La torsione mortale della guerra e dell'istituzione totale e il sentiero della presenza mentale |
Incontro tra Claude Anshin Thomas, Renato Curcio e Nicola Valentino |
Nicola:
Voglio innanzitutto raccontarvi come siamo arrivati a questo incontro con Claude.
Roberto Mander, che conosce bene la ricerca sulle reclusioni che io e Renato
portiamo avanti nell'ambito della coop. Sensibili alle foglie, ha voluto raccontarci
la storia di Claude. Nella primavera del 1997 ho avuto anche il piacere di ricevere
Claude a casa, abbiamo pranzato. E' stato un incontro di simpatia, accompagnato
dalla sensazione che qualcosa accomunasse le nostre esperienze di vita. Ho letto
poi il libro in cui Claude scrive della guerra che è stato costretto
a combattere dopo essere stato rimpatriato dal Vietnam. L'ho letto con attenzione
insieme a Renato. Il modo in cui Claude affronta "la guerra dopo la guerra"ci
aiuta a comprendere meglio l'esperienza reclusiva che stiamo vivendo ed a considerare
il carcere che c'è dopo il carcere, il manicomio che c'è dopo
il manicomio, il campo di concentramento dopo il campo di concentramento.
Sia io che Renato ci occupiamo da molti anni dell'esperienza che fanno le persone
recluse come noi nelle istituzioni totali. La domanda che poniamo, è
questa: "come fanno le persone recluse a non morire? Attraverso quali risorse
riescono a vivere giorno dopo giorno?"
L'istituzione totale costituisce un'esperienza mortale per le persone che vi
vengono rinchiuse. La persona viene infatti mortificata in quanto creatura sociale,
perché privata di ciò che è specifico dell'umano: l'essere
in relazione con altri esseri umani e con l'intero pianeta. Ogni persona reclusa
è anche minata nella propria identità personale nonché
nell'autonomia decisionale; scriveva Primo Levi che nei campi di concentramento
prima della morte biologica veniva la morte della persona. Il complesso delle
torsioni mortificanti che la persona subisce all'interno delle istituzioni totali
ha un esito anche quando cessa l'esperienza reclusiva. L'ombra lunga dell'istituzione
totale accompagna chi vi è stato internato. Primo Levi e Bruno Bettelheim
si sono suicidati molti anni dopo essere usciti dai campi di concentramento.
L'esito mortale della deistituzionalizzazione è più comune di
quando si creda.
Esso è connesso da un lato al rapporto che la singola persona stringe
con la propria esperienza reclusiva, dall'altro all'impatto con i dispositivi
della ritorsione sociale. Se all'ingresso nell'istituzione totale il recluso
subisce delle torsioni mortali, quando esce incontra delle ri-torsioni sociali:
stigmatizzazione, ma anche un certo "complesso del fastidio" della
società nei suoi confronti.
"Lascia perdere, dimentica, cerca di adattarti al nuovo mondo in cui sei".
E' questo il ritornello che tutti, anche molti nostri amici usciti da poco,
si sentono dire continuamente: "Dimentica, dimentica".
Ma c'è ancora un altro aspetto riguardante l'ombra lunga dell'istituzione
totale, si tratta di un effetto di doppia realtà. L'esperienza fatta
nell'istituzione totale è talmente forte, segna così tanto la
persona, che quando poi esce non sa più qual'è la vita vera e
quale il sogno. D'improvviso, nella vita quotidiana, il manicomio, il campo
di concentramento, il carcere, si presentificano come una realtà vera
e autentica.
C'è un libro di Jorge Semprun: "La scrittura o la vita", che
descrive in modo efficace questo effetto di doppia realtà. Dopo il suicidio
di Primo Levi, Semprun si preoccupa, comprende che quello potrebbe essere anche
l'esito della sua vita, continuamente attraversata dalle presentificazioni del
campo di concentramento. Ogni volta che nevicava ritornava a Buchenwald. Quando
era in compagnia di amici, in allegria con essi, una parte di sé era
allegra, mentre un'altra parte si mostrava prostrata dall'angoscia.
Questa esperienza di doppia realtà ci induce a fare delle considerazioni:
riprecipitare nel campo di concentramento obbliga a delle risposte di sopravvivenza,
come quelle che la persona ha messo in atto nel campo di concentramento vero
e proprio. Ma può anche capitare di non riuscire in questa operazione.
Probabilmente è l'impossibilità o l'incapacità ad attivare
delle risorse di sopravvivenza di fronte al presentificarsi del campo di concentramento
che ha portato molte persone alla morte anche molti anni dopo la liberazione.
Nell'interrogarci sulle ri-torsioni della deistituzionalizzazione ci è
venuta in aiuto l'esperienza di Claude.
Claude ha fatto l'esperienza della guerra, e la guerra, a suo modo, è
un'istituzione totale perché imprigiona la vita delle persone, sia di
coloro che la fanno, dei militari, sia dei civili, delle persone che la subiscono,
che vi vengono gettate dentro contro la loro volontà, loro malgrado.
Claude ha combattuto in Vietnam, ma ha raccontato anche la guerra che ha incontrato
al ritorno negli Stati Uniti. Quando voleva raccontare la sua esperienza si
sentiva ripetere dai suoi connazionali: "Dimentica, dimentica". Claude
veniva invitato a separarsi, a dissociarsi dall'esperienza della guerra e questo,
come lui dice, non lo aiutava ad elaborarla. Per Claude la guerra non era finita,
ritornava nella vita di tutti i giorni come le presentificazioni di chi è
sopravvissuto ai campi di concentramento, e la società non lo aiutava
ad affrontare questo malessere.
Claude imparerà a convivere con il suo dolore, attraverso la risorsa
della presenza mentale, della consapevolezza.
Queste sono due parole che abbiamo accolto nel nostro bagaglio culturale. Pensiamo
che esse siano una risorsa per affrontare le difficoltà all'interno e
all'esterno dell'istituzione totale.
Ecco dunque come siamo arrivati a questo incontro: come c'è una guerra
dopo la guerra, così c'è un carcere dopo il carcere e un campo
di concentramento dopo il campo di concentramento. La presenza mentale, la consapevolezza,
possono aiutare i reclusi ad affrontare l'esperienza della reclusione, e la
società intera a risvegliarsi all'insensatezza dolorosa delle istituzioni
totali. Claude sottolinea anche la necessità di un'assunzione di responsabilità
della società, rispetto alla guerra. Quando le persone gli dicevano di
dimenticare, in realtà lo facevano perché volevano fuggire le
loro responsabilità nella guerra.
