Il
dolore della storia nella storia di ognuno
ONE BY ONE
Quella
che segue è la trascrizione integrale del primo
incontro che si è tenuto a Roma il 20 marzo
di quest'anno con quattro rappresentanti di One by
One.
Il giorno successivo il lavoro è proseguito
con una tavola rotonda sul tema "Guarire la memoria"
a cui hanno partecipato anche Daniele Garrone, biblista
valdese, e Pupa Garribba della redazione della rivista
Confronti. Il dibattito che ne è scaturito
è stato ricco di sollecitazioni e riflessioni
che ci auguriamo di poter riprendere, sia pure in
parte, nel prossimo numero del giornale.
La prima visita di One by One a Roma si è conclusa
il 22 marzo con un concerto di Rosalie Gerut e Betty
Silberman. Vogliamo infine ricordare l'incontro con
gli studenti del liceo Virgilio la mattina del 21
marzo, preceduto dalla proiezione del documentario
"Portare testimonianza ad Auschwitz".
Ci auguriamo che in occasione della presenza a Roma
della mostra di opere di membri di One by One, di
cui al momento non siamo ancora in grado di indicare
la data, sia possibile realizzare nuovi momenti di
discussione e riflessione.
Un particolare ringraziamento va all'Assessorato alla
Politiche Culturali del Comune di Roma che con pronta
sollecitudine ha dato il suo indispensabile contributo
alla realizzazione dell'intera manifestazione.
Roberto
Mander
Ho incontrato Rosalie Gerut nel dicembre del 1994
ad Auschwitz, in Polonia. Per celebrare il 50° anniversario
della fine della II guerra mondiale, dal più
tristemente noto tra i campi di sterminio nazisti
sarebbe partito un pellegrinaggio di pace che si sarebbe
poi concluso il 5 agosto dell'anno successivo a Hiroshima,
in Giappone.
Il tragitto avrebbe attraversato numerosi paesi ancora
teatro di conflitti, o che lo erano stati ancora in
tempi recenti.
Nei giorni di grande intensità che precedettero
la partenza della marcia ebbi modo di ascoltare le
testimonianze e le storie che i membri di One by One
condivisero con gli oltre cento partecipanti provenienti
da diverse parti del mondo.
Rimasi colpito dalla dimensione, nuova per me, che
intravedevo emergere dal racconto dell'esperienza
dei gruppi di dialogo creati da One by One, tra i
figli dei sopravvissuti all'Olocausto e i figli di
militari del Terzo Reich. In essi il processo di guarigione
da ferite tanto profonde quanto mai più cancellabili
fioriva proprio attraverso il pieno recupero della
memoria e la capacità di saper camminare insieme
fin dentro la parte più buia della storia e
della vita di ciascuno dei partecipanti. Oggi, finalmente,
con profonda riconoscenza per il loro lavoro e con
gioia do il benvenuto a Rosalie Gerut, Martina Emme,
Deborah Shelkan-Remis e Ilona Kuphal. Grazie di essere
qui con noi oggi.
Rosalie Gerut
Le parole che hai detto ci spingono ad andare ancora
più a fondo nel nostro lavoro. Come ha già
detto Roberto, nel 1994 partecipammo ad Auschwitz
alla Convocazione del Pellegrinaggio per la Pace:
eravamo da una parte un gruppo di discendenti di tedeschi
che avevano partecipato al regime nazista e dall'altra
discendenti di sopravvissuti all'Olocausto, la seconda
generazione. La gente si chiedeva chi fossero queste
persone che piangevano insieme davanti ai crematori
di Auschwitz: eravamo uno strano gruppo di persone
che si erano riunite la prima volta nel 1993.
In qualche modo sapevamo che dovevamo incontrarci
e la gran parte di noi, quando venne a sapere che
c'era questa occasione di incontro, sentì la
necessità di parteciparvi. In una località
della Foresta Nera, in Germania, ci ritrovammo in
trenta dentro una stessa stanza. Tra noi c'era anche
una donna che aveva appreso da pochissimo tempo che
suo padre aveva preso parte direttamente ai massacri
di massa. Nello stesso cerchio di persone, seduto
dalla parte opposta, c'era un giovane la cui famiglia
paterna era stata sterminata proprio da quell'uomo.
Che cosa facevamo li insieme? La donna era colpevole
per i crimini del padre? E contro chi l'uomo doveva
rivolgere la sua rabbia e il suo dolore? Dovevamo
affrontare dei grandi interrogativi.
