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confronto con la perdita: il gruppo come recupero
di una ritualità di condivisione e di elaborazione
del lutto
di Livia Crozzoli Aite
"Che
cosa dobbiamo fare degli estinti, delle creature che
ci furono care e che erano parte di noi stessi, 'Dimenticarli'
risponde, se pure con vario eufemismo, la saggezza
della vita. 'Dimenticarli' conferma l'etica, 'Via
dalle tombe!' esclamava Goethe, e a coro con lui altri
spiriti magni. E l'uomo dimentica. Si dice che ciò
è opera del tempo; ma troppe cose buone e troppo
ardue opere, si sogliono attribuire al tempo, cioè
a un essere che non esiste. No: quella dimenticanza
non è opera del tempo; è opera nostra,
che vogliamo dimenticare o dimentichiamo."
(B. Croce, citato nel volume di F. Campione, Il
deserto e la speranza, Armando, 1990, p. 21).
Piuttosto che 'dimentichiamo', mi sembra esatto dire
che 'non pensiamo' costantemente alla persona che
è mancata, infatti se un oggetto, un gesto,
un'espressione o un avvenimento ce la ricorda, sentiamo
che abita dentro di noi.
Al di fuori della patologia dobbiamo pensare al lutto
come a "un lavoro psichico che inizia, si
sviluppa e si conclude. L'attaccamento al passato
si attenua poco a poco, e la vita riprende, colmando
i vuoti con nuovi compiti e con nuove presenze. Mentre
prima sembrava che il domani non sarebbe mai venuto,
poi quando finalmente viene, sembra impossibile aver
sofferto e resistito così tanto" (Luisa
Colli, La morte e gli addii, Moretti e Vitali,
1999, p. 39).
Del resto questo processo non comincia vicino al letto
del morente. Il dolore della perdita lo si prova non
solo in occasione della morte, ma ogni volta che perdiamo
e dobbiamo lasciare andare legami, progetti, ideali.
Pur tuttavia, nel linguaggio comune, quando si parla
di lutto, si pensa al periodo successivo alla morte
di una persona e alla sofferenza di chi resta. In
realtà il processo del lutto incomincia quando
la morte si annuncia, prima come una minaccia alla
scoperta di una malattia grave e ancor più
da vicino nella fase terminale della vita.
Per questo motivo alcuni studiosi distinguono una
prima fase di "lutto anticipato", quando
ci si prepara e ci si confronta con quest'evento,
prefigurandolo, e una seconda fase del lutto vero
e proprio, quando la morte ci ha ormai sottratto la
persona cara.
Problemi, difficoltà e cambiamenti subentrano
fin dalla prima fase. Molte volte infatti mi è
stato chiesto "a chi si può rivolgere
per un sostegno" una persona che sta perdendo
il figlio o una figlia che sta perdendo la madre o
una sorella il fratello. Non era una vera e propria
richiesta di analisi o di psicoterapia, ma di trovare
un sostegno, un supporto umano in quel momento difficile
del confronto con la morte. Avevo domandato a colleghi
impegnati nel campo delle malattie oncologiche, ma
avevo saputo che, almeno a Roma, non esisteva nulla
a livello pubblico per i familiari durante la malattia
e tanto meno dopo la morte del congiunto.
Naturalmente era possibile nell'ambito privato, ma
nel sociale, solo le associazioni di volontariato,
quindi un privato sociale, si occupavano di tutta
l'unità familiare sofferente e continuavano
anche dopo la morte a mantenere rapporti con la famiglia
assistita.
Durante l'evolversi e la fase terminale della malattia
c'è la crisi non solo del malato, ma anche
dei familiari. Tutti indistintamente sono messi alla
prova: eventi critici e conflittuali esigono modalità
di comunicazione, adattamento e funzionamento nuove
e diversificate. Chi ha visto il recente film americano
Magnolia ha sicuramente colto il vasto campionario
delle possibili manifestazioni di crisi di tutto il
nucleo familiare.
