Riflessioni e dialogo sul Qoèlet
di Antonietta Potente

Dal 29 dicembre al 2 gennaio scorsi si è svolto a Firenze l'atteso incontro promosso dal CIPAX con Antonietta Potente, teologa domenicana che lavora in Bolivia.
Pubblichiamo la trascrizione solo della prima giornata (29/12/99) che costituisce l'introduzione all'intero seminario, un testo di per sé già denso e ricco di tante sollecitazioni.
L'intero testo dell'incontro è in corso di pubblicazione presso il CIPAX (Via Ostiense 152, 00154 ROMA), a cui è possibile rivolgersi per richiedere anche la trascrizione del successivo incontro romano sul tema: "Gli amici e le amiche di Dio: bere dalla propria terra", in cui Antonietta Potente ha ripercorso i cammini alternativi tracciati da Benedetto, Francesco e Domenico, e le donne che condivisero la loro esperienza
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Introduzione.
Le ragioni di una scelta. Il contesto storico del Qoèlet.



Credo che all'inizio del 2000 riascolteremo spesso il libro del Qoèlet, per i suoi forti legami e riferimenti alla questione del tempo.
Io non ho intenzione di raccontarvi delle grandi novità su questo libro. Spero con ciò di non deludervi visto che, soprattutto in Europa, c'è molte sete di novità. Anche alla Cittadella di Assisi sentivo, fra i partecipanti all'incontro con i giovani ,una grande nostalgia di cose diverse, di cose nuove; aspettavano riflessioni anche apocalittiche, come se dovesse venire qualcuno che ci possa svegliare. Invece, io credo che possiamo svegliarci solo tutti insieme, da tempo ne sono convinta, come ho detto agli amici del CIPAX tante volte; non dobbiamo preoccuparci se non abbiamo più grandi profeti.
Il libro del Qoèlet ci aiuterà a riconciliarci con la nostra storia più quotidiana: bella, meno bella, profetica o insignificante, questa è la nostra storia. La storia di cui parla non apre dei grandi futuri, perché il libro del Qoèlet, lo vedremo, è terribilmente critico anche sul futuro, o proprio sul futuro. In questi giorni dobbiamo aiutarci ad essere persone più riconciliate, riconciliate prima di tutto con la nostra vita e con questo tempo della storia, che non è solo importante perché finisce un secolo: io sono dell'idea che il giorno del passaggio di secolo sarà un giorno come un altro, perché per la maggioranza della gente sarà un giorno come un altro, e così sarà questo anno famoso e benedetto del giubileo.
Credo che la cosa più importante sia prendere sul serio quello che stiamo facendo.
Tutte le volte che ritorno in Europa, o anche quando vado in luoghi dell'America Latina diversi dalla Bolivia, ambienti non così 'quotidiani' come quelli dove vivo, lo shock che provo è proprio per: tutta la ricchezza e le possibilità che abbiamo di poter parlare sulle cose: possiamo stare ore e ore a parlare sulle cose.
Quest'anno sono andata varie volte in Centro-america. Le persone con le quali vivo mi chiedono sempre: "Perché ti chiamano tanto?". È vero, anch'io me lo domando: perché chiamare una persona, perché spendere i soldi per il viaggio? Non lo so, però se lo facciamo, abbiamo una responsabilità in più, che è non solo la mia di comunicarvi con più trasparenza quello che mi sembra importante e bello per ravvivare le nostre vite, ma anche e soprattutto quella di riunire le infinite storie personali, comunitarie, familiari, ecclesiali che viviamo, voi in Europa, noi da altre parti. Io sento che questi sono giorni di responsabilità, non solo per me, che magari ho preparato di più un tema che mi interessa e mi sembra particolarmente bello, ma anche per voi. Costruiremo insieme questi giorni.

Ora vorrei spiegare perché abbiamo scelto il testo del Qoèlet.
