Il dolore
della storia nella storia di ognuno |
Quella che segue è la trascrizione integrale del primo incontro
che si è tenuto a Roma il 20 marzo di quest'anno con quattro rappresentanti
di One by One. |
Roberto Mander
Ho incontrato Rosalie Gerut nel dicembre del 1994 ad Auschwitz, in Polonia.
Per celebrare il 50° anniversario della fine della II guerra mondiale, dal
più tristemente noto tra i campi di sterminio nazisti sarebbe partito
un pellegrinaggio di pace che si sarebbe poi concluso il 5 agosto dell'anno
successivo a Hiroshima, in Giappone.
Il tragitto avrebbe attraversato numerosi paesi ancora teatro di conflitti,
o che lo erano stati ancora in tempi recenti.
Nei giorni di grande intensità che precedettero la partenza della marcia
ebbi modo di ascoltare le testimonianze e le storie che i membri di One by One
condivisero con gli oltre cento partecipanti provenienti da diverse parti del
mondo.
Rimasi colpito dalla dimensione, nuova per me, che intravedevo emergere dal
racconto dell'esperienza dei gruppi di dialogo creati da One by One, tra i figli
dei sopravvissuti all'Olocausto e i figli di militari del Terzo Reich. In essi
il processo di guarigione da ferite tanto profonde quanto mai più cancellabili
fioriva proprio attraverso il pieno recupero della memoria e la capacità
di saper camminare insieme fin dentro la parte più buia della storia
e della vita di ciascuno dei partecipanti.
Oggi, finalmente, con profonda riconoscenza per il loro lavoro e con gioia do
il benvenuto a Rosalie Gerut, Martina Emme, Deborah Shelkan-Remis e Ilona Kuphal.
Grazie di essere qui con noi oggi.
Rosalie Gerut
Le parole che hai detto ci spingono ad andare ancora più a fondo nel
nostro lavoro. Come ha già detto Roberto, nel 1994 partecipammo ad Auschwitz
alla Convocazione del Pellegrinaggio per la Pace: eravamo da una parte un gruppo
di discendenti di tedeschi che avevano partecipato al regime nazista e dall'altra
discendenti di sopravvissuti all'Olocausto, la seconda generazione. La gente
si chiedeva chi fossero queste persone che piangevano insieme davanti ai crematori
di Auschwitz: eravamo uno strano gruppo di persone che si erano riunite la prima
volta nel 1993.
In qualche modo sapevamo che dovevamo incontrarci e la gran parte di noi, quando
venne a sapere che c'era questa occasione di incontro, sentì la necessità
di parteciparvi. In una località della Foresta Nera, in Germania, ci
ritrovammo in trenta dentro una stessa stanza. Tra noi c'era anche una donna
che aveva appreso da pochissimo tempo che suo padre aveva preso parte direttamente
ai massacri di massa. Nello stesso cerchio di persone, seduto dalla parte opposta,
c'era un giovane la cui famiglia paterna era stata sterminata proprio da quell'uomo.
Che cosa c'entravano l'uno con l'altro? La donna era colpevole per i crimini
del padre? E contro chi l'uomo doveva rivolgere la sua rabbia e il suo dolore?
Dovevamo affrontare dei grandi interrogativi.
Alla fine capirono di essere entrambi vittime, anche se non esattamente nello
stesso modo: di essere figli tutti e due di un stesso tremendo evento che tutti
quanti avevamo seppellito in noi. Ci rendevamo conto che dovevamo affrontare
questa storia. Da una parte c'era una grande massa di interrogativi e dall'altra
un grosso problema individuale. Iniziammo allora uno per volta, ciascuno dentro
se stesso e in piccoli gruppi, a esplorare questo terreno.