Si devono affrontare problemi e cambiamenti su molti
piani: non solo su quello fisico legato alla perdita
della salute e alle fatiche conseguenti di tutta la
famiglia, ma anche su quello emotivo, cognitivo, relazionale,
pratico-organizzativo e soprattutto sul piano esistenziale
e spirituale. L'appassionato libro di Gerda Lerner,
Ho vissuto la tua morte, ci fa conoscere dal
vivo le dinamiche dell'esclusione e dell'isolamento
in cui incorrono le famiglie che stanno vivendo la
malattia mortale di un congiunto e che hanno più
che mai bisogno di aiuto.
A ben vedere o meglio a ben 'prevedere!' prendersi
cura di tutta la famiglia potrebbe avere una notevole
ricaduta nel sociale, perché salvaguarda la
salute fisica e psichica e la qualità di vita
delle persone che restano.
Sicuramente essere sostenuti, aiutati è un'esperienza
altamente umanizzante, che una volta vissuta si può
diffondere, come quando un sasso cade nell'acqua e
i suoi cerchi si allargano.
Ma talvolta proprio le difficoltà stimolano
la comprensione delle carenze esistenti e dei bisogni,
che dovrebbero essere riconosciuti e rispettati. Basti
pensare alle numerose associazioni di volontariato
che sono state fondate dai familiari delle persone
ormai decedute, proprio perché avevano sperimentato
una situazione di deprivazione.
Mentre scrivevo questa testimonianza, mi sono resa
conto, che anch'io ho realizzato un gruppo di sostegno
per i familiari in seguito a un'esperienza personale
di tanti anni fa. Durante il ricovero ospedaliero
di mio padre a noi familiari non è stato dato
alcun aiuto per accompagnare nel modo migliore la
sua fine e aiutarci nel momento del distacco.
Questo motivo personale, oltre a quelli derivati da
altre esperienze di vita, di lavoro, di volontariato
e anche di ricerca all'interno del Gruppo Eventi mi
hanno indotto a iniziare quest'esperienza di gruppo.
Attualmente nella nostra società c'è
un mutismo disumano di fronte al problema sia della
malattia grave, che della morte e del lutto. Non esistono
riti comunitari significativi, che abbiano un valore
riconosciuto dalla collettività e che alleggeriscano
e facciano maturare il nucleo familiare.
Parallelamente alla mancanza di un universo simbolico
di riferimento di natura collettiva, anche il singolo
individuo presenta la tendenza a non darsi il tempo
e lo spazio per il "lavoro del lutto".
Ma non vivere il dolore della perdita, arrivare a
negarlo o a reprimerlo, come del resto vivere esclusivamente
in funzione del lutto, è fortemente patogeno
sul piano psichico e fisico. Per consentirne l'elaborazione
dobbiamo far affiorare alla coscienza i vissuti della
separazione, della perdita, dell'abbandono, che portano
con sé disorientamento, rifiuto, panico, disperazione,
rabbia, isolamento, depressione e sensi di colpa.
L'occasione di partecipare a un gruppo di sostegno
per i familiari, che si ritrova regolarmente ogni
settimana allo stesso luogo e alla stessa ora, diventa
un tentativo d'elaborazione comunitaria del cordoglio,
ovvero del "dolore del cuore".
Il lavoro di gruppo e nel gruppo può essere
considerato un moderno rito di passaggio, che accompagna
l'attraversamento da una fase all'altra della vita.
Questo recupero di una ritualità di condivisione
e di contenimento è ben rappresentato dall'immagine
del cerchio delle persone, che si forma durante gli
incontri e che sta a significare il senso dell'appartenenza
a una comunità.
Nel mezzo del cerchio si crea uno spazio libero per
il rapporto con se stessi e gli altri, senza programmi
e senza vincoli, se non quello della partecipazione
e dell'ascolto, in cui ciò che si guarda e
su cui si discute è qualcosa che ciascuno ha
vissuto e sperimentato e quindi può essere
condiviso.
Quando si rivive l'esperienza della perdita insieme
con altre persone che stanno affrontando lo stesso
problema, lo si sperimenta in modo del tutto differente
da quando si è da soli.
