RICONCILIAZIONE: UN VIAGGIO EROICO |
di Mary M.Rotschild |
Nel 1944 Ana aveva
23 anni e viveva in un paesino della Transilvania. In giugno, quando gli alberi
da frutta erano in piena fioritura, Ana, i suoi genitori e un fratello furono
trascinati sui carri bestiame coi fucili puntati. Destinazione Auschwitz.
Dopo un viaggio di tre giorni, senza servizi igienici, cibo o acqua, chiusi
assieme a una donna che era uscita di senno per la terribile esperienza, arrivarono
ad Auschwitz.
Quelli che seguono sono brani presi dal suo diario.
Il treno entrò
in una foresta e la sirena lanciò un suono assordante che sembrava non
finisse mai... Ora sapevamo di essere in Polonia, in un posto di nome Auschwitz.
Non appena il treno si arrestò, i soldati tedeschi aprirono i portelloni
urlando: "Fuori, maiali!".
... Poi ci separarono, da una parte gli uomini e dall'altra le donne, da un
parte i giovani e forti, dall'altra i vecchi, i malati e i bambini. Nessuna
delle nostre preghiere servì a qualcosa. Le persone venivano divise dai
loro cari, ed era una scena straziante...
Mia madre aveva solo cinquant'anni, ma indossava uno scialle che la faceva sembrare
molto più anziana. Aveva chiesto a un tedesco di farla restare con me,
ma lui le aveva gridato di muoversi e l'aveva spinta così forte da farla
quasi cadere.
Mentre si allontanava, continuò a restare girata per guardarmi, finché
poté, con gli occhi pieni di lacrime. Fu l'ultima volta che la vidi...
Ancora oggi Ana
è ossessionata da quello sguardo di sua madre. Ana è mia madre.
Vive con gli orrori di Auschwitz, perché non può disimparare quello
che ha appreso sulla natura umana.
Io sono nata poco dopo il suo ritorno dalla deportazione e porto il nome di
mia nonna. Sono cresciuta in mezzo agli incubi del campo di concentramento.
Ero divisa tra due estremi: da una parte una madre per la quale la mia gioia
era uno stimolo eccessivo che andava soffocato, dall'altra un mondo per il quale
la mia profonda sofferenza rappresentava un fatto troppo scomodo...
Nel 1991 ho cominciato a tradurre il diario di mia madre; ero pronta ad affrontare
quei demoni che per venti anni avevo evitato. Quando ho saputo di come mia madre
e mia nonna si erano separate, ho sentito quella voce interiore che mi aveva
accompagnato per tutta la vita: "Non meriti di vivere".
Nel 1992 ho partecipato per la prima volta al Dialogo Ebraico-Tedesco di Los
Angeles. Il mio primo incontro con i tedeschi e gli austriaci era all'insegna
delle parole di John Stoke: "Se non affronti una cosa parlando, non la
capisci, e se non la capisci la temi, e se la temi vorrai distruggerla".
Ero sollevata dal fatto che chi parlava aveva detto che ci trovavamo lì
"non per perdonare l'imperdonabile ma per parlarne".
Con gli anni mi sono trovata sempre più a mio agio coi tedeschi disposti
a riconoscere che qualcosa di terribile era stato fatto dal loro popolo e che
stavano male per questo. Incoraggiata dalle conversazioni sempre più
intime con i miei amici tedeschi, ho partecipato all conferenza di "One
by One" del 1998 a Berlino. Ho subito realizzato che incontri di questo
tipo sono momenti fondamentali nella vita di chi ha un legame viscerale con
l'Olocausto.
Il dialogo tra i partecipanti cominciò il 9 novembre, anniversario della
Kristallnacht, la Notte dei Cristalli: l'inizio del saccheggio, della distruzione,
dell'eccidio. Eravamo seduti in circolo, sette discendenti di sopravvissuti
dell'Olocausto e sette discendenti dei persecutori. Ognuno dei due gruppi aveva
due assistenti. Tra i figli di sopravvissuti c'era un polacco discendente di
un sopravvissuto dei campi, a ricordarci che la follia di Hitler non aveva per
oggetto solo gli ebrei.