Una teologa latinoamericana, Elsa Tamis, responsabile dell'Università Ecumenica Biblica del Costarica, ha scritto un commentario molto bello e semplice sul libro del Qoèlet. Lei giustifica questa rilettura del libro del Qoèlet a partire da una lettura della realtà storica contemporanea: questo secolo, la postmodernità, la prospettiva globalizzante, economica ma anche ideologica, tutto quello che sappiamo e che immagino verrà fuori in questi giorni. Lei mette in evidenza quella che chiama una 'crisi di utopia', cioè una crisi di speranza: sentiamo spesso questo lamento. Io lo sento molto viaggiando. Magari non lo sento tanto in Bolivia dove vivo, ma più in ambienti di riflessione intellettuali o ecclesiali e di vita religiosa: in questi ambienti sembra esserci una crisi di speranza, perché il tempo è molto difficile, e i segni dei tempi sono difficili da leggere.
A me sembra importante rileggere questo testo, come comunità, come persone, come donne e uomini, adulti e giovani, a partire dal nostro contesto, che non è, ripeto, solo quello della fine del millennio, ma è un contesto postmoderno, che già dura da parecchi anni, e non sappiamo quando finirà.
Credo che ci sia da fare qualcosa di più, a partire dalla nostra realtà storica contemporanea, voi in Europa, altri in altre parti del mondo, credo che sia necessario far parlare questo testo con un linguaggio diverso da quelli che già conosciamo. Noi conosciamo già il linguaggio della postmodernità, forse non lo sappiamo ancora interpretare, però è quello che abbiamo imparato: i più giovani l'hanno imparato da noi, noi l'abbiamo imparato prima, però tutti oggi parliamo il linguaggio della postmodernità, che ci piaccia o non ci piaccia. A volte lo parliamo serenamente, cioè ci stiamo dentro, altre volte lo bestemmiamo, nel senso che mandiamo degli accidenti al sistema economico e a quello politico-sociale, però è un linguaggio che parliamo. Tutti sappiamo che cos'è la globalizzazione. Ieri ad Assisi chiedevano ai giovani: "Che cos'è la globalizzazione?" e bene o male veniva fuori il concetto vero, non un concetto astratto: riuscivano a identificare come ce lo portiamo dentro, anche se poi non riusciamo a capire come uscirne fuori.
Però esistono altri linguaggi che non conosciamo, o che solo intuiamo: ci affascinano, ci sembrano interessanti, però non riusciamo a impararli. È come quando uno ha a che fare con delle lingue che non hanno niente a che vedere con le nostre lingue latine, o perlomeno di radici europee più familiari, e deve ristrutturarsi tutta la mente: il verbo al principio, alla fine, nel mezzo, l'articolo non esiste, questi termini non esistono... Questa è un poco la forza che incontreremo nel libro del Qoèlet: un linguaggio totalmente differente che irrompe, fa spazio in mezzo a qualcosa che sembrava già tutto conosciuto e che formava una logica. Così noi possiamo ancora vivere e così può ancora essere la nostra fede: la possibilità di un linguaggio differente.
Gli aspetti positivi e negativi della postmodernità - perché io credo che esistono due facce in tutti i processi storici - ci sono familiari; i bambini, gli studenti più piccoli già li sanno. Ma questo non ci permette ancora di scoprire linguaggi differenti. Credo però (e questa può essere un sogno o un'illusione o un'utopia, non lo so) che ci siano persone che sanno leggere i segni di tempi così pesanti, questo cielo pieno di nubi. Credo che sia successo sempre, in tutti i periodi della storia e che oggi dobbiamo far memoria della possibilità di leggere il nostro tempo, anche se non abbiamo più le stesse parole, gli stessi sentimenti o le stesse rabbie che avevamo prima.
Allora, come riascoltare questo testo? Riascoltarlo come ritradotto in questi nuovi linguaggi. Può darsi che sia un limite della mia lettura proporvela dal punto di vista di un linguaggio che sto ancora imparando. Adesso vivo in un contesto particolare e sarebbe stupido dirvi che non ho dovuto e non devo imparare un altro linguaggio. Sarebbe stupido, oltre che arrogante, vivere in un posto e non voler imparare il linguaggio - che non è solo la lingua, perché questa è la cosa più semplice, quello che è più difficile è riconoscere la possibilità di un nuovo linguaggio, come il linguaggio della fede.
Il linguaggio della fede è il linguaggio che tu non sai. In questi giorni in cui abbiamo vissuto l'avvento e poi il mistero dell'incarnazione, il linguaggio della fede è rappresentato dall'irruzione dell'angelo, che ha un linguaggio terribilmente diverso e sconvolge Maria, sconvolge Giuseppe, sconvolge la storia, perché poi sconvolge i pastori, il re, tutti i suoi scribi e signori che stanno lì intorno pensando che già sapevano tutto. Invece tutto si sconvolge.
