Dal
prestare aiuto al prestare servizio
di Rodney Smith
Rodney Smith è attualmente direttore dell'Hospice di Seattle. In passato ha trascorso otto anni di ritiro intensivo, come monaco buddhista in Oriente e presso l'Inshigt Meditation Society di Barre di cui oggi è anche uno degli insegnanti anziani. Dopo aver lasciato l'abito monacale nel 1983 ha iniziato a lavorare a tempo pieno come volontario negli hospice. È autore di un ottimo libro, Lessons from Dying, purtroppo non ancora tradotto in italiano.
Quando
sentite sete per una vita spirituale più nutriente,
quali attività vi immaginate di fare? Come
tutti, avrete determinate pratiche e circostanze specifiche
che considerate spirituali, come andare in un luogo
di devozione, in una sala di meditazione, o in un
angolo tranquillo della natura, e dedicarvi alla preghiera,
alla meditazione, alla solitudine, e all'autoriflessione.
Queste attività spirituali sembrano favorire
una vita più semplice, più serena, in
cui è possibile sperimentare un'accresciuta
intimità e una maggiore autostima. Ma, con
le varie responsabilità della vita nel mondo,
abbiamo spesso poco tempo prezioso da dedicare a tali
pratiche. Quando il tempo lo permette, la nostra sete
spirituale è momentaneamente soddisfatta e
ci sentiamo in accordo con le necessità del
nostro cuore, ma di solito la pratica spirituale rimane
in secondo piano rispetto alle attività quotidiane
più pressanti.
Potrebbe essere che stiamo delimitando in modo troppo
angusto la nostra pratica spirituale? Forse siamo
troppo attaccati a una forma particolare di spiritualità,
a una pratica specifica o a un insieme di circostanze.
Se torniamo all'intenzione che sta alla base
della nostra pratica, anziché aderire rigorosamente
a una forma che appoggi l'intenzione, possiamo scoprire
un nuovo approccio alla spiritualità che nutra
veramente il cuore.
A me questa scoperta ha portato a servire gli altri
come pratica del cuore. Il servizio è una forma
di lavoro che sembra comune a tutte le tradizioni
sacre del mondo. Elimina l'artificiosa divisione tra
'spiritualità' e 'vita'. Arriviamo a scoprire
che il servizio può veramente essere una forma
di preghiera, un crescente impegno meditativo.
Elisabeth Kübler-Ross una volta disse che non
aveva mai meditato, né aveva mai desiderato
farlo, la trovava una cosa arida. Ma quando lavorava
con i morenti, quando era presente e intima con quelle
persone, ascoltando totalmente e costantemente imparando,
era concentrata quanto un meditante seduto sul pavimento
a seguire il respiro. In effetti meditava, ma la sua
meditazione sorgeva naturalmente dal suo interesse
per il morente, non dalla pratica formale seduta.
Per lei, la meditazione era un'espressione del suo
servizio ai morenti.
Il servizio ha la capacità di trasformare la
vita quotidiana in pratica spirituale. Se il servizio
si contraddistingue come sfondamento delle barriere
illusorie che sembrano isolarci dal resto della vita,
allora lavare i piatti, vestirsi, cucinare, mangiare,
farsi la doccia non sono separati dalla preghiera
e dalla meditazione.
Quando le attività quotidiane sono un insegnamento
riguardo al nostro legame con tutte le cose, la nostra
vita diventa una ininterrotta preghiera del cuore.
Diventiamo meno dipendenti da pratiche specifiche,
perché siamo più consapevoli dell'interrelazione
tra chi siamo e l'attività in cui siamo impegnati.
Possiamo prendere parte alla preghiera o alla meditazione,
ma non crediamo più che questi siano gli unici
modi per accedere a una dimensione spirituale. Il
nostro cuore diventa disponibile nella varietà
di contatti e relazioni, quanto lo è nella
meditazione seduta.
Incominciamo ad essere nutriti dalla vita stessa.
Ne ho fatta esperienza personale quando, dopo aver
passato alcuni anni in ritiro, compresi alcuni in
Asia come monaco della foresta, cominciai a sentire
che la mia pratica stava diventando arida. Non sapevo
bene perché. La mia vita era semplice e serena,
ma la sentivo incompleta. Sentivo, in modo indistinto,
che avevo bisogno di entrare in relazione con le persone
e di lavorare col cuore. Avevo sempre pensato che
la vita monastica avrebbe soddisfatto i miei bisogni
spirituali, e per un periodo risultò vero,
ma presto iniziai a capire che la sete del mio cuore
non aveva intenzione di obbedire al mio progetto spirituale.