L'espressione One by One, uno per volta, l'abbiamo ripresa da un libro di Judith
Miller ("One by One by One") in cui scrive: "L'astrazione è
il più forte nemico della memoria e uccide perché incoraggia la
distanza e spesso l'indifferenza. Dobbiamo sempre ricordarci che l'Olocausto
non ha riguardato sei milioni di persone, ma una persona, più un'altra,
più un'altra ancora, più una... Solo comprendendo che per ritenersi
civili si deve difendere ciascuna persona, una per una, solo così l'Olocausto,
ossia ciò che non è comprensibile, può trovare un significato".
Continuando a incontrarci con questa intensità per due anni, raccontando
ciascuno la propria storia e quella dei propr genitori, abbiamo cominciato a
percepire una sorta di trasformazione dentro di noi. Ed è stato così
che abbiamo sviluppato l'idea del Gruppo di Dialogo.
Per quanto riguarda la parte teorica facciamo riferimento a degli autori importanti
. Uno di essi è Viktor Frankl, che è sopravvissuto a Dachau. Egli
ha scritto: "Quando si porta sulle spalle una sofferenza insopportabile
l'unico modo di reagire è di darle un significato. L'unica potenzialità
umana è trasformare una tragedia personale in un trionfo, trasformare
il proprio dolore in una conquista umana". Frankl è una delle figure
a cui ci ispiriamo maggiormente.
Martina Emme
Sono nata in Germania nel 1959, potrei quindi affermare dopo tanto tempo dal
nazismo e che quindi, in un certo senso, il problema non mi riguarda. Però
oggi posso dire con certezza che non potrei vivere nel mio paese se non mi confrontassi
con la sua storia. Ciò che è successo durante il nazismo, secondo
me, ha distrutto la dignità della Germania. E per me c'è un solo
modo di vivere con questa consapevolezza ed è quello di fare un passo
alla volta per ristabilirla.
Il mio lavoro con One by One è un piccolo contributo in questa direzione.
Quando andavo a scuola si studiava la storia solo fino al 1900. Naturalmente
oggi la situazione è cambiata, ma voglio ricordare che che ai miei tempi
c'era come un tabù intorno a questo argomento. Questa atmosfera è
stata spesso descritta come un silenzio che penetrava attraverso l'intera società.
La situazione è cambiata solo con il movimento studentesco, ma di questo
vorrei parlare dopo.
Rompere questo silenzio, che è dominante soprattutto all'interno delle
famiglie, è la prima delle finalità di One by One. Il contrario
del silenzio è parlare gli uni con gli altri e per me i gruppi di dialogo
di One by One sono come una forma di liberazione. Parlando gli uni con gli altri
cerchiamo di capire quali sono le tracce che la storia ha lasciato dentro ognuno
di noi.
Vorrei però ora accennare al secondo autore a cui si ispira il nostro
lavoro. Accanto a Viktor Frankl abbiamo Primo Levi, l'autore di "Se questo
è un uomo", che era nato a Torino ed è sopravvissuto ad Auschwitz.
Questo suo libro è stato tradotto in tedesco molto tardi e non stupisce:
la società non era ancora matura ed era forte la tendenza a rimuovere
questi temi. Ciò che mi ha colpito personalmente nel libro è il
modo in cui Primo Levi descrive con molta oggettività, e apparentemente
senza accusare, ciò che lui ha sperimentato nel campo di Auschwitz.
Vorrei essere più precisa, mi sembra che ogni singola frase del suo libro
sia contemporaneamente un grido verso la giustizia e una condanna della disumanità.
Nella prefazione all'edizione tedesca ha scritto qualcosa che per noi di One
by One è molto importante: Vorrei leggervelo: "Ho scritto questo
libro per coloro che non sanno niente, per coloro che non vogliono sapere niente".
Ma coloro a cui era veramente diretto il libro, e gli era diretto contro come
un fucile, erano loro, i tedeschi. "E' arrivato il tempo di parlare chiaramente
ed è anche arrivato il tempo di parlare gli uni con gli altri. Non sono
interessato alla vendetta, il mio compito è di capire".
