le nuove
teorie, la nuova economia, la nuova geografia? Come
molte volte facciamo anche noi: fissando nuovi vincolo
di appartenenza. Il mondo di radici semite tenta di
ricostruire un'identità a partire dal Tempio
e dalla Legge, infatti normalmente per aiutare a fissare
dei vincoli di appartenenza abbiamo bisogno del tempio,
cioè della religione; essa ci fa dire: o stai
lì dentro o stai fuori. Se stai dentro sei
più al sicuro, è il nostro terreno.
E poi, la riscoperta della legge, che ci tutela. Non
lo dico in senso negativo, ma solo che è un
tipo di risposta.
E questo tipo di risposta c'è anche oggi. Sarà
un rischio che correremo a Roma quando parleremo delle
tre grandi spiritualità di Benedetto, Francesco
e Domenico perché potrebbero crearsi delle
grandi malinconie, facendoci sentire il desiderio
di tornare a loro. Io non credo che sia questa la
risposta giusta, però è vero.