Notavo una certa preoccupazione sul volto dei tedeschi. Eccomi finalmente qui,
su suolo tedesco faccia a faccia con i discendenti degli assassini dei miei
nonni. Riusciranno mai a convivere con questa eredità, e quanto costerà
loro? E questa nazione, che agli occhi del mondo intero ha perpetrato il più
odioso dei massacri, ha solo sette persone che ne portano il peso? E se questi
sono innocenti, chi debbo ritenere responsabile di quanto accaduto a mia madre?
Non avevamo un linguaggio adeguato al percorso che avevamo intrapreso: dare
un senso al nostro passato e impedire che esso si imponesse sul nostro futuro.
"In un luogo sacro un individuo può soffrire come ha sempre avuto bisogno di fare, senza però averne mai avuto il coraggio". (Carl Jung)
Il secondo giorno,
seduti in cerchio, abbiamo raccontato ciascuno la propria storia. Io ho mostrato
una fotografia di mi madre e ho letto alcune parti del suo diario. Ma quando
sono arrivata al punto in cui mia nonna si avvia alla camera a gas con gli occhi
pieni di lacrime, non sono riuscita ad andare avanti. Avrei voluto crollare
a terra e piangere. Dentro di me ho sentito un urlo muto di disperazione e in
quel momento qualcosa si è sprigionato dal mio corpo e ha invaso tutta
la stanza.
Il rabbino Abraham Heschel ha scritto che "il sangue dell'innocente grida
per sempre". Forse i discendenti del Terzo Reich recupereranno la loro
dignità attraverso questo atto di compassione, ascoltando tramite noi
le grida dei nostri avi.
Mi sono venute in mente le parole di Jean Shinoda Bolen: "Non è
cosa da poco essere testimoni della storia di vita di un'altra persona. Ascoltare
con compassione dà valore alla propria vita, dà senso alla sofferenza
e favorisce il processo di guarigione". Pian piano altre storie sono emerse,
storie ebraiche di perdita, di disperazione, di dolore. Crescere orfano con
genitori ancora in vita.. Proteggere un padre o una madre dal suo dolore, mentre
non c'è nessuno a difenderti dal tuo. Creare famiglie allargate attraverso
gli amici.
E poi storie tedesche, di come forzare un'omertà collettiva per raggiungere
una verità insopportabile.
Sono venuta a sapere che in Germania se qualcuno vuole fare delle ricerche sul
passato nazista del proprio genitore, deve ottenere il permesso del coniuge
di questi. Si tratta di un modo per perpetrare la tradizione del silenzio e
la malattia collettiva che ne consegue...
Ruth, una donna tedesca i cui occhi erano costantemente bagnati dalle lacrime,
era divisa tra i nonni che avevano rischiato la vita per aiutare una coppia
di ebrei a sopravvivere durante la guerra, e un padre che aveva abbracciato
entusiasticamente l'ideologia nazista.
Il quarto giorno di dialogo, Martina, una degli assistenti del gruppo tedesco,
ha detto: "Mi dispiace per quello che i nostri genitori hanno fatto al
vostro popolo...". In quel momento qualcosa nel mio cuore si è aperto
in un sentimento di gratitudine e di fiducia. Forse il miracolo di sentir dire
da un tedesco: "Mi dispiace" spiegava un'altra delle ragioni per cui
ero venuta in Germania: una restituzione emotiva, una Wiedergutmachung
di un altro ordine. E così gli innocenti hanno fatto ammenda per i colpevoli...
Perché andava fatta ammenda, e i colpevoli non possono o non vogliono
dire: "Mi dispiace".
Man mano che le storie emergevano, la stanza diventava sempre più piccola,
riempiendosi di disperazione, di vergogna, di sensi di colpa. E ciò che
a un certo punto ho detto a queste persone coraggiose che esprimevano il loro
rimorso mi ha quasi colta di sorpresa: "Sono molto dispiaciuta per il peso
che i vostri padri e i vostri nonni vi hanno lasciato sulle spalle". In
quel momento provavo una profonda compassione per la sofferenza che si portavano
appresso, non solo a causa delle loro famiglia, ma anche della maggioranza dei
tedeschi.