Decisi, quindi, di lasciare la vita monacale e di
tornare in Occidente.
Fu difficile uscire dalla foresta, perché non
c'era niente a cui ricorrere per la propria sicurezza.
Le mie precedenti pratiche spirituali non erano più
vitali o efficaci come una volta. C'era la paura di
andare avanti e nessuna possibilità di tornare
indietro. Mi sentivo molto solo ed esposto. Non ero
sicuro di avere la forza o la centratura per continuare
a camminare in una direzione spirituale, di fronte
alle crescenti responsabilità di un laico.
Avevo bisogno di una centratura che potesse essere
applicata in qualsiasi situazione e non solo nel contesto
di particolari circostanze, che includesse gli altri
e che non dipendesse dalla solitudine.
Più o meno in quel periodo ebbi una conversazione
con Ram Dass riguardo al servizio. Avevo sempre ammirato
la sua comprensione della spiritualità impegnata
e tenevo molto ai suoi consigli. Gli raccontai che
mi sentivo come se avessi perso tutti i punti di appoggio
e mi fosse rimasto solo l'imperativo: "Servi
tutti" - come aveva spesso consigliato il guru
di Ram Dass ai suoi discepoli. Il problema è
che non avevo idea di come attuare questo imperativo.
Servire tutti? Ci sono troppe persone, e io non mi
sento all'altezza del compito! Ram Dass mi disse con
profonda compassione che anche lui non sapeva come
farlo. In qualche modo, questo mi aiutò. "Va
bene", pensai, "sono indipendente, senza
modelli di comportamento, senza guide per il salto
che sto per fare". Questo liberò la mia
creatività e mi permise di percorrere con la
mia unicità il sentiero che alla fine mi ha
condotto al lavoro negli hospice.
Nella mia ricerca per imparare come servire, mi sono
imbattuto nel passo di uno scrittore, Harold Thurman
Whitman, che mi è stato estremamente utile.
Lo tengo sulla mia scrivania e vi rifletto spesso.
Esso non smette di spingermi sempre più in
profondità nel suo significato. Dice:
Non chiederti di cosa abbia bisogno il mondo. Chiediti
cosa ti rende vivo, vai e fallo. Perché quello
di cui il mondo ha bisogno sono persone vive.
Esploriamo insieme questo brano e vediamo se riusciamo
a comprendere il servizio alla luce del risvegliarsi
e diventare vivi.
Essere vivi è un nostro diritto di nascita.
Per diventare vivi, dobbiamo allinearci col desiderio
del cuore. Dobbiamo solo riscoprire come si fa. L'essere
vivi implica l'essere svegli, la consapevolezza e
una passione empatica per la vita. Possiamo notare
che l'essenza dell'essere vivi è una qualità
pura, distinta dalle azioni che ne derivano, come
inseguire i desideri ed evitare le paure. Non importa
da dove inizi la nostra comprensione di cosa significhi
essere vivi, in ogni caso, attraverso l'investigazione,
penetriamo in nuovi e più profondi significati
di questa espressione. È necessario continuare
a ridefinirne il concetto, permettendogli di evolversi
al di là di ciò che pensiamo significhi.
In questo modo sarà sempre fresco e nuovo,
come il nostro stesso essere vivi.
Esplorare l'osservazione di Whitman aiuta a sciogliere
l'enorme tensione del cercare di capire come servire.
Risolve il problema di come praticare e insieme di
partecipare pienamente alla nostra vita. Esprime che
il servizio non è un peso, definisce anzi il
servizio come ciò che nutre il nostro essere
vivi. 'Aiutare' era sempre stato un peso per me. Era
come dover fare per forza i regali di Natale: non
ci credi, ma pensi di doverli fare e che gli altri
se li aspettino. Quando compresi che il servizio nasce
dalla generosità e non dall'autodisciplina,
cominciai a utilizzare la fonte di energia da cui
zampilla la generosità. Questa energia non
può esaurirsi finché resta connessa
agli interessi del cuore. La comprensione vitale è
stata per me quella che se sento qualcosa come un
peso, lo diventa. Se il servizio nasce da un 'dovrei',
non può essere altro che un obbligo. Se è
una responsabilità, è aiutare, non servire.
Spesso lo spostamento dal prestare aiuto al prestare
servizio è solo un atteggiamento nel profondo.