Alla fine capirono di essere entrambi vittime, anche
se non esattamente nello stesso modo: di essere figli
tutti e due di uno stesso tremendo evento che tutti
quanti avevamo seppellito in noi. Ci rendevamo conto
che dovevamo affrontare questa storia. Da una parte
c'era una grande massa di interrogativi e dall'altra
un grosso problema individuale. Iniziammo allora uno
per volta, ciascuno dentro se stesso e in piccoli
gruppi, a esplorare questo terreno.
L'espressione One by One, uno per volta, l'abbiamo
ripresa da un libro di Judith Miller (One by One)
in cui scrive: "L'astrazione è il più
forte nemico della memoria e uccide perché
incoraggia la distanza e spesso l'indifferenza. Dobbiamo
sempre ricordarci che l'Olocausto non ha riguardato
sei milioni di persone, ma una persona, più
un'altra, più un'altra ancora, più una...
Solo comprendendo che per ritenersi civili si deve
difendere ciascuna persona, una per una, solo così
l'Olocausto, ossia ciò che non è comprensibile,
può trovare un significato".
Continuando a incontrarci con questa intensità
per due anni, raccontando ciascuno la propria storia
e quella dei propri genitori, abbiamo cominciato a
percepire una sorta di trasformazione dentro di noi.
Ed è stato così che abbiamo sviluppato
l'idea del Gruppo di Dialogo.
Per quanto riguarda la parte teorica facciamo riferimento
a degli autori importanti. Uno di essi è Viktor
Frankl, che è sopravvissuto a Dachau. Egli
ha scritto: "Quando si porta sulle spalle una
sofferenza insopportabile l'unico modo di reagire
è di darle un significato. L'unica potenzialità
umana è trasformare una tragedia personale
in un trionfo, trasformare il proprio dolore in una
conquista umana". Frankl è una delle figure
a cui ci ispiriamo maggiormente.
Martina Emme
Sono nata in Germania nel 1959, potrei quindi affermare
dopo tanto tempo dal nazismo e che quindi, in un certo
senso, il problema non mi riguarda. Però oggi
posso dire con certezza che non potrei vivere nel
mio paese se non mi confrontassi con la sua storia.
Ciò che è successo durante il nazismo,
secondo me, ha distrutto la dignità della Germania.
E per me c'è un solo modo di vivere con questa
consapevolezza ed è quello di fare un passo
alla volta per ristabilirla.
Il mio lavoro con One by One è un piccolo contributo
in questa direzione. Quando andavo a scuola si studiava
la storia solo fino al 1900. Naturalmente oggi la
situazione è cambiata, ma voglio ricordare
che che ai miei tempi c'era come un tabù intorno
a questo argomento. Questa atmosfera è stata
spesso descritta come un silenzio che penetrava attraverso
l'intera società. La situazione è cambiata
solo con il movimento studentesco, ma di questo vorrei
parlare dopo.
Rompere questo silenzio, che è dominante soprattutto
all'interno delle famiglie, è la prima delle
finalità di One by One. Il contrario del silenzio
è parlare gli uni con gli altri e per me i
gruppi di dialogo di One by One sono come una forma
di liberazione. Parlando gli uni con gli altri cerchiamo
di capire quali sono le tracce che la storia ha lasciato
dentro ognuno di noi.
Vorrei però ora accennare al secondo autore
a cui si ispira il nostro lavoro. Accanto a Viktor
Frankl abbiamo Primo Levi, l'autore di Se questo
è un uomo, che era nato a Torino ed è
sopravvissuto ad Auschwitz. Questo suo libro è
stato tradotto in tedesco molto tardi e non stupisce:
la società non era ancora matura ed era forte
la tendenza a rimuovere questi temi. Ciò che
mi ha colpito personalmente nel libro è il
modo in cui Primo Levi descrive con molta oggettività,
e apparentemente senza accusare, ciò che lui
ha sperimentato nel campo di Auschwitz.
Vorrei essere più precisa: mi sembra che ogni
singola frase del suo libro sia contemporaneamente
un grido verso la giustizia e una condanna della disumanità.
Nella prefazione all'edizione tedesca ha scritto qualcosa
che per noi di One by One è molto importante:
Vorrei leggervelo: "Ho scritto questo libro per
coloro che non sanno niente, per coloro che non vogliono
sapere niente". Ma coloro a cui era veramente
diretto il libro, e gli era diretto contro come un
fucile, erano loro, i tedeschi. "È arrivato
il tempo di parlare chiaramente ed è anche
arrivato il tempo di parlare gli uni con gli altri.
Non sono interessato alla vendetta, il mio compito
è di capire".