Poi è arrivato l'ultimo giorno, ed eravamo come riemersi dalle ceneri
dei nostri avi e dai mille anni di eredità di vergogna del Reich: una
comunità di persone miracolosamente legate l'una all'altra. La guarigione
era avvenuta attraverso il racconto della propria storia dinnanzi ad altri testimoni...
Seduti per cinque giorni in un cerchio sacro, avevamo condiviso la compassione,
la comprensione reciproca e sì, anche l'amore.
Esprimere con franchezza la propria verità ci aveva resi ciascuno più
libero dal proprio fardello. Per cinque giorni avevamo affrontato insieme l'Olocausto,
anziché affrontarci l'un l'altro. E come candele votive abbiamo portato
con noi la nostra storia. Quanto è accaduto in quella stanza alla Adam
Von Trott Haus è quanto di più vicino a un'esperienza religiosa
io abbia mai vissuto. La tradizione ebraica ci insegna che quando si salva un'anima
si salva il mondo intero. Divisi dalla morte di sei milioni di persone, ma uniti
da un reciproco dolore, ci siamo confrontati insieme e abbiamo lottato contro
il potere che il male ha di riversarsi sul futuro.
Domenica, ultimo giorno a Berlino. Undici persone, tra ebrei e tedeschi, si
sono recati insieme al campo di concentramento di Sachsenhausen. Ho sentito
dire che per accedere al festival musicale di Salisburgo bisogna mettersi in
ginocchio. Forse si dovrebbe entrare in un campo di concentramento soltanto
in ginocchio, e in assoluta umiltà dinnanzi all'immensità della
sofferenza umana.
Ho varcato il primo cancello da sola, per sentire le voci dei fantasmi. Indossavo
i miei abiti invernali più pesanti. Oltre questo primo cancello, all'interno
del campo, un freddo glaciale e sinistro penetrava attraverso ogni strato di
vestiario, e mi raggelava. C'era un vento invisibile che poteva essere sentito
ma non visto. Era come se in quel luogo fosse calata una quinta stagione. Non
c'erano uccelli in vista ed ero stupita di vedere gli alberi.
Una volta oltrepassato il cancello con la scritta "Arbeit Macht Frei",
il freddo è aumentato. Mi sentivo estraniata da tutto il resto della
razza umana. Volevo dire una preghiera al crematorio per i miei tre nonni assassinati
ad Auschwitz. Ci siamo andati camminando in silenzio, e dinnanzi alla prova
viscerale del genocidio mi sono sentita schiacciata. Il nostro gruppo si è
stretto insieme e alcuni hanno letto preghiere in tedesco e in inglese. Io ho
proseguito con il 23esimo salmo: "Il Signore è il mio pastore...Anche
se attraverso la valle delle Ombre della Morte, non temerò alcun male...Perché
Tu sei con me...". Durante le preghiere eravamo circondati da un calore
tangibile. In questo luogo, che tanto tempo fa fu abbandonato da ogni cosa sacra,
l'invocazione di Dio ha fatto sì che un figlio di sopravvissuti mi scoppiasse
a piangere tra le braccia. Anch'io ho cominciato a singhiozzare. Ruth, figlia
di un SS, ha allargato le braccia e ci ha abbracciati entrambi, piangendo con
noi. O forse per noi. Eravamo un intreccio di capelli, corpi e lacrime, ebrei
e tedeschi... un gruppo di persone piene di disperazione per quanto era accaduto
cinquanta anni prima. Non eravamo forse in quel momento una via d'uscita per
questa nostra società malata, bisognosa anch'essa di guarire?
Come un procedimento chimico, un dialogo del genere è in grado di trasformare
la rabbia e il senso di colpa, attraverso il riconoscimento e la comprensione,
in qualcosa di significativo e produttivo. E di evitare che questa eredità
venga trasmessa, come un gene malato, alla generazione successiva.
Come specie abbiamo ancora molta strada da fare, ma questo almeno è l'inizio.