Ecco, l'altra parola chiave è: responsabilità; c'è una
corresponsabilità sociale anche verso tutte le implicazioni prodotte
dalle istituzioni reclusive sugli esseri umani.
Claude: Prima di tutto vorrei presentarvi la mia voce e le mie orecchie.
La mia voce e Samira, le mie orecchie sono Laura e vorrei inchinarmi a loro
perché senza di loro questo incontro non sarebbe stato possibile. Un
inchino ancora verso Renato e Nicola per aver avuto tanto coraggio e aver portato
qui i loro insegnamenti, e a Roberto che ha reso possibile questo incontro.
E mi inchino a voi tutti che siete qui con il desiderio di ascoltare questi
argomenti, e anche alla mia sedia che mi sostiene.
Ciò che mi sforzo di dimostrare è l'interconnessione tra tutte
le cose. Non c'è un io separato, siamo tutti interconnessi, tutte le
cose sono interconnesse. Io non sono separato da questo bicchiere e nemmeno
dall'acqua che contiene. Se vedessi me stesso come separato in quello stesso
momento starei creando le basi per la disarmonia e il procedere della sofferenza
nel mondo.
La prigione non è l'edificio; esiste lì dove sono intrappolato
dalla natura della mia sofferenza. La libertà non è un concetto,
un'ideologia, così come la pace: essa esiste nell'integrazione di tutto
il mio essere. Nicola ha parlato di suicidio come unica soluzione conseguente
per trovare liberazione dalla sofferenza, ed io capisco bene questa scelta.
Sapete che ho partecipato come soldato alla guerra del Vietnam e durante la
guerra furono uccisi circa 58.000 soldati americani. Dopo la guerra, 100.000
veterani si sono suicidati: il doppio. La guerra non ha un termine; mai. Non
inizia nel momento della dichiarazione e non finisce al momento dell'armistizio.
La guerra è una espressione collettiva della sofferenza individuale.
Se vogliamo porre termine alla violenza, dobbiamo vivere le nostre vite in maniera
diversa e l'unico modo per farlo è risvegliarci alla realtà spirituale
della vita. Ma non dobbiamo confonderla con la religione perché la realtà
spirituale della vita è qualcosa di molto diverso.
Mi sono misurato direttamente con la possibilità concreta del suicidio
e quando è successo non è stato perché cercavo la libertà,
ma perché mi sembrava di non essere capace di convivere con la realtà
che era dentro di me, la realtà di essermi reso responsabile di molte
uccisioni, con le mie mani, con questo dito. Più di 500. Lo so perché
tenevo il conto.
Come si può convivere con tutto questo? Siccome accadde durante una guerra
non fui punito in maniera diretta. Ma dove è la differenza se uccido
in guerra o in altre circostanze? La differenza appartiene al mondo dell'ideologia.
Quanti, in questa stanza hanno ucciso oggi? Se pensate di aver ucciso alzate
la mano. Tutti abbiamo ucciso, ma ciò che ci impedisce di esserne consapevoli
nella vita quotidiana è la separazione. Bevendo mi sono appena reso responsabile
di un'uccisione: nell'acqua vivevano migliaia di microrganismi.
Sento ciò che sta girando nelle vostre teste: "Microrganismi?...
che vuoi che sia, che folle idea filosofica..." Ecco, la differenza tra
ciò che so e ciò che penso. Se resto intrappolato nel mondo delle
idee, nel mio io pensante posso anche ignorare queste vite e di conseguenza
ucciderle. Creo una gerarchia: "Solo un microrganismo, solo un gatto, solo
una mucca, solo un maiale, solo persone con gli occhi chiari, cattolici, ebrei,
zingari, vietnamiti..." Creo una gerarchia, tutto sul piano intellettuale.
Mi separo dagli altri ed è questo il momento in cui creo sofferenza e
posso sopprimere una vita. Io ne ho soppresse molte e scelgo di non farlo più;
se non bevo acqua però muoio, e allora?
Come posso rapportarmi al fatto di aver soppresso tante vite? Sono tutte domande
alle quali non posso rispondere in maniera intellettuale, la vita può
darmi delle risposte solo se la sperimento in modo diretto. Il suicidio non
è una risposta, non posso sapere se sarà meglio dopo la morte.
E come posso arrivare a questa conoscenza? Non sto parlando di un qualsiasi
insegnamento religioso, ma avviene quando riesco a conoscere me stesso in maniera
sempre più profonda.
Prima dell'atto della nascita ero nel grembo di mia madre, quello era il mio
mondo. Poi è venuta la coscienza, non una coscienza a livello intellettuale.
Nel momento in cui sono passato dal grembo di mia madre alla nuova vita, c'è
stata una morte o una nascita? Non lo so, entrambe. In realtà c'è
stata una trasformazione. A mio parere la trasformazione si rende possibile
quando mi risveglio alla natura della mia sofferenza. Lo vedo più chiaramente
attraverso le mie azioni: se le mie azioni sono nocive per me o gli altri, allora
sto creando o perpetuando altra sofferenza. Ma se sono presente a ciò
che mi spinge a compiere determinate azioni, devo interromperlo ed è
così che creo lo spazio affinché la consapevolezza emerga. La
trasformazione riguarda la guarigione.
Quando ero soldato, durante la guerra, ero utile alla società, alle istituzioni,
ma alla fine della guerra non ero più necessario e venni emarginato ai
confini della società, della cultura. In questo modo la società
poteva negare la propria responsabilità nei confronti della guerra. Se
c'è una parte di me con cui non mi sento a mio agio, generalmente faccio
uno sforzo per spingerla via perché non sono in grado di vivere armonicamente
con essa: la prendo e la metto in prigione.Ma così non ci sarà
nessuna possibilità di guarigione perché cerco solo di nasconderla.