Come può un sopravvissuto a un campo di concentramento
scrivere una frase come questa: io vorrei conoscervi
per potervi capire? Cercare di comprendere senza accusare,
ma contemporaneamente dice in modo univoco che voler
capire non vuol dire assolutamente, neppure per un
secondo, giustificare. Vuol dire che, mentre si rivolge
a loro, vuole però nello stesso momento vedere
se i tedeschi sanno cogliere questa occasione per
un vero confronto.
Un altro filosofo per noi molto importante è
Martin Buber, un ebreo tedesco morto nel 1965. Uno
dei suoi testi principali è Il principio
dialogico. Egli vede il dialogo come il momento
centrale e scrive che se due esseri umani si incontrano
realmente, autenticamente, succede qualche cosa. Se
si fanno toccare internamente da ciò che l'altra
persona dice, se ciò li emoziona veramente,
succede un qualcosa che li trasforma entrambi. Per
Buber questo è un segno della presenza di Dio.
Nei gruppi di dialogo lo abbiamo sperimentato e abbiamo
visto che questo succede quando i due dialoganti realmente
entrano l'uno nel discorso dell'altro, in profondità.
Succede quando raccontiamo le nostre storie e il vero
lavoro è quello dell'ascolto. Ascoltare ciò
che io nella mia vita non ho vissuto ma che è
ad essa così strettamente connesso. È
come se due metà che fino a quel momento erano
rimaste separate di colpo si riunissero. È
la storia delle vittime unita alla storia dei carnefici.
Voglio subito chiarire che non si tratta assolutamente
di perdonarsi reciprocamente, si tratta di molto di
più e forse a questo proposito Rosalie può
dire qualcosa del concetto ebraico di perdono.
Rosalie
Gerut
Nell'ebraismo la persona che ha subìto un torto
deve avvicinarsi a colui che lo ha causato ma ciò
che è richiesto per la guarigione di entrambe
le parti è che la persona che ha commesso il
torto deve capire ciò che ha fatto e sentire
un sincero rimorso e quindi avvicinarsi alla persona
a cui ha causato un male e dirgli: "Sono davvero
dispiaciuto e prometto di non fare mai più
una cosa simile. E le mie azioni proveranno quello
che dico". Per quanto riguarda la mia esperienza
non sono a conoscenza di un singolo caso in cui un
tedesco responsabile di quei crimini abbia mai chiesto
perdono a un sopravvissuto. Sono pronta comunque ad
accettare e ascoltare una tale persona se esiste.
Dal punto di vista ebraico questa realtà causa
grande sofferenza ai sopravvissuti che poi la trasmettono
ai figli, come è successo nel mio caso, una
pesante eredità di dolore. E dalla parte invece
di coloro che hanno commesso i crimini viene trasmesso
ai figli un senso di colpa e di vergogna.
Nei nostri gruppi di dialogo dove non siamo direttamente
noi coloro che hanno subìto o commesso il torto
fa incredibilmente bene sentire qualcuno dalla parte
dei responsabili dire: "Mi dispiace profondamente
per quello che la mia gente ha fatto alla tua".
E mi auguro che dall'altra parte, per i figli dei
colpevoli, faccia altrettanto bene sentirsi dire che
loro non hanno colpa.
Ora prima di raccontare ciascuna di noi la propria
storia vorrei dire solo poche parole sui gruppi di
dialogo. Si tratta di cinque giorni di intenso dialogo
che si svolgono a Berlino. Ne abbiamo appena concluso
uno. La maggior parte del tempo è dedicata
al racconto che ognuno fa di come l'Olocausto o il
regime nazista abbia segnato la propria vita. E i
risultati sono sempre molto forti, molto importanti.
Non è un esercizio intellettuale, ma una comunicazione
che nasce dal cuore. La gente ne esce dicendo che
la propria vita è profondamente cambiata e
noi ci sentiamo onorati di poter lavorare in questa
direzione.
Deborah Shelkan-Remis
Buonasera, vengo da Boston in Massachusetts e sono
molto onorata di essere qui questa sera. Ma prima
di raccontarvi la mia storia e il mio rapporto con
One by One vorrei condividere un'importante festività
ebraica che inizia proprio oggi, Purim. Si celebra
un'occasione in cui il popolo ebraico fu vittorioso
e non vittima. La storia è contenuta nel libro
di Ester dove troviamo la profonda verità che
la sofferenza e la tribolazione sia per chi perseguita
che per chi è perseguitato accompagnano la
nascita del pregiudizio.