Come può un sopravvissuto a un campo di concentramento scrivere una frase
come questa: io vorrei conoscervi per potervi capire? Cercare di comprendere
senza accusare, ma contemporaneamente dice in modo univoco che voler capire
non vuol dire assolutamente, neppure per un secondo, giustificare. Vuol dire
che, mentre si rivolge a loro, vuole però nello stesso momento vedere
se i tedeschi sanno cogliere questa occasione per un vero confronto.
Un altro filosofo per noi molto importante è Martin Buber, un ebreo tedesco
morto nel 1965. Uno dei suoi testi principali è "Il principio dialogico".
Egli vede il dialogo come il momento centrale e scrive che se due esseri umani
si incontrano realmente, autenticamente, succede qualche cosa. Se si fanno toccare
internamente da ciò che l'altra persona dice, se ciò li emoziona
veramente, succede un qualcosa che li trasforma entrambi. Per Buber questo è
un segno della presenza di Dio.
Nei gruppi di dialogo lo abbiamo sperimentato e abbiamo visto che questo succede
quando i due dialoganti realmente entrano l'uno nel discorso dell'altro, in
profondità. Succede quando raccontiamo le nostre storie e il vero lavoro
è quello dell'ascolto. Ascoltare ciò che io nella mia vita non
ho vissuto ma che è ad essa così strettamente connesso. E' come
se due metà che fino a quel momento erano rimaste separate di colpo si
riunissero. E' la storia delle vittime unita alla storia dei carnefici.
Voglio subito chiarire che non si tratta assolutamente di perdonarsi reciprocamente,
si tratta di molto di più e forse a questo proposito Rosalie può
dire qualcosa del concetto ebraico di perdono.
Rosalie Gerut
Nell'ebraismo la persona che ha subito un torto deve avvicinarsi a colui che
lo ha causato ma ciò che è richiesto per la guarigione di entrambe
le parti è che la persona che ha commesso il torto deve capire ciò
che ha fatto e sentire un sincero rimorso e quindi avvicinarsi alla persona
a cui ha causato un male e dirgli: "Sono davvero dispiaciuto e prometto
di non fare mai più una cosa simile. E le mie azioni proveranno quello
che dico". Per quanto riguarda la mia esperienza non sono a conoscenza
di un singolo caso in cui un tedesco responsabile di quei crimini abbia mai
chiesto perdono a un sopravvissuto. Sono pronta comunque ad accettare e ascoltare
una tale persona se esiste.
Dal punto di vista ebraico questa realtà causa grande sofferenza ai sopravvissuti
che poi la trasmettono ai figli, come è successo nel mio caso, una pesante
eredità di dolore. E dalla parte invece di coloro che hanno commesso
i crimini viene trasmesso ai figli un senso di colpa e di vergogna.
Nei nostri gruppi di dialogo dove non siamo direttamente noi coloro che hanno
subito o commesso il torto fa incredibilmente bene sentire qualcuno dalla parte
dei responsabili dire: "Mi dispiace profondamente per quello che la mia
gente ha fatto alla tua". E mi auguro che dall'altra parte, per i figli
dei colpevoli, faccia altrettanto bene sentirsi dire che loro non hanno colpa.
Ora prima di raccontare ciascuna di noi la propria storia vorrei dire solo poche
parole sui gruppi di dialogo. Si tratta di cinque giorni di intenso dialogo
che si svolgono a Berlino. Ne abbiamo appena concluso uno. La maggior parte
del tempo è dedicata al racconto che ognuno fa di come l'Olocausto o
il regime nazista abbia segnato la propria vita. E i risultati sono sempre molto
forti, molto importanti. Non è un esercizio intellettuale, ma una comunicazione
che nasce dal cuore. La gente ne esce dicendo che la loro vita è profondamente
cambiata e noi ci sentiamo onorati di poter lavorare in questa direzione.