Avevo un'amica che lavorava come cameriera, per riuscire
a iscriversi all'università. Non le piaceva
quel lavoro e se ne lamentava spesso. Un giorno le
chiesi cosa avrebbe voluto fare dopo la laurea. Rispose
che voleva servire la gente. Scoppiammo entrambi a
ridere, perché fu subito evidente che fare
la cameriera è essenzialmente un lavoro di
servizio. Parlammo di cosa fosse necessario cambiare
perché lei potesse veramente servire i suoi
clienti. Per le seguenti due settimane, cercò
di mettere nel suo lavoro un atteggiamento di servizio,
guardando negli occhi gli avventori e lavorando mettendosi
in relazione. Servì il cibo, anziché
limitarsi a prendere le ordinazioni. Questo cambiò
totalmente il modo in cui percepiva il suo lavoro.
La differenza tra servire e quello che chiamiamo 'aiutare'
è la differenza tra essere vivi ed essere svuotati.
Aiutare è basato sul sacrificio, non sulla
forza. È dare qualcosa a qualcuno per una ragione
particolare. L'intenzione è l'autocompiacimento
alle spalle di qualcuno che consideriamo bisognoso.
Colui o colei che aiuta è ricompensato dal
credersi migliore di chi viene aiutato. Quando aiutiamo
qualcuno, noi trasmettiamo subliminalmente un messaggio
di disparità. Nel farlo, diminuiamo la persona
in quanto essere umano. Manteniamo chi aiutiamo in
una prospettiva rigida, e spesso rifiutiamo che cresca,
perché se crescesse e uscisse dal suo ruolo,
perderemmo il contatto di cui abbiamo bisogno per
aiutare. Diventiamo dipendenti da lui quanto lui da
noi.
La nostra mente può forzare l'altro a una relazione
di disparità, ma il nostro cuore no. Il calore
autentico non può esistere senza parità.
L'amore non fissa limiti e non nutre giudizi. Quando
serviamo, ci incontriamo e ci relazioniamo attraverso
l'affetto reciproco, non il confronto e la valutazione.
Noi veniamo serviti quanto l'altro. Entro questa profonda
connessione, vi è reciproco apprezzamento.
Il nostro cuore si apre naturalmente nel servizio.
Come potrebbe essere altrimenti? Il servizio nasce
dalla percezione che non siamo esseri isolati. La
gioia che molti di noi provano nel servizio è
la gioia della generosità, la gioia dell'unione
immediata. La sete del nostro cuore è sete
per l'unione comune, l'unione dell'inclusione. La
nostra ricerca dell'essere vivi diventa come la punta
di un compasso, sempre puntata nella direzione della
connessione e del servizio.
Ho visitato a Calcutta il Centro per i Morenti di
Madre Teresa. C'erano lunghe file di letti di legno
con sdraiati fianco a fianco i morenti. I pazienti
erano curati e puliti e la stanza, sebbene modesta
e semplice, era piena di suore premurose e di volontari.
Una delle suore stava lavando del vomito dal pavimento.
Quando ebbe finito, la presi da parte e le chiesi
cosa la sostenesse nel suo lavoro. Lei mi guardò
e chiese: "Quale lavoro?". Stavo per ribattere
"Stai qui a pulire il vomito e mi chiedi 'Quale
lavoro?'", quando notai l'espressione dei suoi
occhi: erano limpidi e raggianti. Pensai tra me: questa
donna è viva! Lei sembrò afferrare la
mia reazione iniziale e disse: "Quando cambi
i pannolini del tuo bambino è un lavoro?".
Mi limitai ad annuire, umilmente.
Attraverso il mio addestramento negli hospice, ho
notato che l'evoluzione della nostra crescita nel
servizio è spesso analoga al modo in cui le
persone muoiono. Subito dopo aver ricevuto una prognosi
terminale, i pazienti attraversano, di solito, un
periodo di risolutezza e determinazione. La loro attitudine
verso la malattia è simile alla strategia di
una campagna militare. Poi, dopo una lunga ed eroica
lotta, il loro atteggiamento cambia, passando dalla
speranza in una cura alla speranza della redenzione.
L'atteggiamento passa dal combattere la malattia,
all'alleviare una vita di sensi di colpa, e il perdono
viene spesso raggiunto attraverso pratiche religiose
o spirituali. I pazienti dell'hospice si trovano ad
affrontare il posto che la loro storia gli ha assegnato
nel mondo e la valutazione della loro vita. Il morente,
infine, si distoglie dallo strenuo sforzo tra combattere
la malattia o cercare sollievo dall'essere quello
che è, e semplicemente vive il tempo che resta.
Il fine non è più conseguire o accrescere
qualcosa. Ora c'è solo essere. La qualità
del tempo è un tempo dedicato a onorare le
connessioni e le relazioni.