Vorrei chiedervi scusa fin da subito se mi emozionerò,
ma pochi mesi fa mio padre che era un sopravvissuto
è morto. Era nato a Riga, in Latvia, studiò
come cantante lirico e divenne il tenore principale
del Metropolitan di Riga e la sua voce è stata
ascoltata in molti teatri dell'opera in Europa. Ritornò
a Riga per svolgere il servizio militare e fu allora
che venne preso e rinchiuso nel ghetto di Riga. Nei
cinque anni che seguirono perse ventitré membri
della sua famiglia, compresa la prima moglie, i genitori
e tre fratelli. Fu liberato nel marzo del 1945 e pesava
allora meno di quaranta chili. Trascorse i primi mesi
in ospedale con il tifo dopodiché riuscì
ad arrivare a Berlino. Fu sistemato in un campo profughi.
Mia madre che è americana fu inviata a Berlino
nel 1946 come addetto stampa del generale L. Clay,
presso il comando alleato. Sentì mio padre
cantare e andò così. I miei genitori
si sposarono nel 1947 e trascorsero la loro luna di
miele andando da un campo profughi all'altro in tutta
Europa per cercare le persone scomparse che mio padre
conosceva.
Come figlia di un sopravvissuto all'Olocausto fin
da piccola la mia vita ne è stata segnata.
Olocausto è una parola che si sentiva spesso
a casa mia. Mio padre conservava la sua giacca del
campo di concentramento con il suo numero: 96510.
E quando eravamo piccole io e mia sorella giocavamo
a nasconderci dalla Gestapo andando sotto il letto.
Mio padre diceva che era importante conservare quella
giacca perché era una prova che l'Olocausto
c'era stato. Nel corso della sua vita raccontò
spesso in varie occasioni la sua esperienza nei campi
perché riteneva che fosse sua responsabilità
farlo. E ora come sua figlia la mia responsabilità
è che questa storia viva per sempre.
Il nostro coinvolgimento in One by One è molto
individualizzato, veniamo tutti con motivazioni diverse,
però sappiamo quello che dobbiamo fare. Alcuni
di voi hanno visto il filmato nel pomeriggio (ndr:
I mulini della morte: confessioni di un ex membro
della Gioventù Hitleriana): io ho un caro
amico nell'associazione che faceva parte della Gioventù
Hitleriana e quando mio padre è morto e io
ero a Berlino, appena lo ha saputo è venuto
a trovarmi e ha passato tutto il pomeriggio con me.
Rosalie ha già detto come la partecipazione
ai gruppi di dialogo sia un evento che cambia profondamente
la vita. Vorrei leggervi ora una poesia che ho scritto
nel 1996 dopo aver partecipato al mio primo gruppo
di dialogo.
Nuvoloso, con possibilità
di schiarite
Non so dove collocarti.
Anche tu ti senti così?
Volevo odiare te, la tua famiglia, il tuo paese, i
tuoi modi ariani biondi e perfetti.
Volevo che le nubi scure restassero,
che aleggiassero nell'atmosfera
come una tempesta che si avvicina.
I nostri occhi si sono incontrati
un filo ha cominciato a svolgersi
e attraverso le nostre storie un nuovo filo ha cominciato
a tessere tra di noi.
Dietro le nuvole si stava al sicuro.
Ora i venti della speranza sparpagliano le nubi
e uno spicchio di sole si affaccia all'orizzonte.
Per me partecipare a One by One è stato un
segno che ha cambiato completamente lo scopo della
mia vita, ma soprattutto ha cambiato qualcosa per
i miei figli, ha dato loro la speranza per il futuro.
Possiamo scegliere nella vita di star lì a
guardare l'odio, il pregiudizio e lasciare le cose
come stanno o possiamo scegliere di cambiare.
Martin Luther King diceva che quando al Buon Samaritano
veniva chiesto "Che cosa mi succederà
se aiuto quella persona?" la risposta che dava
era: "Non devi chiedere che cosa succederà
a te, ma che cosa succederà a loro se tu non
porti aiuto". Mio padre diceva sempre che se
non fosse stato per un buon tedesco, per un buon cristiano,
non sarebbe rimasto vivo.
Quest'altra poesia che ho scritto mi è stata
invece ispirata dalla storia che Martina ha raccontato
quando ci incontrammo la prima volta. Fu allora che
compresi che pur venendo da storie del passato completamente
diverse avevamo in comune molte cose.
Maneggiare con cura
Le mani di tuo padre grandi e forti
tenevano dritta la bicicletta quando imparavi a pedalare.
Le mani di tuo padre grandi e forti
hanno deciso il destino della mia famiglia con uno
schioccare delle dita.
Le mani di tuo padre grandi e forti
ti facevano saltare sulle sue ginocchia tra gridolini
di gioia.