È importante il linguaggio della fede nel nostro cammino storico, perché è il linguaggio degli altri: sono gli altri che ti insegnano questo linguaggio. L'angelo non sta dentro Maria o Giuseppe, sta nel sogno o in questa irruzione di persone, sta in Maria quando incontra Elisabetta: il linguaggio della fede non ci appartiene, normalmente sta negli altri. E se noi lo perdiamo nel momento storico presente, se perdiamo l'irruzione della diversità, della differenza, l'irruzione che non capisci, un linguaggio totalmente differente da quelli che già conoscevi, credo che perderemo un'altra occasione. Cioè l'occasione non della salvezza in generale, perché non dobbiamo redimere il mondo, ma l'occasione di poter ancora pensare il nostro mondo, non solo criticarlo o accusarlo (o anche accusare noi stessi dentro il mondo).
Il libro del Qoèlet dà questa possibilità, perché il suo è un linguaggio della cui forza non abbiamo idea, che irrompe in una storia che sembra già tutta sistemata e che sembra conoscere già il suo futuro. È impressionante, credo che si possa capire meglio solo se si studia un po' di più il contesto del libro del Qoèlet. Il contesto storico ci presenta l'irruzione di una mentalità totalmente diversa da quella di altri libri della Bibbia. Qoèlet è un testo che esce dai canoni fissi della prospettiva biblica: i canoni sapienziali, profetici, messianici, e anche, potremmo dire, della legge, dei comandamenti, sacerdotali. I commentatori non riescono a collocare il libro del Qoèlet in questi canoni normali di interpretazione della Bibbia.
È un libro terribilmente critico, vedremo che gioca sempre su un termine, quello che noi traduciamo normalmente, nelle nostre traduzioni in lingue moderne europee, come 'vanità'. Esso torna e ritorna, è un po' come il ritornello di un canto che continua a potersi cantare in diversi momenti di questa riflessione sulla realtà.
Ma questo termine 'vanità' non traduce bene il termine ebraico nel testo originale, che è un termine molto più forte e in certi momenti terribile, perché la vanità che viene scoperta è in relazione a tutta la realtà. È la critica più forte della realtà. Non so come si potrebbe tradurre questo termine nella forma più efficace, perché è un termine abbastanza violento. Non è solo vanità, perché vanità sembra una cosa che c'è e non c'è e che quando c'è non è tanto importante, perché è vana. In realtà il termine ebraico suona come: 'una cosa schifosa'. Per esempio, nel mondo ligure il termine 'porcheria' (che poi si usa anche in castigliano) è molto eloquente in tal senso: una porcheria non serve. Alcune traduzioni più vicine al contesto lo rendono proprio come una 'cacca', qualcosa da rifiutare. Noi lo traduciamo con 'vanità', ma rendetevi conto che quando si dice che una cosa è vanità vuol dire che è una cosa che non ha ragione di avere valore, perché non ce l'ha, è una cosa di cui si può anche fare a meno, che si può espellere dal contesto dei valori. Quindi, in positivo e in negativo, si tratta di una critica molto forte e oltretutto non di una critica intellettuale. Il Qoèlet non è un libro intellettuale, o per intellettuali, è un libro della vita, con un linguaggio diverso da tutti gli altri. Per questo in molte traduzioni bibliche è compreso tra i libri sapienziali, nel senso che si avvicina più alla sapienza quotidiana della gente: i detti popolari della gente semplice, sulle questioni della vita, sulle relazioni con gli altri, sulle relazioni con le cose.
Questa per me non è una critica, ma una cosa molto bella: a me sempre è piaciuto molto e ancora più da quando sto in Bolivia, questo linguaggio, perché è veramente alternativo. E non è un linguaggio pessimista, come si dice anche in molti commentari moderni, non solo antichi. Se ne parla come di un libro totalmente non cristiano, dicendo che non conosce la speranza. Non è vero, il libro del Qoèlet, secondo me, ci può dare una grande speranza: la speranza di una possibilità alternativa di vita. Però per arrivare a questa possibilità alternativa di vita devi anche con fatica accettare un altro linguaggio, accettare che cadano, o che restino in piedi, ma che non siano più nella lista dei valori, alcuni valori di prima e aggiungerne o toglierne altri.