L'aiuto che si dà e si riceve all'interno di
un gruppo non è certo l'eliminazione della
perdita o un impossibile ritorno al passato o una
difesa dalla sofferenza psichica, ma il far emergere
il bisogno umano di comunicare, di riavvicinarsi ai
propri sentimenti, di porsi a confronto con le proprie
emozioni, di conoscerle, di contenerle, cioè
il saperle portare con sé senza rimanerne imprigionati.
L'impegno comune di tutti i partecipanti attiva un
intenso campo emotivo, che favorisce l'esperienza
di un livello di coscienza più profondo che
raramente da soli ci concediamo nella vita abituale
di fronte al dolore e alla perdita.
Nel gruppo salvo alcuni momenti si respira un clima
di condivisione e di solidarietà tra i partecipanti,
che permette a ciascuno di esprimersi senza timore
di incorrere in dinamiche di esclusione o di reazioni
minimizzanti o d'imbarazzo o di pietismo consolatorio.
Ma entrare in un gruppo di sostegno, vuol dire anche
avventurarsi in una nuova esperienza di partecipazione
attiva, vissuta. È un atto di coraggio, un
mezzo per cercare una risposta vitale alla perdita
di senso e di orientamento che si sta provando e per
uscire da una dimensione di solitudine e di chiusura.
Entrando in un gruppo, inizia una nuova storia, sia
personale che del gruppo, in cui emergono le parti
sofferenti, malate e bloccate, le difese che attuiamo
per contenere le paure e le angosce, ma anche le risorse,
i bisogni, i desideri, le speranze verso forme nuove
di vita, verso un cambiamento che si teme di non saper
reggere o di non realizzare.
All'inizio i partecipanti portano soprattutto tematiche
legate alla malattia e alla morte dei familiari e
alle proprie reazioni nel momento della morte. Molto
interesse riveste anche la relazione con la persona
che è mancata: emergono sia le valenze depressive:
"non ho più punti di riferimento",
che quelle persecutorie: "mi hai messo al mondo
perché fossi il bastone della tua vecchiaia".
I rimpianti, i sensi di colpa e la rabbia nei confronti
del defunto risultano essere la più penosa
compagnia per chi resta, perché imprigionano
nel passato e allontanano dalla vita e dalle possibilità
presenti. I pensieri negativi, "il dover pensare
continuamente al proprio soffrire ", come
scrive C.S. Lewis, fanno star male:"Io non
solo vivo ogni interminabile giorno nel dolore per
la sua morte, ma lo vivo pensando che vivo ogni giorno
nel dolore" (da Diario di un dolore,
Adelphi 1990, p. 16).
Nel corso del tempo emergono anche le problematiche
personali a livello sia fisico "il corpo che
si gonfia e fa dolore", che relazionale, "non
riesco a mettermi in rapporto con le altre persone,
sono un disastro".
Quando l'accento si sposta dai propri cari a se stessi,
i defunti vengono ricordati per le qualità
e i valori che hanno comunicato durante la loro vita.
Per una figlia il padre diventa "un' assenza
confortante, mi indica il valore della vita, il desiderio
di comunicare i miei sentimenti".
Un marito, che pensa di non avere legami con la moglie
scomparsa, può scoprire che prendersi cura
delle piante non era solo una sua iniziativa personale,
ma anche un'occasione di vicinanza e di ricordo della
moglie, che per molti anni l'aveva fatto.
Un altro tema molto sentito, che ritorna a più
riprese, è quello della "vita dopo la
morte".
Campeggiano nel gruppo posizioni molto differenti:
dalla negazione più assoluta, al dubbio, alla
certezza dell'esistenza di qualcosa che non si conosce,
differente dagli abituali parametri, che è
definita, in base a un'esperienza vissuta al momento
della morte della madre, come "un'espansione
cosmica".