Poiché essere umani non è un fatto scontato, la nostra condizione
biologica non ci garantisce nulla di quanto illustrato dalla storia. Siamo nel
bel mezzo del lavoro, e dobbiamo lottare a ogni risveglio contro gli impulsi
primitivi nostri e altrui. E anche se non raggiungeremo mai un luogo in cui
ognuno ama tutti gli altri, mi piacerebbe almeno vivere in un mondo dove ognuno
tollera tutti gli altri.
Ho passato gli ultimi sei anni a scappare dall'abisso che si era quasi impossessato
della mia vita. Incontrare i discendenti di chi causò la devastazione
della mia famiglia significava tornare sull'orlo di quell'abisso. A Berlino
ho imparato che quando una calamità come l'Olocausto si scatena sull'umanità,
siamo tutti perdenti. Il mondo in cui vivo non mi è mai sembrato un luogo
sicuro, ma dopo Berlino una parte di paura mi ha abbandonato.
Nello scrivere le sue memorie, mia madre ha usato un "noi" collettivo.
L'Olocausto era una ferita collettiva inflitta dai tedeschi agli ebrei, e forse
un livello profondo di guarigione può avvenire solo tra tedeschi ed ebrei...
La guarigione avviene quando vengono assunte le responsabilità, quando
viene mostrato il rimorso, quando viene fatto un lavoro di riparazione. E tutto
questo avviene in modo più efficace se fatto con la "controparte".
Il paradosso di un rinnovamento personale è che mette l'individuo in
contatto con gli altri e con se stesso. Sono ancora sgomenta dinnanzi alla potenza
di quelle due parole: "Mi dispiace". Attraverso un dialogo sincero
esiste la possibilità di redenzione per i tedeschi e di riparazione emotiva
per gli ebrei. Il dialogo tra un ebreo e un tedesco, entrambi segnati dall'Olocausto,
può aggiungere una goccia al fiume del "Mai più".
Confrontando le conseguenze della guerra con "gli altri", mi sono
sentita come un pioniere che esplora un territorio sconosciuto, trasformandolo
in quello che per il resto del mondo è ancora un'utopia: vivere in pace
l'uno con l'altro.
Da: One By One,
Inc., Spring/Summer 1999
Traduzione di Laura Bisogniero
ADDENDUM
(19 novembre 1999)
Igne Natura
Renovatur Integra. La natura viene interamente rinnovata dal fuoco! Qui
il fuoco ha molteplici significati: è il fuoco che distruggerà
un mondo dominato dal male, è il fuoco mistico interiore. Si può
tradurre nel senso di: "Tu stesso sei la pietra filosofale, il tuo stesso
cuore è la materia prima che deve essere trasformata in oro puro".
Per la maggior parte di noi la morte è un'esperienza che sappiamo di
dover inevitabilmente incontrare un giorno. Mia madre aveva assorbito il terrore
della morte a ogni livello del suo essere, ogni giorno, per mesi.
Nulla della enormità degli orrori di Auschwitz entrerà nella vita
di mia madre per lavare il dolore e le perdite. Per lei la guerra non è
finita con la liberazione. Per mia madre, come per molti sopravvissuti, l'Olocausto
era il dono che continua a dare. Ogni volta che guardo negli occhi di mia madre
mi trovo davanti questa realtà.
L'angoscia esistenziale che colpisce ogni persona pensante è una realtà
concreta per me: non potevo permettermi il lusso di porre domande... Il male
contro il bene faceva parte del mio ossigeno quotidiano e dovevo trovare io
le risposte. E ancora, ho imparato che non posso salvare mia madre da Auschwitz
e che sacrificare la mia vita non significherebbe alleviare la sua.
La prossimità con l'abisso non ha solo traumatizzato mia madre, ma ha
anche creato un mito di proporzioni epiche per me e mio fratello.
Come si può competere con Auschwitz se non vivendo un cammino eroico,
non importa quanto impegnativo?
Come posso creare un senso dalle ceneri dei miei parenti assassinati, dalla
vita traumatizzata di mia madre e dai miei anni persi nel lavoro di guarigione?