Le mani di tuo padre grandi e forti
hanno strappato neonati dai seni delle madri.
Oggi, le nostre mani tenere e dolci
si raggiungono tremanti per toccarsi.
Ilona Kuphal
Di mio padre sapevo solo che era stato in guerra,
mi ricordo molto bene i grossi stivali da militare,
era l'unico oggetto rimasto della sua uniforme. Mi
ricordo di averci giocato con molto piacere. Sono
anche cresciuta con molti racconti e immagini sulla
guerra. Da quando ero piccola avevo sempre l'idea
che non mi sarebbe mai piaciuto essere in una guerra.
Avevo degli incubi con bombe che cadevano sulle case.
Nel 1961 ho vissuto il più grande shock della
mia vita, era al tempo del processo a Eichmann. Era
la prima volta dopo tanto tempo che si riparlava di
Olocausto e si vedevano anche delle immagini in televisione.
Seguivo il processo giorno per giorno, non riuscivo
a capire come degli esseri umani avessero potuto fare
tutto ciò ad altri esseri umani. Mi ricordo
in particolare di un'immagine che si è impressa
nel profondo del mio cuore: quella di una bambina
piccola con il fratellino su un carro bestiame e l'espressione
che aveva negli occhi.
Ma non era soltanto una storia, l'Olocausto non era
così lontano, era successo da molto poco e
proprio nel mio paese. Quindi sono andata dai miei
genitori e ho chiesto loro: "Ma come è
possibile che sia successa una cosa simile? Voi che
cosa avete fatto per impedirlo? Come è potuto
accadere?". L'unica risposta che ricevetti fu:
"Noi non ne sappiamo niente. E poi, tu sei nata
dopo la guerra perché ti occupi di queste cose?"
Sono andata allora dai miei insegnanti, dal sacerdote,
dai miei nonni, da tutti gli adulti che conoscevo
per trovare qualcuno che mi desse una risposta. Ma
nessuno, proprio nessuno mi disse la verità:
dovunque ricevetti sempre le stesse risposte. Soprattutto
mio padre si agitava moltissimo e ripeteva: "Ma
voi non potete capire, voi non avete nemmeno idea
di come era tutto questo". Ma a me queste risposte
non bastavano. Quindi lo misi sempre più alle
corde, ma lui si arrabbiava sempre di più e
così iniziai a odiarlo. Si stava creando tra
noi un abisso sempre più profondo che non si
riusciva più a colmare. Come facevo a parlare
con mio padre di qualcosa di importante se non potevo
parlare di questa che per me era ed è la cosa
più importante di tutte?
Martina vi ha parlato del silenzio che regnava in
Germania, anch'io l'ho vissuto, ma era opprimente.
Finalmente nel 1968 andai negli Stati Uniti per studiare.
La spinta che mi faceva andare avanti era capire come
un simile avvenimento era potuto accadere e mi continua
a sostenere ormai da tanti anni. Negli Stati Uniti
ho incontrato molte persone ebree, ma mi avvicinavo
a loro con un senso di colpa; molti della mia generazione
hanno assunto su di sé questo senso di colpa
che in realtà appartiene ai nostri genitori
e ai nostri nonni. Sembrava come se una nuvola di
colpa pendesse su tutta la Germania. Ma le generazioni
prima della nostra non volevano accorgersi di questa
nuvola ed è stata quindi la nostra generazione
che l'ha presa completamente sulle proprie spalle.
Ci sono voluti alcuni anni prima che io riconoscessi
che non si trattava di una mia colpa personale, ma
che come tedesca ho una responsabilità. È
una storia, un'eredità che ci è stata
trasmessa. Noi abbiamo la responsabilità insieme
a questo anche di stendere la mano all'altra parte.
Sono stata per diversi anni in un gruppo di dialogo
ebraico tedesco, ma lì non parlavamo direttamente
di questi temi. Ho letto però molti libri di
figli di sopravvissuti e a quel punto mi è
stato veramente chiaro che avevamo delle cose da dirci.
Anche se le nostre esperienze sono così diverse
è pero altrettanto vero che tutti siamo vissuti
sotto la grande ombra dell'Olocausto.
Quando infine ci siamo trovati nel 1993 per me è
stata un'esperienza incredibile. Era incredibile sentire
le storie soprattutto dei figli dei sopravvissuti
di parte ebraica, ma c'erano anche figli di vittime
del nazismo che non erano ebrei, dei polacchi i cui
genitori erano stati nei campi di concentramento e
anche dei tedeschi figli di internati per ragioni
politiche. Ma l'esperienza straordinaria non è
stata solo che ascoltavo le storie dell'altra parte,
ma che anche dall'altra parte erano interessati a
sentire la mia e che il peso che sentivo da tanti
anni sulle spalle di colpo diventava leggero. È
stata un'esperienza davvero incredibile.