E' come quando puliamo casa e infiliamo lo sporco sotto il tappeto, facciamo
finta che non esista; oppure prendiamo tutte le cose di cui abbiamo bisogno
e le mettiamo nello sgabuzzino e quando poi apriamo la porta dobbiamo stare
ben attenti che non ci cada tutto addosso. E' un'illusione di guarigione. Il
processo che mi sostiene lungo questo cammino è l'insegnamento buddhista
che si fonda su 4 aree principali. La prima è rappresentata dalle Quattro
Nobili Verità. La Prima Nobile Verità è che la sofferenza
è la normale condizione della vita, la Seconda Nobile Verità è
la causa di questa sofferenza, ossia il desiderio egoistico e la bramosia supportati
dall'ignoranza; la terza Nobile Verità dà la direzione per guarire
dalla sofferenza e la Quarta Nobile Verità è la direzione ossia
l'ottuplice sentiero: retta parola, retta compensione, retto sforzo, retta consapevolezza,
retta concentrazione... Non è così importante per me ricordare
tutto a memoria, quanto abbracciare il cammino in maniera attiva.
Se desidero che le cose vadano in maniera diversa, allora dovrò vivere
in maniera diversa, non posso cambiare voi, non ho nessun potere per farlo e
non c'è niente al di fuori di me che potrebbe cambiarmi: sta a me fare
questo lavoro. E' questa l'ispirazione che deriva dagli insegnamenti buddhisti.
Non sono qui per convertire nessuno, desidero solo condividere il sentiero che
mi ha sostenuto e anche affermare che nell'ambito degli insegnamenti buddhisti
ci sono degli strumenti che ci permettono di approfondire il nostro cammino,
qualunque sia la tradizione che seguiamo.
Un altro insegnamento buddhista è quello di dana, il dare senza aspettarsi
alcuna ricompensa.
Non c'è guarigione se non parliamo della nostra sofferenza, finché
non le permettiamo di diventare viva e non creiamo un linguaggio per i nostri
sentimenti in modo da riuscire a vedere quali sono gli elementi che ci distraggono
e ci impediscono di realizzare tutto questo.
Vivere senza guerra sembra un'idea estremamente radicale; che si possa vivere
in armonia e in pace è assolutamente possibile, ma prima di tutto dobbiamo
riuscire a realizzarlo dentro di noi, dobbiamo fare pace dentro di noi. La prigione
è dentro di noi, dobbiamo aprire tutte le porte per fare in modo che
tutti questi segreti si possano manifestare chiaramente. Ciò non significa
che la sofferenza scompare, ma possiamo convivere armoniosamente con essa. Finché
non riusciamo ad abbracciare la realtà spirituale della vita che significa
sperimentarla in maniera diretta, non c'è guarigione e la trasformazione
non è possibile. Non facciamo altro che ripetere i cicli della sofferenza.
Il mio invito allora è quello di risvegliarci, il risveglio può
accadere in un attimo, proprio in questo momento, come è anche possibile
che non succeda così semplicemente.
Renato:
Prendere la parola dopo Nicola e Claude è un'impresa esistenzialmente
difficile, non tanto per la difficoltà di parlare dopo, ma proprio perché
le parole che sono state dette generano un tale insieme di risonanze emotive
e culturali che richiederebbero un lungo silenzio.
La vera esigenza che sento è proprio quella di stare in silenzio per
non perdere tutto quello che in me è stato suscitato sia dalle parole
di Nicola, che conosco molto bene perché ogni giorno noi riflettiamo
insieme, ma che forse per la particolarità dell'incontro che stiamo vivendo
hanno toccato aspetti particolari; sia per questo atteso incontro con Claude
il quale ci ha messo di fronte a un'esperienza di vita prima ancora che a un'esperienza
spirituale, e a una risposta a questa esperienza di vita che credo richieda
una meditazione silenziosa al fine di non perdere alcun aspetto di una dimensione
che scorre ai limiti della nostra esperienza quotidiana, che tutti facciamo,
ma spesso senza percepirla chiaramente.
La dimensione spaventosa della morte che ci ha presentato Claude, e mi riferisco
non alla morte realizzata in Vietnam, ma all'onda di ritorno della morte con
quei 100.000 suicidi che esprimono il dolore di aver fatto; l'incapacità
di chiudere gli occhi, se non con la morte stessa, su ciò che si è
fatto e ci si è fatti. Nondimeno, questo dolore, credo sia per alcuni
una fonte profonda e limpida di maturazione spirituale, di rinascita interiore
che mi colpisce mentre sto dicendo queste parole perché solo oggi l'avverto.
Le tante mobilitazioni contro la guerra del Vietnam della seconda metà
degli anni '60, alle quale ho partecipato, forse per la cultura che all'epoca
influenzava il mio sguardo, rispondevano ad uno schema politico e dicotomico.incapace
di abbracciare anche gli esiti di quella guerra di cui Claude ci dà testimonianza.
La seconda difficoltà che ho a prendere la parola è che in questo
momento sono in un punto di totale squilibrio.
Nicola è nella stabilità della reclusione: paradossale, forte,
solida, meditata, difficile, ma rispetto alla quale anni e anni di lavoro si
di sé consentono di esercitare un controllo.
Claude è uscito dallo squilibrio dell'immediato dopo guerra, uno squilibrio
che in un pimo momento ha vissuto in una maniera che conosciamo tutti: chiudendo
gli occhi, non volendo sentire, vedere; non sapendo bene come decifrare le parole,
gli echi che gli venivano dalla società in cui viveva. Prima di aprire
gli occhi sulla scena del risveglio c'è stato da parte sua il tentativo
di modificare il suo stato di coscienza; di fare ciò che facciamo tutti
quando incontriamo un dolore: addormentarci, svenire, non voler vedere, non
voler sentire, fuggire quanto più è possibile perché affrontarlo
è penoso, difficile, richiede strumenti.
Ecco, io sono invece in un momento di squilibrio perché in qualche modo
finisce un periodo della mia vita durato 24 anni e 20 giorni e ciò mi
getta in un luogo e in un mondo a dir poco strano. Dico "mi getta"
perché è netta in me la consapevolezza di non essere per così
dire "risocializzato", di non voler tornare da nessuna parte. Voglio
andare, desidero andare in luoghi amati e su sentieri mai fin qui percorsi.
