L'amicizia per l'altro
Intervista di Roberto Mander con Arturo Paoli

Abbiamo incontrato Arturo Paoli nella sede della redazione romana di "Ore Undici", il mensile a cui collabora regolarmente. Molti erano gli argomenti di cui ci sarebbe piaciuto parlare con Arturo, soprattutto alla luce della sua lunga esperienza di testimonianza nel Sud del mondo. Ma forse la chiave per accedere a una comprensione più vera del nostro operato in qualsiasi contesto sta proprio nella capacità di vivere l'amicizia per l'altro, e questo è stato dunque il tema conduttore della nostra conversazione.

Oltre all'intervista che qui pubblichiamo, è nato l'impegno a ritrovarci a Roma prima del suo ritorno in Brasile insieme anche ad altri amici interessati ad avere un maggiore scambio di idee e a cercare di sviluppare ulteriormente lo spirito di comunità.


Roberto Mander: Ti abbiamo ascoltato alcuni giorni fa in una conferenza dove ancora una volta portavi testimonianza sulla drammatica situazione nel Sud del mondo. Vorrei partire proprio da qui e dall'appello che tu rivolgi a chi è impegnato in un cammino di ricerca interiore di non nascondere la realtà del Sud del mondo e dei tanti Sud che sono anche all'interno del ricco mondo occidentale.
Arturo Paoli: Io direi che sempre il problema del male è stato presente all'uomo. È un problema che ritorna continuamente e che non ha soluzioni. Evidentemente è molto semplicistico perdere la fede, non credere in Dio giustificandosi con la ragione: se Dio ci fosse sarebbe impossibile che esistesse il male, e così via. Ma il male è nostro, non viene assolutamente né da Dio né da un altro essere onnipotente, il principio del male. Direi che bisogna affrontarlo serenamente e con coraggio e giustamente la fede, secondo me, ci aiuta a contribuire a questa lotta contro il male, ci dà la forza per combattere il male.
Direi che quando la fede ha raggiunto il suo obiettivo che è quello di liberarci dal nostro io e di metterci in una relazione affettuosa, umile con Dio - che non vuol dire che ci aiuti a risolvere tutti i problemi - allora ci aiuta a vederli con distanza, con obiettività, vorrei dire: "con la luce di Dio". Anche se, come è capitato a me, si vive proprio in mezzo alla miseria, alla povertà, a mali che non hanno soluzioni, uno sente misteriosamente questa forza interiore e questa luce che aiuta a stare in mezzo ai mali attivamente, lottando nella misura in cui è possibile farlo e con speranza.
E colpisce che la mancanza di speranza, la perdita di equilibrio, sia più frequente nei paesi ricchi e nelle persone che hanno una certa tranquillità economica. Mentre questa fede, questa speranza, questa allegria di vivere, questa forza di vivere l'ho raccolta proprio negli ambienti più poveri.
Nel mio caso direi che mi viene senz'altro da Dio, ma è aiutata dalla vita che faccio in mezzo ai poveri. Mi sento più scoraggiato qui che in Brasile, dove invece il contatto con la povertà e con tutte le conseguenze quotidiane che ne derivano dovrebbero scoraggiarmi. Ma invece lì sento una grande forza, una grande serenità, una vera e propria gioia di vivere.