Deborah Shelkan-Remis
Buonasera, vengo da Boston in Massachusetts e sono molto onorata di essere qui
questa sera. Ma prima di raccontarvi la mia storia e il mio rapporto con One
by One vorrei condividere un'importante festività ebraica che inizia
proprio oggi, Purim. Si celebra un'occasione in cui il popolo ebraico fu vittorioso
e non vittima. La storia è contenuta nel libro di Ester dove troviamo
un monito a tutto il mondo della profonda verità che la sofferenza e
la tribolazione sia per chi perseguita che per chi è perseguitato accompagnano
la nascita del pregiudizio.
Vorrei chiedervi scusa fin da subito se mi emozionerò, ma pochi mesi
fa mio padre che era un sopravvissuto è morto. Era nato a Riga, in Latvia,
studiò come cantante lirico e divenne il tenore principale del Metropolitan
di Riga e la sua voce è stata ascoltata in molti teatri dell'opera in
Europa. Ritornò a Riga per svolgere il servizio militare e fu allora
che venne preso e rinchiuso nel ghetto di Riga. Nei cinque anni che seguirono
perse ventitré membri della sua famiglia, compresa la prima moglie, i
genitori e tre fratelli. Fu liberato nel marzo del 1945 e pesava allora meno
di quaranta chili. Trascorse i primi mesi in ospedale con il tifo dopodiché
riuscì ad arrivare a Berlino. Fu sistemato in un campo profughi.
Mia madre che è americana fu inviata a Berlino nel 1946 come addetto
stampa del generale L. Clay, presso il comando alleato. Sentì mio padre
cantare e andò così. I miei genitori si sposarono nel 1947 e trascorsero
la loro luna di miele andando da un campo profughi all'altro in tutta Europa
per cercare le persone scomparse che mio padre conosceva.
Come figlia di un sopravvissuto all'Olocausto fin da piccola la mia vita né
è stata segnata. Olocausto è una parola che si sentiva spesso
a casa mia. Mio padre conservava la sua giacca del campo di concentramento con
il suo numero: 96510. E quando eravamo piccole io e mia sorella giocavamo a
nasconderci dalla Gestapo andando sotto il letto. Mio padre diceva che era importante
conservare quella giacca perché era una prova che l'Olocausto c'era stato.
Nel corso della sua vita raccontò spesso in varie occasioni la sua esperienza
nei campi perché riteneva che fosse sua responsabilità farlo.
Ed ora come sua figlia la mia responsabilità è che questa storia
viva per sempre.
Il nostro coinvolgimento in One by One è molto individualizzato, veniamo
tutti con motivazioni diverse, però sappiamo quello che dobbiamo fare.
Alcuni di voi hanno visto il filmato nel pomeriggio (ndr: I mulini della morte:
confessioni di un ex membro della Gioventù Hitleriana): io ho un caro
amico nell'associazione che faceva parte della Gioventù Hitleriana e
quando mio padre è morto e io ero a Berlino, appena lo ha saputo è
venuto a trovarmi e ha passato tutto il pomeriggio con me.
Rosalie ha già detto come la partecipazione ai gruppi di dialogo sia
un vento che cambia profondamente la vita. Vorrei leggervi ora una poesia che
ho scritto nel 1996 dopo aver partecipato al mio primo gruppo di dialogo.
Nuvoloso, ma con possibilità di un po' di sole
Non so dove
collocarti.
Anche tu ti senti così?
Volevo odiare te, la tua famiglia, il tuo paese, i tuoi chiari perfetti modi
ariani.
Volevo che le
nuvole restassero, spesse e stratificate
che aleggiano nell'atmosfera
come una tempesta che si avvicina.
I nostri occhi
si sono incontrati
un filo che ha cominciato a svolgersi
e attraverso le nostre storie un nuovo filo ha cominciato a tessere tra di noi.
Si stava al
sicuro dietro le nuvole,
Ora i venti della speranza sparpagliano le nubi
e uno spicchio di sole si affaccia all'orizzonte.