In modo simile, spesso cominciamo il nostro addestramento
spirituale pensando che il duro lavoro e la disciplina
condurranno al successo. Dentro di noi possiamo sentirci
tutt'altro che spirituali, così i nostri sforzi
sono mirati a superare questa mancanza, avvicinando
il nostro lavoro spirituale con la stessa visione
della vita come 'conseguimento' che muove le nostre
intenzioni quotidiane. Ci eleviamo o crolliamo ad
ogni stato mentale piacevole o spiacevole, perché
è l'unico modo che conosciamo per riconoscere
il successo. Quando cerchiamo di servire partendo
da questo modo di percepire le cose, siamo presto
svuotati perché 'diamo così tanto'.
In questa fase, avviciniamo il servizio come una penitenza
e non possiamo sentirci mai completamente soddisfatti
aiutando gli altri. Perché il servizio possa
fiorire, dobbiamo morire a questa nozione.
Come per i pazienti dell'hospice, la nostra pratica
evolve da una filosofia della fuga da se stessi e
della ricerca della nostra privata salvezza, alla
comprensione dell'importanza della relazione. Spesso
cominciamo a operare con la convinzione di essere
troppo impuri per essere benedetti. Stiamo guardando
all'insù, con la motivazione dell'autoperfezione.
Serviamo gli altri perché ci dà un lieve
sollievo psicologico dalla nostra povertà interiore.
Siamo spinti a servire da una ferita, non dalla salute.
Lavorare con gli altri diventa un modo per attutire
il dolore della nostra inadeguatezza.
Il problema è che il dolore del nostro senso
di indegnità può essere tenuto temporaneamente
sotto controllo attraverso il servizio, ma non viene
risolto. Fare buone azioni per gli altri ci permette
di sentire la gioia della connessione con qualcosa
al di là di noi stessi, ma fa davvero poco
per sciogliere il nostro scarso senso di autostima.
L'apprezzamento degli altri, i grazie, gli abbracci,
non raggiungono il nucleo profondo delle opinioni
su se stessi. In segreto, crediamo che le persone
ci lodino perché non sanno quanto indegni siamo
delle loro lodi. Questo problema pervade continuamente
il modo in cui serviamo. Finché disconosciamo
la nostra scarsa autostima, le nostre azioni continuano
ad esserne governate. È inevitabile logorarsi
perché i nostri sforzi sono diretti a riempire
il buco nero del bisogno.
Il servizio raggiunge la maturità quando cominciamo
a comprendere che siamo degni dei frutti dei nostri
sforzi quanto i nostri simili. Questo accade quando
non decidiamo che i bisogni degli altri debbano avere
la priorità sui nostri. Comprendiamo più
profondamente che non c'è mai stato niente
di sbagliato in noi. Il servizio trasmette energia,
perché ci stiamo occupando della nostra crescita
personale. Non cresciamo per diventare una persona
diversa da quella che già siamo. Cresciamo
per capire chi siamo. L'autoaccettazione incoraggia
lo sviluppo di una relazione, una relazione con la
nostra vita interiore.
Una relazione sana con noi stessi è impossibile,
finché c'è lotta per essere diversi
da quello che siamo. Non possiamo relazionarci in
modo autentico con l'esterno, se all'interno non c'è
fiducia in noi stessi. Se abbiamo imparato a temere
l'intimità, non riusciremo a connetterci in
profondità. Relazionarsi vuol dire unire i
cuori. Il servizio può nascere solo da questa
unione. Ha inizio dalla nostra propensione ad andare
al di là dei limiti auto-imposti e delle paure.
La maggior parte delle nostre difficoltà mentali
è generata dalla grande varietà di relazioni
con gli altri ed è attraverso le relazioni
che possiamo avere accesso a questi problemi e risolverli.
Se siamo disposti a imparare dalle nostre reazioni
agli altri, possiamo cominciare a estendere l'ambito
e l'ampiezza del nostro affetto. Il servizio fornisce
uno strumento perfetto per iniziare questo processo.
L'essenza del servizio è connettersi con altri
esseri viventi. Tutte le nostre autodifese si intrometteranno
nelle nostre relazioni, se non vigiliamo. Il nostro
compito consiste nel riconoscere la loro apparenza
e attraversare le barriere mentali per scoprire l'intimità
insita nel contatto.
Quando vivevo in un monastero della foresta in Tailandia,
mi sentivo veramente libero. Non parlando tailandese,
venivo lasciato in pace dalla maggior parte dei monaci.
Quando per caso un altro occidentale visitava il monastero,
spesso il mio cuore si chiudeva ermeticamente. "Cosa
ci fa qui!" pensavo tra me. All'inizio, la percepivo
come un'invasione della mia solitudine. Ma, col tempo,
cominciai a usare queste intrusioni per imparare dalla
mia resistenza agli altri. La mia reattività
era lo spunto per prestare attenzione. Cominciai a
comprendere il mio bisogno di proteggere la solitudine
e come la mia libertà fosse dipendente da condizioni.