Qual è il mio destino, siccome non può essere quello di mia madre,
qual è la mia storia? Come dovrei mitologizzare la mia vita?
E se l'Olocausto è stato il mio problema, affrontarlo è diventato
il mio sentiero per la liberazione. La guarigione che ho cercato per tanti anni,
è arrivata durante il gruppo di dialogo di One by One a Berlino. Ho lasciato
molto del mio dolore e della mia disperazione in quella sala dove Ebrei e Tedeschi
colpiti dal trauma della guerra si sono incontrati a livello dell'anima. La
persona che io ero prima, la persona che viveva l'esperienza di sua madre, è
morta durante il processo di dialogo a Berlino e fui liberata in modi che solo
adesso comincio a capire.
Lì ho veramente capito che la soluzione agli stereotipi sta nel conoscere
ogni persona singolarmente, gurdandola negli occhi, ricevendone la storia e
rispettando la sacralità del loro essere. la soluzione all'odio è
l'amore. Questi sono alcune delle comprensioni profonde che ho condiviso recentemente
con dei liceali di Berlino.
In una scuola un
bel ragazzo si domandava perché ci incontrassimo per discutere di questi
avvenimenti che "sono talmente lontani da me da sembrare un sogno".
Gli chiesi allora se non fosse mai stato chiamato 'nazista' fuori dal suo paese
e lui disse di sì.
Ho aggiunto che siamo ancora legati da un cordone ombelicale d'acciaio a quei
fatti e la prova era proprio la nostra presenza in quella stanza e la carica
emotiva che sembravamo avere. Alla fine quel giovane un po' aggressivo venne
da me, mi strinse la mano ringraziandomi per aver fatto conoscere la mia storia
alla sua classe.
In un'altra scuola una ragazza mi chiese che cosa pensassi dei neo nazisti.
Le risposi che tutto ciò che viene represso in una generazione inevitabilmente
esploderà nella successiva. Un'altra ragazza commentò la differenza
che secondo lei c'era tra l'ascoltare la storia di un vero sopravvissuto ai
campi e leggere le statistiche in un libro. Un altro studente mi chiese per
quanto ancora durerà il trauma dell'Olocausto. Gli ho risposto che per
quanto riguarda i sopravvissuti durerà per sei generazioni. E siccome
il giorno del giudizio non è ancora arrivato per la maggior parte dei
carnefici, vuol dire dovranno passare ancora molte generazioni. Un suo compagno
chiese se poteva essere fermato. Ho suggerito che forse attraverso un dialogo
onesto, la seconda e la terza generazione potrebbero metabolizzare il dolore
e la colpa trasformandoli in senso di responsabilità e guarigione fermando
così la trasmissione del trauma.
Una ragazza in una classe nell'ex Berlino est chiese se c'erano dei modi per
comunicare agli Ebrei in America che lei vuole riparare ciò che è
successo.
In un'altra scuola un insegnante mi ha sfidato dal fondo dell'aula: "Vuoi
dire che è facile, che sei disposta a perdonare e dimenticare?"
Gli ho risposto dicendo che io non mi trovo nella posizione di perdonare dal
momento che nessun crimine è stato commesso direttamente contro di me
e che i Tedeschi che ho incontrato durante il gruppo di dialogo erano innocenti.
Prima di entrare nella classi avevo chiesto agli insegnanti se gli incontri
fossero obbligatori e mi venne risposto che gli studenti avevano scelto loro
di parteciparvi.
Durante la fine della settimana dell'incontro con i membri di One by One abbiamo
invitato gli studenti a unirsi a noi e alcuni sono venuti. Due giovani ragazze
rimasero un po' in disparte insieme e una delle due disse che era Polacca e
che non sapeva che cosa stesse facendo lì: "Tutto questo non c'entra
nulla con me". Una giovane donna un po' ostile che aveva quasi trent'anni
disse che: "La Germania si trovava in una crisi economica in quegli anni".