Il mio lavoro da allora in avanti è stato anche
quello di comprendere mio padre che nel frattempo
era morto: non per scusare o giustificare ciò
che ha fatto.
Rosalie Gerut
Mia madre è sopravvissuta al ghetto di Lodz
e al campo di concentramento di Auschwitz. Era una
ragazza giovane e ripeteva di non sapere perché
avesse meritato l'inferno. Quando i tedeschi occuparono
la Polonia fu quello, credo, il primo paese in cui
crearono i ghetti. Lei finì in uno dei più
grandi, la popolazione veniva sistematicamente affamata.
Alla fine il padre che era un rabbino si lasciò
morire di fame per dare ai figli qualcosa da mangiare
e prima di morire disse a mia madre che lei doveva
sopravvivere per poter raccontare un giorno quello
che era successo. Mia madre aveva sei fratelli e sorelle
e un giorno, mentre era in giro per cercare bucce
di patate, ci fu una retata e la madre insieme a tutti
i fratelli, tranne una delle sorelle, venne portata
in un posto chiamato Chelmno dove vennero uccisi con
il gas. Non li ha più rivisti. Riuscì
a nascondersi con la sorellina più piccola,
ma non avevano più nulla da mangiare e così
quando ci fu una successiva deportazione non si nascosero
e salirono sul carro bestiame che le portò
ad Auschwitz.
Lì fu una delle cosiddette fortunate perché
venne prescelta per lavorare all'esterno del campo.
Prese la febbre tifoidea, la tubercolosi e perse quattro
dita alla macchina dove lavorava. Lei, una sorella
e un cugino furono i soli a sopravvivere di una famiglia
benestante e molto ampia di Varsavia e Lodz.
Mio padre invece veniva dalla Lituania e fu rinchiuso
nel ghetto di Vilna, un altro di quei posti dove si
moriva di fame e per i maltrattamenti. Si unì
ai partigiani, ma raccontava che bisognava stare attenti
perché perfino tra i partigiani con cui combatteva
alcuni erano antisemiti. Fu colpito a una gamba e
catturato. Lo mandarono a Dachau. Era comunista e
lavorò insieme ad altri per salvare quanta
più gente possibile nei campi. Mi ha sempre
insegnato a lavorare per il bene del gruppo, ma dopo
Stalin non fu più attratto dal comunismo.
Riuscì a sopravvivere alla marcia della morte
da Dachau verso le montagne nella neve e nel freddo,
senza scarpe o vestiti. Mentre gli alleati bombardavano
dal cielo sapeva che alla fine sarebbe stato liberato.
Pesava poco più di trentacinque chili. Dopo
la guerra i miei genitori vennero negli Stati Uniti
e, come è successo ai genitori di Deborah,
mia madre si innamorò di mio padre per il suo
modo di cantare e suonare.
Ai sopravvissuti non venne offerto nessun aiuto per
riprendersi: dopo aver sofferto le situazioni più
estreme, le tortura, la fame: nessuno ascoltava le
loro storie. Ma noi, i figli, invece, abbiamo ascoltato
queste storie fin da quando eravamo piccoli, abbiamo
imparato che gli ebrei erano odiati e questo ancora
non riesco a capirlo; non credo che la gente ci conosca,
ma comunque ci odia. Ho imparato che qualsiasi cosa
ti può essere portata via in qualsiasi istante,
sentire bussare alla porta voleva dire la Gestapo
che veniva a prenderti. Sono cresciuta in una casa
che rifletteva il terrore dell'Olocausto; mio padre
aveva spesso degli incubi e lo sentivo urlare la notte,
mia madre piangeva spesso per tutti i suoi parenti
uccisi. E a volte la sua rabbia e il suo dolore erano
incontrollabili. Non avevo altra scelta che cercare
di uscire da questa situazione perché era stato
introdotto in me un dolore con il quale in realtà
non avevo nulla a che vedere. Ed è stata questa
la fiamma che mi ha spinto a cercare la mia liberazione.
Se non avessi avuto questa storia alle spalle probabilmente
sarei stata una musicista molto felice. Invece ho
studiato per diventare psicologa, per capire la natura
umana e per riuscire a trovare una via di uscita a
questo dolore e per aiutare gli altri a liberarsi
dal loro e trovare una strada diversa per vivere nel
mondo. Per trovare una speranza diversa, che non avevo
avuto a casa.