RM: Immagino che non saranno mancati i momenti duri, difficili. È vero quello che dici, ma è anche vero che spesso è abbastanza evidente quali siano alcune, se non tutte, le responsabilità del male, soprattutto dell'ingiustizia sociale. Come affronti questa contraddizione tra l'operato non retto di alcuni uomini, apparati, istituzioni e la responsabilità individuale?
AP: Vedi, prima di tutto penso che non esiste nell'uomo un operato che si possa dire positivo al cento per cento. Lo vediamo per esempio anche nella tecnica, nella politica, nell'economia, ecc., e non si può dire che quello che l'uomo sta facendo in questi campi sia negativo del tutto. Anzi ci sono degli aspetti di grande efficacia, tante positività eppure dentro vi sono anche delle forze di morte. L'economia, per esempio, è un grande modello di tutto questo: è un progetto progressivo di grande forza, che richiede l'applicazione di uomini intelligenti e preparati eppure non esiste una essenza che dia tanta morte quanto l'economia, più delle armi e delle guerre. C'è questa ambiguità nell'agire umano, sia sul piano personale che sociale per cui volontariamente o anche in parte involontariamente - per i nostri stessi limiti, per la nostra stessa natura che è limitata - anche avendo la buona intenzione di aiutare gli altri, di dare la vita c'è sempre un elemento, una forza di morte in ogni nostra azione.
Evidentemente, non si può escludere la responsabilità dell'uomo specialmente nelle grandi scelte, nei grandi piani, direi a livello della dirigenza. Lì non si può escludere la responsabilità perché certamente certe decisioni sono prese proprio in base alla negazione della responsabilità verso gli altri. In fondo tutta la costruzione della globalizzazione economica e conseguentemente politica è suggerita dall'egoismo umano. L'economia oggi ha perso totalmente la sua finalità che sarebbe quella di rispondere ai bisogni concreti dell'uomo, di soddisfarli. L'economia oggi ha come finalità l'accumulazione, la crescita della produzione dei beni i cui risultati vanno poi nelle mani di pochi. È già diabolica nella sua visione, nella sua impostazione e lì non si può escludere evidentemente la responsabilità dell'uomo.

RM: Sentivo l'altra sera alcune domande che ti venivano fatte durante il dibattito ed era abbastanza esplicita la richiesta di suggerimenti su che cosa poter fare. Riprendo questa domanda alla luce anche di quelle che sono state le esperienze dei decenni passati e quindi di una lotta anche molto dura, molto aspra che ha coinvolto migliaia di vite in tutti i continenti. Mi è sembrato di cogliere quasi un tuo invito a trovare ciascuno nel suo specifico che cosa concretamente poter fare.
AP: È molto difficile dare una risposta, ma penso che tutte le esperienze comunitarie, pacifiche, basate sull'amicizia, sull'amore, sull'intesa, sulla condivisione siano delle dinamiche sociali positive che entrando nella società certamente producono degli effetti che superano la loro piccolezza.
Anche in politica bisogna favorire sempre quei movimenti e quei programmi politici che favoriscono il più possibile l'identità nazionale se vogliamo vincere la globalizzazione. Ci arriveremo non so quando - ma finalmente i paesi riconquisteranno quei diritti e quei doveri che sono propri della loro nazione come il diritto al lavoro e alla produzione. Cioè smettere di mangiare i polli che vengono dal Brasile o quell'altro prodotto che viene dalla Thailandia.
Credo che bisognerà ritornare non ai nazionalismi, ma a una identità nazionale in cui i governi nazionali assumano la responsabilità economica e politica della comunità nazionale. Oggi chi è responsabile della comunità italiana? Non lo sappiamo, ci sono dei titolari politici, ma in fondo tutta la vita economica non dipende assolutamente da loro. Lo vediamo in questi giorni con l'oscillazione catastrofica del dollaro, significa che siamo un paese dominato e a un certo punto ci viene tolto il potere di acquisto del nostro denaro da forze straniere, che non dipendono da noi.
Io penso che questo succederà quando tutto questo enorme sistema globalizzato si squaglierà, certamente crollerà... Non bisogna stare con le braccia incrociate aspettando il disastro, ma prepararsi al futuro.