Ma non sento il desiderio di "tornare". Dopo il mio viaggio nell'istituzione
totale, attraverso un valico sconosciuto. Quando molte persone con il cuore
aperto nei miei confronti, con affetto, mi accolgono dicendo "Bentornato",
sento subito quanto sia falso per me quell'augurio; quanto sia scentarto quel
pensiero altrimenti buono, gentile, affettuoso. Perché io non torno,
non torno da nessuna parte e non credo ci possa essere alcuna possibilità
di ritorno. Almeno per quel che mi riguarda.
Mi affaccio su una società che mi presenta un mal di vivere, un malessere
della normalità, che è più preoccupante del malessere della
normalità dell'istituzione totale da cui provengo. Una società
che non sa dire però, come mi hanno detto fino all'altro ieri i reclusi:"Sto
male perché questa vita di galera mi fa stare male". No, il malessere
della normalità sceglie vie indirette per presentare il suo conto: 60
milioni di confezioni di psicofarmaci venduti nelle farmacie alle persone che
stanno bene; qualche parola ipocrita su alcool e tabacco cioè su droghe
pesantissime che fanno infinitamente più male della più bestemmiata
droga che esiste sulla faccia della terra. L'eroina fa 1.200 morti l'anno, niente
rispetto ai 40.000 dell'alcool o a quelli del tabacco. Mi trovo insomma davanti
a una società sconcertante che non vuole affatto parlare di sé
mentre io sento un'esigenza improrogabile di non perdere neppure un attimo del
mio tempo senza interrogarmi su cosa esattamente sto vivendo. Perché
tutti i tentativi di uscire da questa consapevolezza del presente che vedo intorno
a me e ho visto nell'istituzione totale, solo tentativi destinati al naufragio,
alla disperazione esistenziale, alla cattività proprio nel senso più
profondo.
Esco da un luogo periodo di reclusione, non voglio essere recluso in stereotipi,
modalità, stili, modi, che mi si presentano come la normalità,
ma non voglio nemmeno recludere perché so cosa è stata per me
l'esperienza della reclusione. Non voglio vivere esperienze di reclusione, né
subirle né attuarle. La domanda che sento di dovermi porre è dunque
questa: esiste un modo, una via del non recludere?
Non lo so, proprio non lo so. Al momento c'è un unico comandamento ben
fermo per me in questo percorso ed è quello di tentare almeno di non
autorecludermi.
Non autorecludermi nelle attività del pensiero perché questo mi
è già successo nella vita. Ci sono state attività del mio
pensiero che hanno preso il sopravvento sulla mia vita in una maniera forte,
quando ho pensato che poteva essere un'occasione della mia vita fare la carriera
universitaria a Trento; quando ho pensato che certi modelli politici di trasformazione
del mondo fossero "i modelli"; quando ho pensato che le soluzioni
che stavo dando alla mia quotidianità nei primi anni della mia carcerazione
fossero "le soluzioni". Ma la mia vita piano piano mi ha mostrato
spesso in modo indelicato, ma sicuramente in modo chiaro, che molte certezze,
molti modelli che in alcuni momenti appaiono indiscutibili, così chiari,
così evidenti, quando vengono assolutizzati si trasformano in prigioni,
prigioni terribili, in cui il prigioniero è anche il carceriere di se
stesso. Si autoreclude, ha la chiave di quella cella che nessun altro potrà
aprire, e lui stesso non l'aprirà se non quando la vita lo metterà
di fronte a qualche catastrofe.
Non autorecludermi nella vita relazionale perché le relazioni che instauro,
- con mia moglie e mia figlia, con Nicola, con voi, e più in generale
ogni relazione che instauro - hanno anch'esse in sé la chiave di una
prigione; una prigione così sottile da apparire invisibile. Ma nell'arco
degli anni ho dovuto convincermi che l'istituzione totale prima di essere un
muro che mi ha chiuso via, è un dispositivo relazionale che io ho assorbito
per bene proprio da quando ero piccolo in questa società. Un dispositivo
relazionale che ha la sua matrice nelle città stato della Mesopotamia,
della Grecia, delle civitas delle quali andiamo ancora a mostrare i ruderi ai
turisti di tutto il mondo. Guardatele bene queste città: le città
stato greche, le civitas che seminano il nostro territorio, sono tutte circondate
da un muro; sono luoghi che hanno esattamente la stessa struttura di Rebibbia,
san Vittore e di qualunque altro carcere che segni il nostro territorio nazionale;
sono prigioni. Luoghi in cui qualcuno ha decretato una dicotomia relazionale
di questo tipo: inclusi sono i cittadini, i buoni, i perfettibili e comunque
per qualcuno anche i perfetti. Ma la relazione di inclusione è una relazione
che chiama, chiede, impone l'esclusione. Impone la divisione tra qualcuno che
è lì ed è la specie, l'umano, e qualcuno Altro che è
al di là del muro, che è la bestia, che è il clandestino,
l'ammalato, il tossico e qualunque altra etichetta si voglia trovare.
Ecco, questa relazione di inclusione-esclusione è una relazione che noi
tutti abbiamo assorbito sin dal giorno in cui siamo nati, una relazione a tutti
gli effetti normale e normativa, di cui ci facciamo tranquillamente riproduttori
nel momento stesso in cui diciamo a qualcuno: "Amico, io la penso così
su questo problema, quindi o tu sei lì, puoi pensarla anche diversamente,
ma lì, oppure tu sei al di là del muro, sei escluso, sei da un'altra
parte".
Non riprodurre questo schema è davvero difficile perché vuol dire
inaugurare esperienze relazionali che non chiudano l'altro, ma lo aprano. E
questo, in una situazione sociale così mobile e confusa dove tutti gli
schemi culturali si ibridano e travestono, dove basta venire dal Marocco o dal
Pakistan, per ritrovarsi clandestini e rinchiusi in un campo di concentramento,
chiede un'atto di presenza eccezionale ai propri pensieri, alle proprie parole,
ai propri atti.
Si fa così in fretta a decretare l'esclusione, molto più in fretta
che tentare d'impedirla.
E infine c'è un altro piano d'esperienza autoreclusiva a cui non voglio
soccombere: l'autoreclusione in un mondo simbolico da me costruito per tranquillizzare
tutte le mie paure, ansie, angosce, difficoltà in questa situazione.