Voi sapete benissimo, soprattutto chi lavora nell'ambito dell'etica, che tutti i testi di teologia morale oggi parlano della crisi di valori, soprattutto quando parlano dei giovani. Io non credo che ci sia una crisi di valori, credo che ci sia una forte sete di autenticità. Ci siamo accorti che quello che stiamo vivendo molte volte non è autentico. Avevamo dei valori intellettuali, morali, spirituali, però abbiamo iniziato a renderci conto che erano come quelli di alcuni gruppi al tempo di Gesù, che continuavano a criticare, pur essendo loro ad avere solo delle maschere, ad essere degli ipocriti. Il libro del Qoèlet è un libro contro l'ipocrisia, contro le maschere che continuiamo a portare. L'ipocrisia non è sempre cosciente, ci sono maschere anche istituzionali, che assumiamo anche in nome di una fedeltà ("per essere fedele io devo difendere questa cosa"), anche quando non è così necessario difenderla. Ci sono maschere religiose: l'ecumenismo tarda soprattutto perché ci sono maschere religiose che si assumono in nome di alcuni valori.
Il libro del Qoèlet è un libro che pone una critica, una critica 'sapienziale', una critica che dovrebbe essere in sintonia con la nostra postmodernità. Ieri ad Assisi nella seconda parte dell'incontro è stato mostrato ai giovani un video sul '68 - un'intervista a Marcuse sugli hippy del Nordamerica - e poi è stato chiesto loro quali fossero le proteste oggi, facendo una lettura del movimento hippy come un movimento di protesta contro una società che stava organizzandosi in un certo modo. Io non credo che possiamo usare il cliché del '68 per interpretare la storia di oggi, che è totalmente differente e soprattutto la storia di una generazione che non conosciamo. I giovani, che ci piaccia o non ci piaccia, sono una generazione differente e hanno dei linguaggi che possono anche non piacere o non essere capiti da noi, però sono dei linguaggi differenti. E noi continuiamo a volere interpretare questi fatti con le nostre maschere sociologiche.
Lo stesso vale per le nostre culture occidentali tematizzate, quando ci poniamo a confronto con quelle di altri popoli. Noi continuiamo a dialogare coi popoli e con queste culture attraverso le nostre maschere, cioè le nostre categorie di valori, anche belli. O attraverso la maschera religiosa, istituzionale, pesante.
Il libro del Qoèlet ci dà la possibilità di dire: ma guarda, forse non c'è una crisi di valori, c'è sete di vita. E c'è sete anche di identità. Qui non vogliamo più che ci vengano a dire come dobbiamo essere. Vorremmo dire come abbiamo sognato molte volte di essere. E lì incomincia il dialogo del Qoèlet con ipotetici ascoltatori, che vanno dai nobili della classe medio-alta fino alla classe più esclusa (anche per una situazione storica che sta vivendo l'autore, come vedremo).
A me sembra urgente, ma anche bello, arrivare, come vi dicevo all'inizio, a riconciliarci con la nostra epoca, ad essere meno moralisti: questo è buono l'altro è cattivo, questo è bianco l'altro è nero, qui siamo tutti cattivi, nel Sud del mondo sono tutti buoni. Queste sono posizioni che sì, in certi momenti possono essere importanti, però non portano grandi novità. Credo invece che dobbiamo scoprire persone e storie e popoli nei quali convivono differenti realtà, a volte buone, altre volte meno buone, andando oltre. Il Qoèlet in questo è molto bello, non è moralista. Supera la categoria così occidentale della dicotomia, del dualismo: buono/cattivo, sacro/profano, città/tempio.
Per alcuni autori antichi si trattava di un testo blasfemo, perché si spinge nella critica anche nell'incontro col mistero. Questa porcheria, questa vanità, è detta anche per questioni che per il popolo o per i benpensanti erano sacri. Ecco la difficoltà che ci provoca il testo.