RM: Accennavi prima alle molte comunità piccole o meno piccole animate da questo spirito nuovo. In questi anni così difficili c'è il recupero di termini come amicizia, comunità, fare esperienze insieme, non però nel senso di creare delle isole felici in mondi nuovi, ma proprio nel cuore dei problemi. Rispetto anche alla tua esperienza diretta in Brasile, che cosa puoi dire sulla qualità delle relazioni?
AP: Ho sempre cercato attraverso l'amicizia, attraverso gli aiuti economici di formare delle comunità di gente che assuma la responsabilità, liberandosi del proprio egoismo, di pensare agli altri. La base del male del mondo è l'egoismo dell'uomo che è stato favorito certamente anche dalla nostra cultura e dalla forma di vivere la nostra religiosità. Tutto è concentrato sull'io e bisogna rompere questa specie di legge o di tradizione. Oggi c'è una visione nuova anche nella cultura basata sull'altro non come persona da beneficare o a cui fare del bene ma come integratore della mia identità, come l'altra parte essenziale del mio io.

RM: Siamo davanti a un cambiamento di prospettiva a 360 gradi?
AP: Sto scrivendo proprio su questo e vedo che ormai si va facendo strada la concezione di Lévinas che è tutta incentrata proprio su questo. Tutta la visione basata sullo stesso, sul centralismo dell'io, è in fondo all'origine della decadenza dell'Occidente cristiano che ha dominato in senso negativo, attraverso le armi, attraverso l'imposizione di una cultura, di una religione senza mai avere una relazione di rispetto dell'altro e delle sue tradizioni, della sua cultura, della sua religione. Tutto questo si sta facendo strada oggi.

RM: Quindi un rapporto diverso proprio con la spiritualità: non più il "ponte aereo della fede", come lo hai chiamato.
AP: Direi - pur facendo attenzione all'espressione - che c'è un ritorno all'orizzontalismo della fede che è necessario perché in fondo anche nella Bibbia vediamo che Dio scende all'uomo attraverso la sua misericordia, la sua bontà e quindi ci indica la strada: se vogliamo andare a Dio, avere una relazione con lui, non ci resta altro che aiutare l'uomo. La nostra relazione con Dio passa attraverso la nostra relazione con l'uomo. Questa è la nostra fede, ma purtroppo spesso l'abbiamo tradita perché è molto più facile andare direttamente a Dio e lasciare la mediazione con l'uomo perché costa, perché ci obbliga a uscire da noi stessi, perché ci obbliga a rinunciare ai nostri piani, al nostro denaro, ecc.

RM: Oggi in certi ambienti si sente spesso parlare dell'altro come del vicino più diretto, cioè del prendersi cura della relazione con coloro con cui abbiamo maggiore familiarità.

AP: Direi che questo è il primo passo, ma non basta. Anche il rapporto più intimo che è quello della coppia, se a un certo punto non si apre verso ciò che Lévinas chiama l'altro asimmetrico non basta più. Gesù lo dice con molta chiarezza nel Vangelo, quando l'ho scoperto in Lévinas mi sono detto: "Ma accidenti, Gesù lo aveva già detto quando dice: 'Quando inviti a pranzo non invitare il tuo vicino ricco, il parente, ma invita il povero'". Perché? C'è un gran segreto, perché in fondo tutti i miei vicini, i parenti, quelli nella mia stessa condizione siamo tutti quasi una clonazione del nostro io.
Anche se abbiamo idee diverse, in fondo non c'è uno sforzo di accettazione nel ritrovarci, anzi, c'è la gioia. Quando invitiamo un amico a cena lo facciamo perché sappiamo che passeremo un momento di gioia. Non invitiamo i nostri nemici, chi ci porta il conflitto in casa. Non dico che dobbiamo invitali sempre a cena, ma è questo l'altro che dobbiamo accogliere.

RM: Riuscire dunque a fare spazio dentro di sé al nemico, ciascuno al proprio nemico?
AP: Gesù dice una frase che è stata molte volte presa in giro e di cui oggi se ne riscopre invece tutta la forza: "Quando uno ti dà uno schiaffo, porgi l'altra guancia". È lo stesso fondamento di tutta la resistenza nonviolenta di Gandhi. La resistenza passiva in un certo senso è proprio l'andare in direzione dell'avversario per convincerlo che sta nel male. Non c'è nessun altra maniera per 'pugnalare' il tuo avversario che cedergli, che fargli capire, se mi vuoi ammazzare, ammazzami pure...
E queste forme culturali, come entrano nella società? Attraverso gruppi che vivono questa realtà: siamo le cellule che dobbiamo 'contagiare', trasmettere...