Ho lavorato per circa venticinque anni con l'Olocausto
da un punto di vista professionale: ho ascoltato i
figli dei sopravvissuti raccontarmi le loro storie,
ho ascoltato i sopravvissuti raccontarmi le loro.
Ma il lavoro più profondo che abbia mai trovato
per aiutare ad alleviare il dolore di questo passato
è quello che io chiamo l'atmosfera, l'ambiente
spirituale, che abbiamo creato in One by One.
Vorrei dirvi qualcosa anche di quello che facciamo
nel mondo, non parliamo solo. Seguiamo il concetto
ebraico del tikkun olam, cioè la guarigione
del mondo. È compito di ogni ebreo contribuire
a portare la luce divina il più possibile nel
mondo. È questo un tema comune anche ad altre
religioni.
Vorrei raccontarvi alcune attività che svolgono
i membri della nostra associazione. Dopo aver parlato
insieme nei piccoli gruppi che sono diventati sempre
più numerosi, parliamo anche nelle scuole,
ai ragazzi e a quelli più anziani, nelle chiese,
nelle sinagoghe, nelle università, stiamo anche
scrivendo un libro sulla nostra storia che però
non è ancora ultimato. Martina sta lavorando
con delle donne della Bosnia che sono rifugiate a
Berlino. Altri membri stanno aiutando i rifugiati
del Kosovo e della Bosnia. Uno dei nostri membri dell'ex-Yugoslavia
sta lavorando come arte terapeuta con dei bambini
della Bosnia. Io sto lavorando in America con gruppi
in cui ci sono anche dei nativi, dei sopravvissuti
ai campi della morte in Cambogia, indigeni del Sud
America e tibetani e armeni. Uno dei nostri membri
ha fatto la proposta alle Nazioni Unite di istituire
una Giornata mondiale dell'Espiazione ed è
stata accettata.
Ci sono anche molti artisti nella nostra associazione
e abbiamo allestito una mostra che viaggia nei diversi
paesi per finalità educative. Ma continuiamo
a cercare sempre nuove possibilità e speriamo
di continuare a lavorare anche con la Rete di Indra.
Credo che se dobbiamo chiamarci esseri umani dobbiamo
imparare a vivere con le lezioni che l'Olocausto ci
impone di imparare e se noi che siamo i discendenti
dei sopravvissuti e dei carnefici siamo arrivati a
un dialogo forse riusciremo a dimostrare che questo
è possibile anche per altre persone.
Martina Emme
Mentre stavo ascoltando pensavo dentro di me a cosa
direbbero i miei genitori e alcuni dei miei parenti
se sapessero che cosa sto facendo in questo momento.
Mio padre non vive più mentre mia madre è
ancora viva e se guardo nell'ambito di tutti i miei
parenti posso pensare che forse il 95% penserebbe
molto male di quello che sto per raccontare adesso
e solo il 5% lo riterrebbe una cosa buona. Sento una
voce dentro di me che mi dice: come puoi raccontare
queste cose in pubblico? ma non mi dà fastidio.
Nella mia famiglia c'è una tradizione secondo
la quale una volta l'anno ci incontriamo e mangiamo
tutti insieme, ci si racconta quello che è
successo e si scambiano le fotografie. Da un po' di
tempo anch'io ho cominciato a fare delle domande sul
passato e, come Ilona, mi sono sentita rispondere
la stessa cosa: "Tu devi solo essere felice di
non essere vissuta durante la guerra". Naturalmente
ne sono felice, ma in questo contesto è interessante
come viene usata la parola guerra: la parola Olocausto
tra i miei parenti non esiste.
Stando ai racconti potrei costruire la storia della
mia famiglia solo dopo il 1945. Potrei raccontarvi
- perché è ciò che mi è
stato raccontato - la fuga dai paesi dei Sudeti, i
tempi della fame e come lentamente tutta la famiglia
uno dopo l'altro si sono trovati e sono riusciti a
riunirsi. Resta nel buio più totale tutto il
periodo che va dal 1933 al 1945 e non si parla di
ciò che la mia famiglia ha fatto durante il
nazismo.
Quando avevo sedici anni ero molto arrabbiata e sia
a scuola che a casa ho accusato tutta la generazione
che mi ha preceduto dell'Olocausto. Oggi capisco che
questo non è un buon metodo per parlare con
loro perché in realtà stavo facendo
delle accuse. Però devo ammettere che ancora
oggi mi arrabbio moltissimo quando sento questo tabù
per cui di alcune cose proprio non si parla. Non vorrei
che a questo punto voi aveste un'impressione sbagliata
di me perché nonostante tutto amo la mia famiglia.