Fu attraverso gli altri che riuscii a imparare di
più su me stesso. Questa comprensione non sarebbe
arrivata se fossi rimasto imperturbato nel mio isolamento.
Tutti abbiamo aree della vita che risvegliano la nostra
attenzione, che ci fanno sentire più connessi,
e nutrono il nostro bisogno di crescere. Il lavoro
negli hospice ha per me questa funzione. Quando lasciai
il monastero e cominciai a dedicarmi ai morenti, dopo
un periodo iniziale di adattamento, sentii che non
avevo sbagliato mossa nel mio viaggio spirituale.
La conformazione del sentiero era cambiata, ma non
la direzione o l'intensità. Lavorare con i
morenti era semplicemente un'altra forma di ritiro
intensivo. Aveva la stessa funzione di sedere sul
mio cuscino, focalizzando l'attenzione e provvedendo
un inesauribile oggetto di investigazione.
Il mio lavoro nell'hospice può essere visto
come una metafora della passione stessa. L'essere
vivi non ha un'espressione decisiva. Qualsiasi cosa
facciamo con passione può essere fatta con
spirito di servizio. Se nutre noi, nutrirà
il mondo. Talvolta, sentiamo che non ci meritiamo
di essere nutriti. Possiamo sentire che stiamo egoisticamente
seguendo i nostri interessi, come se dovessimo trovarci
dove si svolge l'azione, dove ci sono i problemi,
e non curvi su un microscopio o intenti a fissare
le stelle. Ma il mondo è più connesso
di quanto si pensi. Il mondo reclama l'essere vivi,
non un'attività specifica. Aprire il cuore
attraverso qualsiasi mezzo, serve il bene più
grande.
La domanda è semplice: cosa ci interessa? Non
importa cosa sia, se ci interessa, c'è centratura
e assorbimento nell'attività. Se siamo anche
disposti a imparare mentre siamo impegnati, allora
sono presenti tutti gli ingredienti della crescita
spirituale. Non c'è bisogno di andare da nessuna
parte o di fare qualcos'altro. Uno dei miei insegnanti,
Ajahn Buddhadassa, stava seduto tutto il giorno davanti
alla sua capanna salutando i visitatori. Aveva costruito
la sua casa fuori dall'ambiente naturale della foresta,
perché lì dimorava il suo cuore. Quando
lo interrogavano sulla sua pratica spirituale, rispondeva:
"La mia attenzione si sviluppa naturalmente attraverso
le cose che amo".
Forse, prima di tutto, dobbiamo comprendere quali
sono i nostri interessi, nell'ambito del modo di vivere
che ci siamo scelti. Provate a pensare per un momento
perché avete scelto di fare il lavoro che state
facendo adesso. Tornate col pensiero a prima che gli
incentivi finanziari, il prestigio, e lo status sociale
diventassero la discriminante principale. Se siete
un medico o un falegname, perché avete scelto
questa professione? Se siete un avvocato o uno psicologo,
cos'è stato a entusiasmarvi all'inizio? Per
alcuni di noi, l'espressione del servizio può
non essere direttamente connessa con gli altri. Può
darsi che siamo un programmatore di computer o un
artista. Qualunque sia il nostro lavoro o il nostro
passatempo, se riusciamo a riaccendere questa passione,
la nostra meditazione e la nostra vita cominceranno
a diventare una cosa sola.
Il servizio si sposta da un atteggiamento di autodifesa
all'inclusione degli altri. Cominciamo a vedere la
vita non nei termini dell'ottenere e del raggiungere,
ma come una viva esperienza, il cui centro sono le
relazioni, non gli oggetti. Il servizio, allora, ci
nutre, perché stiamo continuamente crescendo
nella nostra relazione con ciò che serviamo.
Questo può accadere solo quando teniamo noi
stessi in una stima tanto grande quanto quella in
cui teniamo le persone che serviamo. È un lavoro
tra pari. Questa comprensione comincia ad abbattere
i confini tra io e altro. Ben presto cominciamo ad
accorgerci che una vita basata sull'aggrapparsi e
sull'evitare non approda a nulla ed è senza
significato e alla fine non conduce ad altro che alla
sofferenza. Dice il Buddha: "Il viaggio spirituale
è un sentiero che dalla felicità porta
a una felicità più grande". Questo
pellegrinaggio è il servizio.
da:
Voices of Insight, Shambhala 1999.
Traduzione di Chandra Candiani