Per me partecipare
a One by One è stato un segno che ha cambiato completamente lo scopo
della mia vita, ma soprattutto ha cambiato qualcosa per i miei figli, ha dato
loro la speranza per il futuro. Possiamo scegliere nella vita di star lì
a guardare l'odio, il pregiudizio e lasciare le cose come stanno o possiamo
scegliere di cambiare.
Martin Luther King diceva che quando al Buon Samaritano veniva chiesto: "Che
cosa mi succederà se aiuto quella persona?" la risposta che dava
era: "Non devi chiedere che cosa succederà a te, ma che cosa succederà
a loro se tu non porti aiuto". Mio padre diceva sempre che se non fosse
stato per un buon tedesco, per un buon cristiano, non sarebbe rimasto vivo.
Quest'altra poesia che ho scritto mi è stata invece ispirata dalla storia
che Martina ha raccontato quando ci incontrammo la prima volta. Fu allora che
compresi che pur venendo da storie del passato completamente diverse avevamo
in comune molte cose.
Maneggiare con cura
Le mani di tuo
padre grandi e forti
tenevano dritta la bicicletta quando imparavi ad andarci.
Le mani di tuo
padre grandi e forti
hanno deciso il destino della mia famiglia con uno schioccare delle dita.
Le mani di tuo
padre grandi e forti
ti facevano saltare sulle sue ginocchia tra gridolini di piacere.
Le mani di tuo
padre grandi e forti
hanno strappato neonati dai seni delle madri.
Oggi, le nostre
mani tenere e dolci
si raggiungono tremanti per toccarsi.
Insieme esploriamo
le nostre eredità e apriamo le porte a un sentiero che mostra come i
figli di nemici nella storia possano incontrarsi e dialogare.
Ilona Kuphal
Di mio padre sapevo solo che era stato in guerra, mi ricordo molto bene i grossi
stivali da militare, era l'unico oggetto rimasto della sua uniforme. Mi ricordo
di averci giocato con molto piacere. Sono anche cresciuta con molti racconti
e immagini sulla guerra. Da quando ero piccola avevo sempre l'idea che non mi
sarebbe mai piaciuto essere in una guerra. Avevo degli incubi con bombe che
cadevano sulle case.
Nel 1961 ho vissuto il più grande shock della mia vita, era al tempo
del processo ad Eichmann. Era la prima volta dopo tanto tempo che si riparlava
di Olocausto e si vedevano anche delle immagini in televisione. Seguivo il processo
giorno per giorno, non riuscivo a capire come degli esseri umani avessero potuto
fare tutto ciò ad altri esseri umani. Mi ricordo in particolare di un'immagine
che si è impressa nel profondo del mio cuore: quella di una bambina piccola
con il fratellino su un carro bestiame e l'espressione che ha negli occhi.
Ma non era soltanto una storia, l'Olocausto non era così lontano, era
successo da molto poco e proprio nel mio paese. Quindi sono andata dai miei
genitori e ho chiesto loro: "Ma come è possibile che sia successa
una cosa simile? Voi che cosa avete fatto per impedirlo? Come è potuto
accadere?" L'unica risposta che ricevetti fu: "Noi non ne sappiamo
niente. E poi, tu sei nata dopo la guerra perché ti occupi di queste
cose?"
Sono andata allora dai miei insegnanti, dal sacerdote, dai miei nonni, da tutti
gli adulti che conoscevo per trovare qualcuno che mi desse una risposta. Ma
nessuno, proprio nessuno mi disse la verità: dovunque ricevetti sempre
le stesse risposte. Soprattutto mio padre si agitava moltissimo e ripeteva:
"Ma voi non potete capire, voi non avete nemmeno idea di come era tutto
questo". Ma a me queste risposte non bastavano. Quindi lo misi sempre più
alle corde, ma lui si arrabbiava sempre di più e così iniziai
a odiarlo. Si stava creando tra noi un abisso sempre più profondo che
non si riusciva più a colmare. Come facevo a parlare con mio padre di
qualcosa di importante se non potevo parlare di questa che per me era ed è
la cosa più importante di tutte?