Queste sono le mie intuizioni. Voi potete aggiungerne altre in questi giorni, perché lo volete ascoltare, perché lo volete rileggere; se qualcuno non l'ha mai letto prima, ci può mettere tutti i suoi sogni, ma anche tutti i suoi silenzi, perché è un testo a volte un po' difficile.

Vi anticipo gli argomenti principali che affronteremo. Meriterebbe almeno un semestre di lettura e quindi raccoglieremo solo alcuni temi. Domani cercheremo di entrare nel tema del tempo etico e del luogo, due dimensioni che nel mondo occidentale abbiamo reso questioni puramente filosofiche: nei libri di filosofia incontrate molte cose sul tempo e sullo spazio, sull'ambiente. Invece nella Bibbia ci sono dei suggerimenti molto belli. Questo testo ha una sintonia con i linguaggi nuovi di altre culture.
Un altro tema sarà quello delle nostre relazioni con le cose, con la vita. Noi normalmente non ci rendiamo conto che i problemi di relazione non sono solo problemi di relazione tra di noi, se ci sono, ma anche e soprattutto di relazione con le cose e con la nostra vita, con la vita degli altri in generale.
Poi ci sarà un altro momento, collegato a questo della relazione con le cose, che io chiamerei: 'l'economia dei pieni di desiderio', cioè parleremo di un altro modo di trattare le cose. Io credo che ci siano già tentativi di trattare le cose in modi differenti.
Poi ci dedicheremo alla festa, che è un segno molto bello, in quasi tutti i popoli. Noi occidentali ce la siamo dimenticata, però la possiamo ancora recuperare. È importantissima la festa nel mondo di Dio, così come nel mondo umano e anche nel mondo degli animali e della creazione: anche gli animali e la creazione hanno desiderio di far festa, non di essere utilizzati per far festa.
Un ultimo tema sarà quello del camminare umilmente, recuperando alcuni aspetti molto importanti che la postmodernità non vuole sapere, ossia il limite, il dubbio, la morte, il peccato, cioè tutte quelle dimensioni che normalmente ci danno fastidio. Soprattutto credo che la dimensione che ci dà più fastidio sia quella del limite, più ancora della morte. Nella morte tutti diventano santi, ma nel limite nessuno è santo e la persona stessa normalmente lo vive male.

Momenti di dibattito

D. Mi riferisco alla tua introduzione sulla necessità di introdurre nuovi linguaggi, di capire e parlare nuovi linguaggi come tu stai facendo in Bolivia, cosa che, come tutti sappiamo, non è facile. La tua spinta a cercare nuovi linguaggi è nata da una opposizione al contesto nel quale prima vivevi e quindi al bisogno, anche naturale, di cercare nuovi significati? Questo svuotamento, questa perdita di senso ti ha spinto ad accogliere qualcosa di nuovo?
R. Io credo che dovremmo renderci conto che normalmente noi pensiamo al nostro cammino, agli incontri, alla relazione con la vita, come un tenere-eliminare: tenere una cosa eliminarne un'altra. Come quando uno gioca coi birilli: questo mi serve l'altro non mi serve, questo che vale venti punti lo elimino, questo che vale trenta punti lo tengo.
Io non sono psicologa, però credo che succeda invece un'altra cosa: i cammini non si fanno eliminando.
Credo che la nostra mentalità, occidentale per tradizione, commetta l'errore di giocare sempre tra il bene e il male: il cammino di perfezione si può fare solo attraverso il bene, il male non serve e va eliminato; anche a livello di tradizione sociologica, filosofica, noi giochiamo sempre su queste due cose. A me sembra, per quel poco che riesco a leggere della mia esperienza personale, che invece il cammino si faccia aggiungendo. Così per esempio io non posso dire che uno incomincia ad ascoltare una nuova musica, solo perché si è stancato di quella precedente; forse dice: "Mi piace questa nuova musica" e fa entrare tutta la ricchezza di quel mondo musicale nel suo ascolto; però se un autore piace, continua a piacere.