RM: A questo proposito, noti differenza tra quello che succede in una grande metropoli brasiliana e quello che ritrovi in Italia nelle tue visite periodiche? O anche in Occidente osservi la stessa crescita di comunità, di reti?
AP: Penso di sì, e soprattutto direi che è la mentalità che sta cambiando.

RM: E cosa pensi dell'incontro tra religioni, tra spiritualità diverse: anche questo è un fenomeno nuovo?
AP: Bisogna trovare dei punti comuni a cui ognuno arriva per strade diverse. Tutti dobbiamo convergere verso il senso di responsabilità per l'altro, sulla necessità di trasmettere, di infondere nella nostra società l'idea della fraternità, dell'uguaglianza, del rispetto dell'altro. Però bisogna viverlo tutto ciò, perché le parole da sole non servono.
Non si può dire che le religioni sono tutte uguali, non bisogna perdersi nel mercato del religioso, tu devi credere nella tua e seguirla fino in fondo e allo stesso tempo però convergere con gli altri su un obiettivo che può essere comune.
È un po' quello che è successo quando il papa ad Assisi ha riunito i rappresentanti di tutte le religioni e c'è stato un giorno di unità. Non si sono messi a discutere sulle rispettive credenze - avrebbero litigato subito - invece hanno detto: uniamoci insieme per cercare il bene della pace. Secondo me la testimonianza che uno crede in Dio è proprio l'accoglienza dell'altro, il volergli bene.

RM: Ma la sgradevolezza che può rappresentare l'andare incontro all'altro, o meglio, ad alcuni altri, l'aprirsi al mondo fa paura.
AP: Tu devi essere vittima, che importa il resto? Devi aprirti fino al punto di essere vittima, se cominci a dire ma lì è pericoloso, ma io non posso, ecc. allora è finita. Bisogna avere lo spirito della vittima, non del vittimismo. Come Gesù e i molti che hanno seguito il suo esempio.


Arturo Paoli è nato a Lucca nel 1912. Si laurea in lettere classiche a Pisa ed è ordinato sacerdote nel 1940. Tra il '43 e il '44 partecipa alla Resistenza. Nel 1949 viene nominato assistente nazionale della GIAC (Gioventù Cattolica) mentre era alla presidenza Carlo Carretto.
Nel 1954 riceve l'ordine di imbarcarsi come cappellano su una nave argentina destinata agli emigranti. Durante questi viaggi conosce i Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld ed entra nella loro congregazione. Terminato il noviziato svolge il lavoro di magazziniere nel porto di Orano (Algeria) e poi nelle miniere di Monterangiu in Sardegna.
Nel 1960 si reca in America Latina per avviare una nuova fondazione: qui vive con i boscaioli della foresta argentina. Quando il clima politico peronista si fa pesante, subisce una campagna denigratoria: il suo nome è nell'elenco di quelli che devono essere soppressi. Nel 1974 si trasferisce in Venezuela; anche qui il suo lavoro è di impegno pastorale e di promozione sociale. Nel 1983 comincia a soggiornare in Brasile, dove, dopo la dittatura militare, prende vita una chiesa che è tra le più vive dell'America Latina.
Nel 1999, lo Stato d'Israele gli conferisce la nomina a "Giusto tra le Nazioni" per aver aiutato e salvato alcuni ebrei nel 1944 all'epoca delle persecuzioni naziste. Il suo nome sarà scritto per sempre nel muro d'onore del Giardino dei Giusti dello Yad Vashem a Gerusalemme.
Attualmente vive a Foz de Iguacu, nel barrio di Boa Esperanza. Ha pubblicato tra gli altri
Il silenzio pienezza della parola, C.E., 1991 e La radice dell'uomo (Morcelliana) e Il sacerdote e la donna, Ed. Marsilio, 1996.