Martina vi ha parlato del silenzio che regnava in Germania, anch'io l'ho vissuto,
ma era opprimente. Finalmente nel 1968 andai negli Stati Uniti per studiare.
La spinta che mi faceva andare avanti era capire come un simile avvenimento
era potuto accadere e mi continua a sostenere ormai da tanti anni. Negli Stati
Uniti ho incontrato molte persone ebree, ma mi avvicinavo a loro con un senso
di colpa, molti della mia generazione hanno assunto su di sé questo senso
di colpa che in realtà appartiene ai nostri genitori e ai nostri nonni.
Sembrava come se una nuvola di colpa pendesse su tutta la Germania. Ma le generazioni
prima della nostra non volevano accorgersi di questa nuvola ed è stata
quindi la nostra generazione che l'ha presa completamente sulle proprie spalle.
Ci sono voluti alcuni anni prima che io riconoscessi che non si trattava di
una mia colpa personale, ma che come tedesca ho una responsabilità. E'
una storia, un'eredità che ci è stata trasmessa. Noi abbiamo la
responsabilità insieme a questo anche di stendere la mano all'altra parte.
Sono stata per diversi anni in un gruppo di dialogo ebraico tedesco, ma lì
non parlavamo direttamente di questi temi. Ho letto però molti libri
di figli di sopravvissuti e a quel punto mi è veramente stato chiaro
che avevamo delle cose da dirci. Anche se le nostre esperienze sono così
diverse è pero altrettanto vero che tutti siamo vissuti sotto la grande
ombra dell'Olocausto.
Quando infine ci siamo trovati nel 1993 per me è stata un'esperienza
incredibile. Era incredibile sentire le storie soprattutto dei figli dei sopravvissuti
di parte ebraica, ma c'erano anche figli di vittime del nazismo che non erano
ebrei, dei polacchi i cui genitori erano stati nei campi di concentramento e
anche dei tedeschi figli di internati per ragioni politiche. Ma l'esperienza
straordinaria non è stata solo che ascoltavo le storie dell'altra parte,
ma che anche dall'altra parte erano interessati a sentire la mia e che il peso
che sentivo da tanti anni sulle spalle di colpo diventava leggero. E' stata
un'esperienza davvero incredibile.
Il mio lavoro da allora in avanti è stato anche quello di comprendere
mio padre che nel frattempo era morto: non per scusare o giustificare ciò
che ha fatto.
Rosalie Gerut
Mia madre è sopravvissuta al ghetto di Lodz e al campo di concentramento
di Auschwitz. Era una ragazza giovane e ripeteva di non sapere perché
avesse meritato l'inferno. Quando i tedeschi occuparono la Polonia fu quello,
credo, il primo paese in cui crearono i ghetti. Lei finì in uno dei più
grandi, la popolazione veniva sistematicamente affamata. Alla fine il padre
che era un rabbino si lasciò morire di fame per dare ai figli qualcosa
da mangiare e prima di morire disse a mia madre che lei doveva sopravvivere
per poter raccontare un giorno quello che era successo. Mia madre aveva sei
fratelli e sorelle e un giorno, mentre era in giro per cercare bucce di patate,
ci fu una retata e la madre insieme a tutti i fratelli, tranne una delle sorella,
venne portata in un posto chiamato Chelmno dove vennero uccisi con il gas. Non
li ha più rivisti. Riuscì a nascondersi con la sorellina più
piccola, ma non avevano più nulla da mangiare e così quando ci
fu una successiva deportazione non si nascosero e salirono sul carro bestiame
che le portò ad Auschwitz.
Lì fu una delle cosiddette fortunate perché venne prescelta per
lavorare all'esterno del campo. Prese la febbre tifoidea, la tubercolosi e perse
quattro dita alla macchina dove lavorava. Lei, una sorella e un cugino furono
i soli a sopravvivere di una famiglia benestante e molto ampia di Varsavia e
Lodz.