Nella vita di una persona più o meno credente (e solo Dio può dire quanto sia credente io o quanto lo siete voi) avviene la stessa cosa, cioè tutte le cose diventano via via importanti. Io credo che se ci si stanca di ascoltare una voce, vuol dire che non abbiamo imparato ad ascoltare. A livello biblico l'ascolto arriva fino alla sensibilità per i rumori più insignificanti: la 'brezza leggera' o, com'è detto nel testo originale, il 'sottile silenzio' del profeta Elia. Per cui normalmente quando una persona mi dice "Io voglio fare questa cosa perché mi sono stancato di fare quell'altra" io le dico: "Aspetta, prima riconciliati con la cosa che fai, poi può darsi..."; soprattutto quando si tratta di relazioni tra gruppi o tra persone io credo che i passi nuovi si facciano quando si è riconciliati e quando si è capito bene ciò che si è ascoltato.
Sono contenta di tornare in Bolivia, anche se mi dispiace lasciare mia mamma, la gente che conosco ecc. Ora sto meglio là che qua e non è perché sono cattiva, è normale, come quando ci si sposa.
Dobbiamo stare molto attenti a questo. Un linguaggio differente lo si può accogliere, magari senza capirlo: quello che ci è chiesto è di accoglierlo, non necessariamente di capirlo; può darsi che passi molto tempo senza che ci si capisca niente, però, come dice la Scrittura, lo si tiene nel cuore e prima o poi uscirà fuori, parlerà, scalderà il cuore oppure continuerà a restare nel cuore se gli si fa spazio.
Per cui l'invito che vi faccio (e che faccio a me) all'inizio di questo nuovo anno e secolo, è quello di imparare a tenere dentro tutto e tutti. Questo è importante, soprattutto per noi che parliamo tanto di cammini di pace, di cammini di riconciliazione a livello ecumenico. Non è qualunquismo, relativismo, non è dire: "Vogliamoci tutti bene". Ci sono persone che uno tiene dentro, nel proprio intimo, persone o situazioni di cui non sa cosa farsene, che gli danno anche fastidio, che gli fa male tenere dentro, che sarebbe meglio buttare fuori. Credo invece che questo 'tenere dentro' sia molto importante, sia la sapienza dell'uomo e della donna moderni.
Dobbiamo imparare, e non continuare, noi occidentali, a metterci in relazione con gli altri e con le cose soltanto secondo il criterio di bene/male, serve/non serve, come siamo abituati a fare. Oggi uno dei linguaggi più forti della relazione è il linguaggio economico: solo con le categorie economiche riusciamo a salvarci o a condannarci, ad aiutarci o a distruggerci. È importante considerare, per lo meno quando ci muoviamo nella prospettiva dell'aiutarci, che quello economico non è l'unico linguaggio, è uno degli infiniti linguaggi, forse è il più urgente per noi. Quando si è in questi paesi tutto è urgente e se non si aiuta chi ha bisogno, questo sparisce o comunque sparisce qualcosa di molto importante. Ma io credo che noi dobbiamo aiutarci ad ascoltare i nuovi linguaggi che sono parlati in questi paesi, anche totalmente differenti, imparare ad ascoltarli, a tenerli nei nostri orecchi, nel nostro ascolto.
Le nostre culture occidentali hanno un vantaggio: da anni possiamo ascoltare queste voci, se volessimo farlo davvero. Il problema è che non ascoltiamo, è che abbiamo anticipato tutto e continuiamo ad anticipare tutto. È una cosa indecente quello che noi del Nord facciamo con gli altri popoli: anticipiamo tutto, siamo sempre i primi della classe. "Te la do io la cosa, tu sei lento, questo non lo puoi fare, te lo faccio io". La cosa più brutta e che causa maggiore sofferenza quando si sta dall'altra parte del mondo è sentirsi dire: "Ma io già lo so".
Per esempio, nella zona dove vivo io, capita spesso che religiosi o religiose che stanno lì da cinquant'anni dicano ai più giovani: "Io sono più boliviano di te", oppure: "Io parlo il quechua meglio di uno che è nato qui". Non è così, queste sono le nostre categorie. Per cui credo che l'ascolto - per camminare, per vedere se possiamo pensare una storia un po' più completa - sia una cosa essenziale.
Fra pochi giorni faremo a Roma un corso su tre grandi spiritualità, quella benedettina, quella francescana, quella domenicana; sono spiritualità di ascolto, Benedetto, Francesco e Domenico non erano arroganti, insegnavano ad ascoltare le diversità. Noi invece diciamo: "Noi abbiamo questo e guai chi ce lo tocca, o lo imparano o sono degli asini". Invece no, sono cose che servono per incontrarsi, per ascoltare.