Mi creo un bel mondo tutto mio e lì mi chiudo per lenire tutte le mie
ferite. Questo soluzione ha portato molti e drammatici esiti in chi l'ha praticata
nelle istituzioni totali. Ed è una risposta assai frequente anche fuori:
incontro spesso persone che mi raccontano le loro prigioni, che possono essere
banali, povere, oppure più ricche, ma sono sempre uguali, hanno sempre
la stessa consistenza. Qui si sta male, io mi sono trovato la nicchia inespugnabile:
sarà la barca a vela, la partita di pallone, il sabato sera, la vita
contemplativa, la setta religiosa. C'è in tutto l'occidente una crescita
gigantesca di richiesta su questi terreni e c'è anche chi offre dei prodotti
ad hoc sofisticati. Come c'è un mercato dell'eroina così c'è
uno spaccio della spiritualità ed è uno spazio che crea le psicosette:
delle istituzioni totali peggiori di quelle che abbiamo conosciuto. Abbiamo
conosciuto molte persone che sono finite anche in questi luoghi perché
avevano un sano giusto desiderio di uscire dal loro malessere, dal malessere
che generava la loro normalità.
Io sono qui, in queste confusioni, e sono qui con una tensione forte a incontrare.
Incontro Claude non per il piacere di un giorno, ma perché è una
traiettoria che attraversa tutti questi anni ed è una traiettoria che
risponde anche a questo tipo di tensioni, risponde con un invito che a me sembra
molto importante, l'invito a meditare su un'idea di responsabilità esistenziale
quindi non tanto e non solo di responsabilità dei propri atti rispetto
a se stessi e rispetto agli altri in senso civico e civile. La qual cosa sarebbe
auspicabile comunque in un mondo che neanche questo piano assume veramente.
Ma sposta il terreno della riflessione sulla responsabilità rispetto
all'interconnessione del vivente, un'idea che è stata anche culturalmente
molto discussa in questi anni. Tutto il pensiero relazionale batesoniano ha
fatto molto lavoro sull'idea di interconnessione, ricordiamoci le frasi fatte
sull'argomento: il battito delle ali di una farfalla qui, produce degli effetti
in Amazzonia. Diventano luoghi talmente comuni e ovvi che poi non ci dicono
niente realmente sulla vita. Ma il nesso tra l'interconnessione e la responsabilità
è un nesso importante perché è un'azione. La responsabilità
vista e posta nel modo in cui ce ne ha parlato Claude chiede un'azione quotidiana
sui propri atti, una metacomunicazione con se stessi: ciò che faccio
e la consapevolezza di ciò che faccio si traducono in responsabilità
della mia azione. Responsabilità sul presente, ma anche responsabilità
su tutto ciò che ho fatto nel passato e responsabilità su ciò
che farò in seguito perché se è vero che c'è una
guerra dopo la guerra è anche vero, nella riflessione che abbiamo sentito
sia da Claude che da Nicola, che c'è una guerra prima della guerra, c'è
il carcere prima del carcere. E c'è un carcere che va perfino un po'
al di là dell'esperienza. Intendo dire: c'è uno stacco, un salto,
una qualità diversa rispetto alla quale il nesso dell'azione con la responsabilità
si pone fortemente. Allora è vero che il carcere resta tutto per quel
che mi riguarda, resta perché c'è Nicola, perché è
qualcosa che investe la normalità, perché qualcuno lo vuole, perché
tutti noi lo vogliamo in qualche modo. Resta perché risponde a una scelta
e a una responsabilità che non hanno, allora, solo alcuni, ma che abbiamo
un pò tutti. Così come la relazione di inclusione-esclusione non
riguarda più, allora, Sumer o la città stato della Grecia o i
politici o chiunque altro, ma riguarda ciascuno di noi negli atti quotidiani
e concreti che instaurano questa relazione. E quindi ecco, mi trovo in questo
tipo di riflessioni e problemi del tutto aperti, augurandomi solo di riuscire
a evitare due risposte che ho visto di fronte a me e di cui Nicola mi continua
a parlare molto in questi giorni: il suicidio e la droga. Ma spero però
che con l'aiuto di mia moglie e di mia figlia, di Claude, di Nicola, di Roberto
e di tutti gli altri di poter fare un percorso per quanto complicato, un po'
più sereno, meno drammatico.
Domanda (Raffaele) (a Renato): Sei consapevole di essere un vero buddhista?
Domanda (Antonio) (a Renato): E' una buona condizione trovarsi in un non luogo, non avere punti di riferimento, è un buon punto di partenza per diventare consapevoli della propria condizione esistenziale. Penso che la tua situazione è comune a molte altre persone. Io mi sento molto vicino a te nel non avere attualmente punti di riferimento, guide ideologiche che mi portino a risolvere i miei molteplici problemi esistenziali, politici, economici. Questa sensazione di naufragio non appartiene solo a te, è una sensazione che è comune. All'epoca mi sono trovato anch'io a prendere decisioni che avrebbero potuto essere determinanti per la mia vita, solo che non l'ho fatto; non ho fatto scelte estreme e ancora la mia condizione attuale è quella di trovarmi in un non luogo, in una condizione di naufragio, appunto. Quando Claude ha parlato ho avvertito che le barriere ideologiche che sono strutture intime di ognuno di noi, sono insorte perché ci devono dare dei punti di riferimento. Allora la tua conclusione sulle psicosette e sul consumo determinante nei comportamenti è vero, è un dato di fatto; ma al di là di questo c'è una condizione che è strutturalmente radicata dentro di noi ed è quella che fa insorgere una difesa. Io l'ho sentita come una tua difesa, è un dato di fatto che esistono, ma la persona quando diventa consapevole delle proprie azioni quotidiane, o almeno si sforza, si rende inevitabilmente conto che esistono delle realtà che non vanno: ecco le psicosette, le diverse condizioni di chiusura mentale, esistenziale che ognuno di noi si crea.
Domanda (Gigliola): Questa sera avete parlato tutti del risveglio. E' un risveglio legato alla propria individualità. Potrebbe essere un risveglio da un pensiero, da un sentire automatico? Dagli automatismi che abbiamo nei nostri modi di pensare, sentire e volere? Un altro tipo di risveglio potrebbe essere quello all'anima, alla spiritualità dell'altro. Claude ha parlato di strumenti e mi viene in mente che uno strumento potrebbe essere la tolleranza. Uno strumento potrebbe essere abbracciare un pensiero libero, un sentire libero, però tutto questo è molto difficile. Forse che ognuno di noi può trovare i propri strumenti, o forse stasera possiamo parlare anche di questo. Grazie per quello che ci avete testimoniato.