La condivisione delle esperienze personali e il confronto
dei propri vissuti e delle reazioni psicologiche con
le altre persone del gruppo permette di cogliere,
pur nella diversità delle storie, un'intima
somiglianza dei problemi da affrontare o di quelli
già affrontati.
Il gruppo, favorisce la possibilità di un rispecchiamento
reciproco tra i partecipanti, che aiuta a riconoscersi
negli altri, a fare dei collegamenti tra le diverse
situazioni e a elaborare le proprie esperienze. Un
membro del gruppo ha definito questa situazione con
un bella immagine: "Siamo tutti nella stessa
barca".
Vorrei riportare un esempio per chiarire in che cosa
consiste questo processo di rispecchiamento. C'è
stata l'occasione di far rappresentare a una giovane
donna del gruppo un dialogo, che non aveva mai osato
iniziare, tra lei e suo padre, morto ormai da molti
anni. Attraverso la drammatizzazione, realizzata con
il contributo di un altro partecipante, che personificava
il padre, si sono risvegliate nel gruppo intense emozioni.
In particolare un padre ha potuto riconoscere attraverso
il dolore della figlia di non aver fatto abbastanza
nei confronti del proprio figlio e della propria moglie,
ormai deceduti, non per colpevolizzarsi, ma per affermare:
"Per la prima volta nella mia vita ho capito
di essere stato molto poco sensibile e attento agli
altri".
Da questo esempio si evince che nel gruppo ciascuno
può utilizzare l'esperienza degli altri non
solo rispetto alla propria vita passata e alla relazione
con il defunto, ma anche rispetto alla conoscenza
di sé e al presente, alle relazioni, alle amicizie
attuali.
Ci si rispecchia nelle paure, nei limiti, nelle angosce,
nelle colpe, nei rimpianti, nelle sofferenze, ma pian
piano, come hanno commentato alcuni partecipanti,
anche nel bisogno di "salvarsi, di aprirsi di
nuovo", "di farsene una ragione", di
"uscire dall'isolamento", di recuperare
il proprio "equilibrio" non solo per se
stessi e per i figli, ma anche per le altre persone
che ci vivono intorno e "che amiamo".
Il "senso del noi", che si sviluppa all'interno
del gruppo, diventa espressione di un atteggiamento
etico condiviso nel confronto con il mistero della
morte, ma soprattutto con il mistero della vita.
Attraverso il gruppo si apprende che ci sono modalità
differenti per contenere e modificare le proprie difficoltà
e le proprie paure, per dar loro un senso e per trasformarle
in atti e azioni vitali. Si scopre attraverso l'esperienza
dell'altro che "rimanere attaccati al passato",
ai dolori e ai traumi vissuti, "pieni di risentimento"
o "di sensi di colpa", impedisce il proprio
processo di crescita, oppure che "trattenere"
egoisticamente qualcuno che sta morendo o "rimanere
legati a qualcuno che è morto", diventa
un impedimento alla propria "trasformazione".
Per concludere la descrizione di questo lavoro per
l'elaborazione del lutto, ancora in atto, vorrei sottolineare
che partecipare a un'esperienza di gruppo vuol dire
trovare uno spazio interiore, oltre che esterno, per
confrontarsi con la perdita e renderla più
pensabile e più vicina a sé e quindi
anche più vivibile e accettabile.
Attraverso la condivisione delle proprie esperienze
e dei propri vissuti si fa presente quel potenziale
di elaborazione e trasformazione dell'esperienza emozionale,
che determina importanti modificazioni nelle capacità
comunicative e relazionali.
Uscire dall'isolamento, aprirsi di nuovo vuol dire
infatti sentirsi meno soli nell'affrontare le difficoltà
e maggiormente desiderosi di scoprire le proprie risorse
e attingere a quelle degli altri.
Se riusciamo ad accettare e accogliere il dolore della
perdita nel nostro percorso umano e quindi a vivere
il lutto come parte significativa dell'esistenza,
possiamo integrare più profondamente anche
il senso di responsabilità verso la nostra
vita e quella degli altri che ci sono vicini e anche
di quelli che verranno.
Associazione
Culturale
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