D. Prima hai parlato di speranza e non hai parlato di fede. Il discorso che hai fatto fino adesso è molto umano, ma allo stesso tempo molto energico, molto spirituale, non evanescente, ma profondo. Nei prossimi giorni ci spiegherai il senso di questa speranza e che legame ci sia con la fede?
R. Di questo parleremo in questi giorni, ma posso già dire qualcosa.
Io credo sempre di più che la fede non sia qualcosa che ci appartiene. È uno degli aspetti più misteriosi nella nostra storia e dovremmo cercare di definirlo anche in termini diversi, perché il discorso della fede non è da vedere solo in prospettiva religiosa. La fede per me è ciò che mette in luce di più (per questo poi cammina con la speranza) la 'presenza di'. È quello che dicevo all'inizio: la diversità, la 'possibilità di'. Non sono più figlio unico o figlia unica, non siamo più da soli, non siamo gli unici. Credi o non credi? Cioè: ti apri o non ti apri alla possibilità della diversità?
Noi abbiamo messo in relazione la fede solo al mistero di Dio, che è questa alterità più grande, qualcosa di totalmente differente. Invece credo che siamo chiamati alla fede nella vita quotidiana. Per questo il Dio cristiano è il Dio che riconosciamo come fortemente presente, è la provocazione costante che gli altri ci fanno. Chi mi chiama alla fede? Gli altri, la loro presenza, il loro essere così differenti da come sono io, dalla mia tradizione, dalla mia appartenenza.
Credo allora che si tratti di una prospettiva divina, teologica, ma anche fortemente umana. E credo che oggi i sentieri che le religioni e la teologia devono ripercorrere siano proprio i sentieri dell'umanità, il Verbo che si è fatto carne. La carne, nella religione cristiana, diventa una parola terribilmente eloquente. O la carne la guardi, la accogli, la sai riconoscere, oppure la fede diventa qualcosa di intellettuale, una grande prospettiva utopica. Senza la carne non ha un gran senso. Noi abbiamo interpretato 'la carne' a livello morale, come 'le opere' ("tu a questa parola devi dare carne"): no, la carne sono gli altri. E la domanda della fede è: come ti metti in relazione con loro?
Io credo che in questi giorni verrà fuori un po' più chiaramente, però non penso che si possa parlare di fede saltando questi sentieri dell'umanità, questi cammini così umani, a volte troppo umani, altre volte un po' sporchi, com'è la nostra umanità, che ha degli aspetti belli, giocosi, ma ha anche aspetti molto pesanti, come le malattie, e come tutti i nostri limiti. Però la fede è questa. Il mistero più grande è metterci in relazione tra noi. Metterci in relazione con Dio è facile. Normalmente le società in crisi si rifugiano nelle religioni. Questo è normale ai nostri giorni e dunque andiamo a cercare le cose più esotiche. E invece la vita della gente che non fa tanti voli pindarici è terribilmente carnale. Perché gli europei, quando sono arrivati nel continente amerindio, chiamavano 'animali' gli altri? Perché noi europei siamo quelli che pensiamo allo spirito. Mentre qui la gente è essenziale, pensa sempre alla carne, perciò diciamo: 'questi sono animali'.
Anche ieri ad Assisi sentivo alcune interpretazioni che contrastano con quello che si vede normalmente in altre culture. Per esempio, diciamo che siamo popoli sviluppati perché siamo riusciti a dominare la natura, a non essere, diceva ieri uno dei filosofi, dipendenti solo dai fenomeni naturali. Per altri popoli invece si è sapienti solo se si riesce a convivere con tutti gli elementi della natura, con i suoi movimenti, i suoi silenzi, le sue forze, e anche a non averne paura quando si è dominati dalla natura. Non è passività, è una forma di sapienza. Si tratta di prospettive diverse. Credo che se riuscissimo a coglierle, o a scambiarcele, le cose cambierebbero un po'.

Conclusioni

Per chiudere questa parte introduttiva vorrei accennarvi al contesto storico di Qoèlet.
Di Qoèlet non si sa niente, le poche cose che conosciamo ce le dice il testo (come in molti libri biblici) grazie alla ricostruzione con le tecniche moderne e a quello che egli ci racconta: tutti i libri della Bibbia traggono un'ispirazione forte del contesto.