Claude:
Cos'è un buddhista? Non ne ho la più pallida idea; le persone
credono che io sia buddhista perché vesto l'abito di monaco buddhista.
Ma ciò che penso è che coloro che si dicono buddhisti non lo sono
in quanto si sono fatti un'idea di ciò che significa essere buddhista
e quindi sono rimasti intrappolati nel mondo delle idee. La necessità
di definirsi è come una droga. L'impegno per arrivare alla pura esperienza
può utilizzare qualunque strumento, basta che ci consenta di arrivare
al punto, andrà bene. Io avevo delle cose che credevo fossero i miei
strumenti e invece non lo sono stati e credo che come non hanno aiutato me,
non aiuterebbero nessuno. Ma non devo dirvelo io, non è questo il mio
ruolo. Vorrei comunque offrirvi alcuni attrezzi come la meditazione seduta e
camminata. Renato ci ha parlato di come portare attenzione ad ogni aspetto della
vita quotidiana sapendo che ogni nostro singolo atto porterà i suoi effetti
nell'universo. L'interconnessione non esiste solo tra me e un altro essere umano,
ma tra me e tutte le cose.
Io non sono separato da questo bicchiere, non sono diverso, non è un
concetto della mente, ma la pura realtà. Questo bicchiere che cos'era
prima di diventare un bicchiere? C'è il sole qui dentro, la terra, la
pioggia e le nuvole... Ci sono elementi di non bicchiere e sono tutti qui, questo
è il luogo della connessione. Se tratto il bicchiere senza rispetto,
se abuso di esso, abuso di me stesso. E così che cosa posso fare per
risvegliarmi all'interconnessione? Vivere in consapevolezza, nel momento presente
e lo strumento è la meditazione. Ma che cosa è la meditazione?
La meditazione non è una cosa, ma l'atto di vivere nel momento presente.
E come posso fare per sostenere, incoraggiare questo atto? Vi posso insegnare
alcuni strumenti, vi potranno essere utili oppure no, ma vi possono aiutare.
Dobbiamo risvegliarci alla realtà che tutti siamo nel non conosciuto,
siamo tutti nell'oscurità
L'intera nozione della conoscenza è una prigione, la comprensione intellettuale
è una prigione, perché in realtà è tutta illusione.
La meditazione ci aiuta ad arrivare a quel luogo di conoscenza
Questo è esattamente il posto dove Renato sta vivendo ora. Noi non sappiamo,
ma sentiamo che dobbiamo sapere, perché vivere senza sapere crea costantemente
uno stato di ansia, di insicurezza. Ed è per curare questo stato di disagio
che siamo alla ricerca di un qualsiasi tipo di intossicante. Ma che cosa sono
gli intossicanti? Sono le droghe, compreso l'alcool, il tabacco, il sesso, il
denaro, le ossessioni, la televisione, i giornali, le idee... Tutte queste cose
possono essere degli intossicanti, ma lo sono davvero? Solo voi potete saperlo,
ma non sempre soltanto voi. A volte siamo proprio noi gli ultimi a saperlo,
i nostri amici lo sanno prima di noi ma quando ce lo dicono noi rispondiamo:
"Ma no, non è un problema..." La vita ci sta crollando addosso
e noi continuiamo a ripetere: "No, va tutto bene".
Risvegliatevi, questo è l'invito di Nicola, di Renato ed è anche
l'invito del Buddha, di Gesù, di Maometto e di tutti i grandi insegnanti
spirituali. Ma per evitare di risvegliarci abbiamo creato le istituzioni religiose
e così finiamo per dire: "Il mio è l'unico modo che c'è
per risvegliarsi. Se non fate come dico io, allora non vi risveglierete mai
e io vi ucciderò!" Adesso nel mondo si stanno combattendo 35 guerre,
33 delle quali sono per motivi religiosi e tutte riguardano l'ideologia.
Se vogliamo che le cose vadano diversamente, dobbiamo vivere in modo diverso
le nostre vite. Quando la mattina bevete il caffe o il té tenete la tazza
tra le mani come se fosse un figlio, trattatela con rispetto, lavatela, fatele
il bagno, mettetela in un posto dove stia bene. E siate consapevoli che senza
la tazza non avreste potuto bere il caffe o il té. Questa è l'interconnessione
tra tutte le cose, ed è qui che ha inizio la guarigione. Lo so, ma se
non mi credete... non vi ucciderò! Va bene lo stesso, semplicemente vi
amerò di più.
Domanda (Tiziana): La ricerca dell'interconnessione è sicuramente un fatto importante, però dal momento che viviamo in un contesto che continuamente ci manda degli input che non rientrano in quello che vorremmo, insomma... io credo che la necessità che abbiamo di intossicarci deriva proprio dalla disperazione, dalla sofferenza che proviamo non solo tanto rispetto alla nostra sofferenza, ma a quella degli altri. Io, per esempio, lavoro con i bambini fino a tre anni e sebbene insieme alle mie colleghe abbiamo creato un luogo di lavoro tranquillo e sereno dove i bambini ci danno molto, di fatto però in questo tipo di società non posso fare altro che vivere questo contesto come un'isola all'interno di una grande prigione, di una realtà determinata dalla necessità di sfruttamento degli uomini, da un sistema che sempre più diventa insensibile alla sofferenza. Anche se cerco di lavorare molto sulla mia rabbia, questa consapevolezza non mi permette di placarla. Vorrei sapere cosa ne pensi.
Domanda (Ivana): Dire: "Imparare dalla sofferenza non significa anche rimanere imprigionati in una sorta di divisione, di confine come si diceva prima? Si può apprendere anche dalla gioia e risvegliarsi non solo dalla sofferenza, ma anche da tutto ciò che c'è di contrario alla sofferenza?
Domanda (Antonio): Nicola, anche se Renato dice che in qualche modo sei stabilizzato nella tua condizione, vivi pur sempre una condizione di reclusione. Quale pensi che sia la tua risorsa per sopravvivere a tale condizione?