Vi racconterò un piccolo episodio di mio padre
e poi vorrei parlarvi di mio nonno. Quando ho iniziato
a lavorare con One by One avevo ancora questo impellente
desiderio di svelare finalmente le storie della mia
famiglia, volevo sentire dei fatti concreti. Una volta
che eravamo insieme con mia madre, mio padre e mio
fratello per cercare di spiegargli, raccontai loro
che nei gruppi di One by One si incontravano anche
dei sopravvissuti dell'Olocausto. Mio padre che era
già molto malato sentendo pronunciare la parola
Olocausto scattò in piedi e cominciò
a urlare: "Ma loro hanno bombardato Dresda!".
Vidi che si stava agitando e gli dissi: "Va bene,
va bene, raccontami di quel periodo". Però
la mia esca non funzionò e lui non voleva parlarne
e di nuovo ripeté la solita frase: "Sii
contenta di non aver vissuto durante la guerra".
Per me è difficile spiegare quanto sia duro
convivere con queste sue frasi perché si ha
la sensazione che non solo la mia famiglia, ma tutta
la società tedesca preferisca ancora oggi vedersi
come vittima piuttosto che come responsabile dei crimini.
Nello stesso tempo ho fatto delle ricerche, anche
di archivio, perché mi interessa moltissimo
sapere la verità, anche sulla mia famiglia.
Nella mia famiglia c'era un segreto che consisteva
nelle lettere che mio nonno aveva scritto dal fronte
a sua moglie: dopo tanto tempo ero riuscita a entrare
in possesso di parte di queste lettere e ne ho una
qui. Come mi aspettavo molte delle lettere erano lettere
di un soldato dal fronte, ma c'è un punto che
quando lo letto è stato per me uno shock.
Ho amato molto mio nonno, ero la sua nipote preferita
e qui ho una foto dove ci sono io a due anni insieme
a lui. Si vede come mi prendeva per mano, e questo
mi riporta alla poesia di Deborah. Avevo piena fiducia
in mio nonno, lo amavo, era il nonno che mi faceva
giocare, che mi raccontava le storie, che mi faceva
gli scherzi, un nonno da favola. Ancora oggi per me
è incredibile concepire che questa persona
che verso di me era così amorevole e così
presente potesse essere contemporaneamente la persona
che ha scritto quello che adesso vi leggerò:
"Cara mamma, da ieri sto qui al fronte e ci stiamo
riposando dalle fatiche della settimana scorsa".
La mattina del 24 giugno aveva preso parte all'invasione
dell'Unione Sovietica e questo l'ho ricostruito attraverso
le date delle sue lettere. "Siamo entrati a in
una delle maggiori città della Lituania e c'erano
poche case ancora in piedi e le altre bruciavano oppure
erano rase al suolo. Nella notte le nostre truppe
sono entrate e si sono misurate in un corpo a corpo
violentissimo con i Russi.
I nostri camerati tedeschi furono sepolti dai tedeschi".
E adesso viene la parte più importante: "I
Russi furono raccattati da ebrei. Da qui ci siamo
avviati verso Schaulen (ndr: oggi Siauliai)
che sta a nord ovest, attraverso delle strade molto
malridotte. Dei covi di ebrei". Dopodiché
la lettera continua descrivendo come si mangia, eccetera.
Di colpo dovevo fare i conti con il fatto che il mio
amatissimo nonno parlava di 'covi ebraici'; attraverso
delle ricerche storiche che ho fatto, oggi so quello
che succedeva in quei paraggi proprio in quei giorni
ma a lui non sembra nemmeno degno di essere menzionato
nelle sue lettere.
Tra il 22 giugno e il 16 luglio del 1941 tremila ebrei
furono massacrati in quella zona.
Potrei anche capire che non avesse più scritto
dalla guerra e che per dieci anni non ne parlasse
più, ma non ha mai avuto alcun tipo di rimorso.
Non credo che abbia sparato in prima persona, probabilmente
no, però lui era comunque lì, presente
e lo ha ritenuto giusto.
Io e Rosalie a questo punto abbiamo una storia in
comune perché la sua famiglia venne internata
a Schaulen. Ho la sensazione che siccome mio nonno
non è stato mai tormentato in alcun modo da
questa storia, tutto il tormento sia ricaduto su di
me, come una forma di eredità e che io con
esso debba fare qualcosa di sensato. Ed è per
questo che sono seduta qui.
Ilona Kuphal
Una cosa ho omesso di dire prima, e cioè che
mio padre era un ufficiale delle SS.