La situazione storica in cui Qoèlet si trova sembra metterlo in crisi: e, dopo molti secoli, Qoèlet riesce a mettere in crisi anche noi. Perché mette in crisi? L'autore critica gli avvenimenti e gli atteggiamenti etici che aveva intorno. Guarda la sua realtà, guarda la storia e comincia a leggerla criticamente. Da questo noi possiamo capire di che storia si tratta.
Sembra che si tratti di un tempo fortemente pieno di novità (per questo ci ricorda il nostro tempo). Novità tra virgolette, perché la postmodernità non è poi tanto nuova, così come il tempo del Qoèlet non era tanto nuovo. Però superficialmente è un tempo di novità, con cambiamenti di struttura politica, economica, mercantile. Cambiamenti, quindi, molto forti anche a livello ideologico.
Secondo gli ultimi studi, il libro del Qoèlet si colloca nella seconda metà del secolo III° a.C., cioè possiamo collocare gli avvenimenti che provocano la riflessione del Qoèlet nell'arco di tempo tra il 280 e il 230 a.C.
È il tempo dei Tolomei, che aprono nuove possibilità per i popoli, possibilità di relazioni, di innovazioni tecnologiche e di strumenti, soprattutto nell'ambito della guerra: nuovi strumenti militari, nuove tecnologie nell'ambito del lavoro, dell'agricoltura, dell'artigianato e anche nuove leggi economiche e finanziarie. Storicamente è il tempo di Archimede e di Euclide, quindi nuove prospettive filosofiche, teorie che insegnano ai popoli a leggere la storia da un'altra prospettiva, da un'altra ottica. Cambia anche la geografia, per questioni economiche: il tempo dei Tolomei è il tempo in cui si creano centri di potere economico che fanno sognare i popoli, che diventano la meta di popoli e di categorie di persone. Però come sempre è anche il tempo in cui affiorano nuove categorie che non trovano spazio in questo tipo di società, in questa nuova apertura di prospettive economiche o filosofiche o politiche.
Ciò che trovo molto interessante è che l'epoca dei Tolomei, mentre dava la possibilità di far incontrare la ricchezza del mondo ellenista con le nuove scoperte, dava anche la possibilità di libertà religiose. L'espressione religiosa poteva avere vari volti. Ciò che, invece, non poteva avere varie facce era l'espressione politica ed economica.
Lo trovo interessantissimo perché è quello che si ripete oggi. Oggi siamo molto più 'ecumenici' a livello religioso (tra virgolette, nel senso che le istituzioni non sono tanto ecumeniche, oltretutto in questi anni io credo che abbiano fatto dei passi indietro), nel sentire della gente, nelle nostre famiglie. In quante famiglie oggi ci sono espressioni religiose differenti, tra i figli e i padri ecc. Invece ciò su cui si è molto esigenti, anche quando non lo vogliamo, è la questione economica e quella politica: l'unica forma politica è la nostra fantomatica democrazia e l'unica forma economica il neoliberalismo, con tutto ciò che lo produce e lo rafforza, cioè la globalizzazione e la postmodernità. Questo lo vedremo meglio in seguito, però è interessante notare che la critica parte da un contesto molto simile al nostro.
Questo mondo come affronta le nuove scoperte, le nuove teorie, la nuova economia, la nuova geografia? Come molte volte facciamo anche noi: fissando nuovi vincolo di appartenenza. Il mondo di radici semite tenta di ricostruire un'identità a partire dal Tempio e dalla Legge, infatti normalmente per aiutare a fissare dei vincoli di appartenenza abbiamo bisogno del tempio, cioè della religione; essa ci fa dire: o stai lì dentro o stai fuori. Se stai dentro sei più al sicuro, è il nostro terreno. E poi, la riscoperta della legge, che ci tutela. Non lo dico in senso negativo, ma solo che è un tipo di risposta.
E questo tipo di risposta c'è anche oggi. Sarà un rischio che correremo a Roma quando parleremo delle tre grandi spiritualità di Benedetto, Francesco e Domenico perché potrebbero crearsi delle grandi malinconie, facendoci sentire il desiderio di tornare a loro. Io non credo che sia questa la risposta giusta, però è vero.