Claude:
Per prima cosa vorrei dire che l'interconnessione non è qualcosa che
dobbiamo andare a cercare. C'è. Dobbiamo soltanto risvegliarci a essa,
accettarla. Tutte le altre cose che hai detto sono vere, ma non sono una ragione
per non risvegliarsi. Se ci sono diecimila persone che si gettano da un ponte,
ciò non vuol dire che questa sia la cosa giusta da fare né che
sia qualcosa che io devo fare. Io posso vivere la mia vita in maniera diversa,
ma è proprio questa la sfida che Renato questa sera ha esposto.
La gioia è conseguente alla sofferenza, la sofferenza non è una
cosa negativa; proprio questa nozione è la vera causa della sofferenza.
Noi cerchiamo di evitarla. Certamente, dove c'è la sofferenza c'è
anche il suo opposto, ma noi non possiamo arrivarci se prima non passiamo attraverso
la sofferenza. Ciò che percepiamo come gioia normalmente è piacere,
cioè qualcosa di non duraturo che dipende dalle circostanze esterne.
La vera gioia è quella che non dipende da circostanze esterne. Quando
mi risveglio alla natura della mia sofferenza, l'esperienza che incontro non
ha definizioni, non ha un contesto: è una parte di me così come
lo è la mia pelle. C'è un senso di agio, di sicurezza che nulla
può portare via. Posso venire spogliato di tutto: dei miei vestiti, della
casa, di tutto, non ha importanza, perché non sono queste le cose che
mi rendono ciò che sono. Non aggiungono e non tolgono nulla dalla realtà
di me stesso che esiste al di là di tutte queste cose. Se non sono pronto
a dare via tutto - non è che devo farlo, ma essere pronto a dare via
i miei attaccamenti - la comprensione e la guarigione vera, se non impossibili,
diventano senz'altro difficili.
Nicola:
Sono stato arrestato nel gennaio del 1979 e condannato all'ergastolo nel dicembre
di quell'anno. Solo 13 anni dopo, un certo giorno ho detto: "Ho l'ergastolo".
13 anni dopo. Penso che in realtà sia stata questa la risorsa più
potente che ho messo in atto per affrontare la mia condizione di vita: il momento
in cui ho aperto gli occhi sulla condizione nella quale ero vissuto e in cui
tuttora vivo.
Questa è la risposta alla domanda che mi è stata rivolta e anche
una considerazione riguardo al risveglio. Quando mi sono detto: "Io sono
un ergastolano" mi sono sentito risollevato; ciò che prima era un
peso si è alleggerito e ho anche cominciato a scherzare sulla mia condizione.
Subito dopo questa apertura degli occhi, praticamente ho scritto un libro sull'esperienza
dell'ergastolo, in pochi mesi, perché per me era diventato importante,
dopo la presa di coscienza, riguardare la mia esperienza e quella di chi ha
avuto ed ha la mia stessa condanna.
Ho scritto quel libro anche sapendo di avere già l'editore ...!
Renato:
Mi sono state rivolte due domande. Qualcuno ha usato la parola 'naufragio' che
è una parola a cui ho atteso a rispondere perché volevo sentire
bene dentro di me che cosa mi diceva. Ma effettivamente la metafora del naufragio
non è la mia metafora. Non mi sento un naufrago, non vivo l'esperienza
del naufrago. Se dovessi giocare con queste parole mantenendo il piano della
tua metafora, userei piuttosto per me la parola 'emersione'. Non sento di naufragare
nella mia vita a un certo punto, ma sento di emergere nella mia vita a un certo
punto. Lo sconcerto è che non so dove, anche se sicuramente è
un luogo lontano dal 'nostos', dalla nostalgia, dal ritorno. E' un luogo che
non so definire e in questo senso collego questo tipo di sollecitazione alla
tua: non so definire quel luogo, ma non so neanche definire il mio luogo. Non
so definire ciò che incontro. Non so... ma devo dire di più: non
voglio. E' proprio un atto di volontà perché mi sembra che proprio
nell'etimo della parola 'definire' ci sia la sua condanna. De-finire vuol dire
finire, e finire significa proprio uccidere. Definire una situazione significa
ucciderla. Definire se stessi significa suicidarsi.
Credo che questo, però, ci dica qualcosa di importante anche perché
non ho detto che l'emersione e la non volontà di definizione siano luoghi
quieti. Sono luoghi che, se posso fare un'analogia, appaiono simili a quelli
che ho incontrato quando sono entrato nell'istituzione totale. Di vertigine.
E uso questa parola anche in senso medico, in senso proprio tecnico. C'è
infatti la ricerca di un medico penitenziario francese, fatta per conto del
Ministero di grazia e giustizia e del CNR francesi, che ha rilevato come una
delle risposte più comuni appena entrati nelle istituzioni totali, in
particolare nelle carceri, sia la vertigine. La vertigine è una cosa
interessante, perché è anche il luogo della danza dei dervisci,
il luogo in cui si realizza un mutamento dello stato di coscienza. E' il luogo
in cui in qualche modo si esce dallo stato di coscienza ordinaria per accedere
a una dimensione modificata che in qualche modo consenta di affrontare una situazione.
La vertigine da internamento è lo smarrimento del tempo, dello spazio,
delle esperienze corporee, delle abitudini, proprio di tutto ciò che
uno è abituato comunemente a vivere. C'è uno smarrimento e c'è
qualcos'altro. C'è una risposta con l'uscire dal modo in cui la coscienza
ha organizzato la propria esperienza, la propria percezione del mondo, la propria
razionalizzazione di se stessi. La vertigine dei dervisci consente l'incontro
con il divino, la vertigine del detenuto consente forse l'incontro con quella
parte di se stesso che dovrà ricrearlo lì dentro.
Ora la vertigine che io provo è di questa natura e per questo uso l'espressione
emersione perché è ri-creativa: occorre che io ricrei me stesso
e lo ricrei in questa situazione indefinita. Ma per le considerazioni che facevo
prima, e che hanno fatto anche Nicola e Claude, il rischio di questa ri-creazione
è il rischio di una ri-definizione. Ed è un rischio che ha bene
messo in evidenza Nicola nel suo intervento quando ha parlato della ritorsione
sociale che ti prende come un ex di qualcosa nella vita e ti mette lì,
nel luogo dell'ex, che non è un luogo, non è un presente.