Mio padre invece veniva dalla Lituania e fu rinchiuso nel ghetto di Vilna, un
altro di quei posti dove si moriva di fame e per i maltrattamenti. Si unì
ai partigiani, ma raccontava che bisognava stare attenti perché perfino
tra i partigiani con cui combatteva alcuni erano antisemiti. Fu colpito a una
gamba e catturato. Lo mandarono a Dachau. Era comunista e lavorò insieme
ad altri per salvare quanta più gente possibile nei campi. Mi ha sempre
insegnato a lavorare per il bene del gruppo, ma dopo Stalin non fu più
attratto dal comunismo.
Riuscì a sopravvivere alla marcia della morte da Dachau verso le montagne
nella neve e nel freddo, senza scarpe o vestiti. Mentre gli alleati bombardavano
dal cielo sapeva che alla fine sarebbe stato liberato. Pesava poco più
di trentacinque chili. Dopo la guerra i miei genitori vennero negli Stati Uniti
e come è successo ai genitori di Deborah, mia madre si innamorò
di mio padre per il suo modo di cantare e suonare.
Ai sopravvissuti non venne offerto nessun aiuto per riprendersi: dopo aver sofferto
le situazioni più estreme, le tortura, la fame: nessuno ascoltava le
loro storie. Ma noi, i figli, invece, abbiamo ascoltato queste storie fin da
quando eravamo piccoli, abbiamo imparato che gli ebrei erano odiati e questo
ancora non riesco a capirlo, non credo che la gente ci conosca, ma comunque
ci odia. Ho imparato che qualsiasi cosa ti può essere portata via in
qualsiasi istante, sentire bussare alla porta voleva dire la Gestapo che veniva
a prenderti. Sono cresciuta in una casa che rifletteva il terrore dell'Olocausto;
mio padre aveva spesso degli incubi e lo sentivo urlare la notte, mia madre
piangeva spesso per tutti i suoi parenti uccisi. E a volte la sua rabbia e il
suo dolore erano incontrollabili. Non avevo altra scelta che cercare di uscire
da questa situazione perché era stato introdotto in me un dolore con
il quale in realtà non avevo nulla a che vedere. Ed è stata questa
la fiamma che mi ha spinto a cercare la mia liberazione. Se non avessi avuto
questa storia alle spalle probabilmente sarei stata una musicista molto felice.
Invece ho studiato per diventare psicologa, per capire la natura umana e per
riuscire a trovare una via di uscita a questo dolore e per aiutare gli altri
a liberarsi dal loro e trovare una strada diversa per vivere nel mondo. Per
trovare una speranzadiversa, che non avevo avuto a casa.
Ho lavorato per circa venticinque anni con l'Olocausto da un punto di vista
professionale: ho ascoltato i figli dei sopravvissuti raccontarmi le loro storie,
ho ascoltato i sopravvissuti raccontarmi le loro. Ma il lavoro più profondo
che abbia mai trovato per aiutare ad alleviare il dolore di questo passato è
quello che io chiamo l'atmosfera, l'ambiente spirituale, che abbiamo creato
in One by One.
Vorrei dirvi qualcosa anche di quello che facciamo nel mondo, non parliamo solo.
Seguiamo il concetto ebraico del tikkun olam, cioè la guarigione del
mondo. E' compito di ogni ebreo contribuire a portare la luce divina il più
possibile nel mondo. E' questo un tema comune anche ad altre religioni.
Vorrei raccontarvi alcune attività che svolgono i membri della nostra
associazione. Dopo aver parlato insieme nei piccoli gruppi che sono diventati
sempre più numerosi, parliamo anche nelle scuole, ai ragazzi e a quelli
più anziani, nelle chiese, nelle sinagoghe, nelle università,
stiamo anche scrivendo un libro sulla nostra storia che però non è
ancora ultimato. Martina sta lavorando con delle donne della Bosnia che sono
rifugiate a Berlino. Altri membri stanno aiutando i rifugiati del Kosovo e della
Bosnia. Uno dei nostri membri dell'ex Yugoslavia sta lavorando come arte terapeuta
con dei bambini della Bosnia. Io sto lavorando in America con gruppi in cui
ci sono anche dei nativi, dei sopravvissuti ai campi della morte in Cambogia,
indigeni del Sud America e tibetani e armeni. Uno dei nostri membri ha fatto
la proposto alle Nazioni Unite di istituire una Giornata mondiale dell'Espiazione
ed è stata accettata.