Risposi che speravo che saremmo arrivati a un punto nell'evoluzione della nostra
specie in cui avremmo potuto risolvere le crisi economiche senza dover uccidere
11 milioni di persone. La donna si è augurata che lasciassimo dietro
le spalle questa storia e che andassimo avanti con le nostre vite. Le ho detto
che il desiderio che una cosa sia finita non significa che quella cosa sia davvero
passata, che il paradosso della guarigione e del separarsi dall'Olocausto sta
nel comprendere il proprio legame personale con questa storia. Al termine dell'incontro,
dopo che tutti avevamo avuto modo di raccontare le nostre storie, la giovane
ragazza polacca ci disse con le lacrime agli occhi: "Non riesco a credere
che tutti voi sediate qui, uno vicino all'altro, Ebrei e Tedeschi, è
davvero commovente..."
"Le soluzioni ai problemi si possono trovare in mezzo ai problemi".
Albert Einstein.
Il clima rispetto l'Olocausto in Germania va dal senso di colpa a un senso di
responsabilità. Il senso di colpa che abbonda nella terza generazione
sembra generare o paralisi oppure rabbia e risentimento. All'estremo opposto
ci sono quei Tedeschi che hanno dialogato con noi, che hanno scelto il senso
di responsabilità invece che quello di colpa. Hanno scelto quel tipo
di responsabilità che genera guarigione e cambiamenti in positivo.
Qual è il processo che trasforma la futilità del senso di colpa
in un senso di responsabilità? Come possiamo aiutare questa generazione
di Tedeschi a diventare una generazione diversa da quella dei loro nonni? Come
potranno separarsi dalla loro storia se questa cultura non incoraggia o premia
un legame personale con quella storia?
Forse attraverso questi dialoghi con "l'altra parte'. O forse creando uno
spazio sicuro dove potranno esprimere la rabbia per una colpa che portano per
una cosa così lontana da sembrare un sogno eppure di cui non si possono
liberare.
In cima alle colline di Malibu, in California, si trova il Serra Retreat tenuto
da monaci francescani. Quando hanno saputo dei nostri dialoghi con i discendenti
del Terzo Reich, i monaci hanno detto: "State facendo il lavoro di Dio".
In un saggio su Psychoanalytic Psychology del 1984, Yael Danieli scrisse: "Freud
disse che Copernico diede il primo colpo all'umanità, il colpo cosmologico,
quando l'umanità imparò che non era più il centro dell'universo.
Darwin poi diede il colpo biologico quandò affermò che la superiorità
dell'uomo rispetto al regno animale era da dimostrare. Freud infine dichiarò
di aver assestato il colpo psicologico dimostrando che ci sono dei limiti alla
nostra coscienza. La Germania nazista diede all'umanità il quarto colpo,
quello etico, distruggendo la nostra ingenua convinzione per cui il mondo in
cui viviamo è un posto dove la vita umana è un valore da proteggere
e rispettare."
Ho avuto la straordinaria fortuna di stare con dei tedeschi che mi aiutano a
guarire la mia fede distrutta sulla bontà fondamentale della natura umana.
Verso la fine della settimana, quando avevamo terminato gli incontri nelle scuole
superiori di Berlino, andammo tutti insieme a pranzo. Gottfried, un ex membro
della Gioventù Hitleriana, sedeva alla mia sinistra e dall'altra parte
c'era Inge che appartiene alla seconda generazione. Li volli ringraziare entrambi
per il loro coraggio nel fare un lavoro che si scontra contro la loro cultura
e, in molti casi, anche contro le loro famiglie e amici. Le lacrime iniziarono
a scorrere senza che io cercassi di fermarle. Inge e Gottfried mi presero per
mano.
Sentii il nostro legame e il loro amore e in quel momento mi sono sentita piena
di gratitudine, come fosse una preghiera: "Anche se cammino per la valle
dell'ombra della morte, non temerò alcun male perché tu sei con
me...", i miei amici tedeschi, la seconda generazione di gentili giusti
e responsabili, che camminano insieme a noi portando il loro peso di Olocausto...
In momenti come questi io so, in un modo che nessun altro può dimostrarmi,
che Dio esiste.