Molte volte alzo il telefono perché qualcuno chiama e sento un signore
o una signora che mi dicono: "Senta, stiamo facendo delle interviste sull'ultimo
fatto di terrorismo avvenuto nel mondo, che cosa avrebbe da dirmi al riguardo?"
Che cosa dovrei rispondere? E' interessante che qualcuno pensi a me e non a
un altro qualunque dei cittadini italiani. E' interessante perché dice:
tu sei un ex, quindi io chiedo a te. Ti colloco lì, dovrai parlare o
stare zitto. Se taci sei mutacico, come dice la psichiatria, se parli sei un
logorroico. Quindi tu sei de-finito; nel luogo dell'ex, nel loculo previsto
per gli ex. In questo senso, allora, la sfida dell'emersione è, come
dire, una sfida di attenzione permanente alle sollecitazioni che ci sono a collocarti,
a farti collocare e a farti trovare le tue sicurezze nel mondo attraverso una
rivendicazione di collocazione. Solo lì stiamo tutti tranquilli, io per
primo e tutti voi. Io sono esattamente lì, sono questa roba qui; mi chiamo
così e così e faccio questo e quello. Tutto ben chiaro.
Io devo dire, invece, tutto ben scuro. Molto scuro, ma nello stesso tempo con
tante piccole luci, anche belle, meravigliose che mi raccontano storie assolutamente
non collocabili facilmente. Faccio degli esempi: l'incontro con Claude è
qualcosa che avviene in questo momento della mia vita, e non avviene neanche
perché è finita una parte della mia vita. Avviene, oggi, per una
serie di fatti e misfatti.
Ma ieri, che è stata una giornata molto più normale, sono uscito
da casa mia, che adesso non è più la prigione, all'alba per motivi
di lavoro e ho incontrato, poiché vivo in mezzo al verde, ai campi o
meglio agli alberi, i miei cani. L'incontro all'alba con i miei cani non l'avevo
mai fatto. E' stato un incontro intensissimo, straordinario, che mi ha detto
una cosa che non so ancora bene che cosa sia... Ma è stato proprio un
incontro con i miei cani. Voglio dire, non sono i cani a cui io do da mangiare
la sera. No, c'è stato qualcosa, come c'è stato qualcosa tre ore
dopo quando, passando per la stazione Termini, ho visto un ragazzo che si bucava,
proprio lì. Il mio occhio è attento agli anfratti, nelle istituzioni
totali gli anfratti sono luoghi da esplorare sempre molto attentamente perché
può succedervi di tutto. E così, passando per la stazione Termini,
in mezzo a migliaia e migliaia di persone ho visto un ragazzo che si faceva
un buco. Ora io non so esattamente che cosa fosse questa cosa per lui che la
faceva, per tutti quelli che erano intorno che non la vedevano, e mi sono domandato
su quanto c'è di invisibile nelle cose che tutti ritengono che siano
chiare. Per questo rivendico la mia oscurità. Se tutte le cose che sono
così chiare non le vede nessuno perché vengono fatte sotto gli
occhi di tutti e sono esattamente lì, come un fatto del tutto normale
di cui si strilla in certi momenti particolari sui giornali oppure perché
qualcuno ha una vicenda di famiglia che deve in qualche modo affrontare, allora
ecco che l'apertura degli occhi nel buio di sé e degli altri è
un percorso che in qualche modo mi avvicina tanto ai miei cani, tanto a quel
ragazzo e tanto a me stesso che è incapace di pensarsi ancora dentro
questa complessità di eventi che in poche ore colpiscono la mia vita
in una maniera diversa e nuova rispetto a prima. De-finire quindi è solo
questo per me, vorrei che fosse chiaro che non è un fatto puramente intellettuale.
E' un fatto di ricerca del modo di stare e del modo di essere con me stesso
e anche del modo di essere con voi.
Claude:
Vorrei aggiungere che le persone non mi possono definire, le circostanze non
mi possono definire. Io sono e basta. E il percorso è di risvegliarsi
proprio a questo. Ogni volta che saluto un amico, anche se lo conosco da anni,
lo saluto come se fosse la prima volta, perché è la prima volta.
Ci riuscite anche voi? Riuscite a fare ciò di cui parlava Renato? E coloro
che pensano che Nicola è in prigione e che loro non lo sono, sono più
in prigione di Nicola perché vedono se stessi divisi, separati. Nicola
e Renato, ciascuno di noi, siamo la luce che brilla in cima alla candela. Loro
sono la luce che brilla in cima alla candela. Hanno l'opportunità di
aiutarci a risvegliarci; devono parlare, meritano di parlare e noi abbiamo bisogno
di ascoltare. Possono aiutare a risvegliarci a quella parte di noi stessi che
respingiamo, che ignoriamo. I non terroristi sono più responsabili per
il terrorismo dei terroristi perché pensano di non essere responsabili.
Se volete sapere quali sono le radici della violenza, della guerra, allora dovete
guardarvi dentro.
Noi tre non abbiamo avuto scelta, tranne quella di guardarci dentro. La nostra
capacità di scappare da questo guardarci dentro è stata portata
via. Renato ha descritto in maniera minuziosa lo stato di vertigine che ha provato
quando è entrato in carcere perché tutto era cambiato. Ma in realtà
nulla era cambiato. E' successo solo che le illusioni sono state strappate,
e lì c'è stato un risveglio. Il risveglio è un'esperienza
che fa provare le vertigini perché tutte le nostre illusioni svaniscono.
Noi impariamo dai nostri errori, non dai nostri successi. Vi invito quindi ad
avere il coraggio di fare degli errori, concedetevi di farli. E senza esprimere
giudizi, risvegliatevi a questo.
Io mi sento profondamente toccato e onorato dal fatto di essere in presenza
di queste due persone meravigliose e li ringrazio per essere seduti qui e aver
portato testimonianza della loro esperienza. La nostra vita dovrebbe essere
concentrata su tre aspetti: entrare nel non conosciuto, portare testimonianza
del non conosciuto e guarire. Si tratta esattamente del processo che loro ci
hanno descritto.
Roma, 21 ottobre 1998
(da "Buone Notizie", anno 1998 n°3)