Ci sono anche molti artisti nella nostra associazione e abbiamo allestito una
mostra che viaggia nei diversi paesi per finalità educative. Ma continuiamo
a cercare sempre nuove possibilità e speriamo di continuare a lavorare
anche con la Rete di Indra. Credo che se dobbiamo chiamarci esseri umani dobbiamo
imparare a vivere con le lezioni che l'Olocausto ci impone di imparare e se
noi che siamo i discendenti dei sopravvissuti e dei carnefici siamo arrivati
a un dialogo forse riusciremo a dimostrare che questo è possibile anche
per altre persone.
Martina Emme
Mentre stavo ascoltando pensavo dentro di me a cosa direbbero i miei genitori
e alcuni dei miei parenti se sapessero che cosa sto facendo in questo momento.
Mio padre non vive più mentre mia madre è ancora viva e se guardo
nell'ambito di tutti i miei parenti posso pensare che forse il 95% penserebbe
molto male di quello che sto per raccontare adesso e solo il 5% lo riterrebbe
una cosa buona. Sento una voce dentro di me che mi dice: come puoi raccontare
queste cose in pubblico, ma non mi dà fastidio. Nella mia famiglia c'è
una tradizione secondo la quale una volta l'anno ci incontriamo e mangiamo tutti
insieme, ci si racconta quello che è successo e si scambiano le fotografie.
Da un po' di tempo anch'io ho cominciato a fare delle domande sul passato e,
come Ilona, mi sono sentita rispondere la stessa cosa: "Tu devi solo essere
felice di non essere vissuta durante la guerra". Naturalmente ne sono felice,
ma in questo contesto è interessante come viene usata la parola guerra:
la parola Olocausto tra i miei parenti non esiste.
Stando ai racconti potrei costruire la storia della mia famiglia solo dopo il
1945. Potrei raccontarvi - perché è ciò che mi è
stato raccontato - la fuga dai paesi dei Sudeti, i tempi della fame e come lentamente
tutta la famiglia uno dopo l'altro si sono trovati e sono riusciti a riunirsi.
Resta nel buio più totale tutto il periodo che va dal 1933 al 1945 e
non si parla di ciò che la mia famiglia ha fatto durante il nazismo.
Quando avevo sedici anni ero molto arrabbiata e sia a scuola che a casa ho accusato
tutta la generazione che mi ha preceduto dell'Olocausto. Oggi capisco che questo
non è un buon metodo per parlare con loro perché in realtà
stavo facendo delle accuse. Però devo ammettere che ancora oggi mi arrabbio
moltissimo quando sento questo tabù per cui di alcune cose proprio non
si parla. Non vorrei che a questo punto voi aveste un'impressione sbagliata
di me perché nonostante tutto amo la mia famiglia.
Vi racconterò un piccolo episodio di mio padre e poi vorrei parlarvi
di mio nonno. Quando ho iniziato a lavorare con One by One avevo ancora questo
impellente desiderio di svelare finalmente le storie della mia famiglia, volevo
sentire dei fatti concreti. Una volta che eravamo insieme con mia madre, mio
padre e mio fratello per cercare di spiegargli, raccontai loro che nei gruppi
di One by One si incontravano anche dei sopravvissuti dell'Olocausto. Mio padre
che era già molto malato sentendo pronunciare la parola Olocausto scattò
in piedi e cominciò a urlare: "Ma loro hanno bombardato Dresda!"
Vidi che si stava agitando e gli dissi: "Va bene, va bene, raccontami di
quel periodo". Però la mia esca non funzionò e lui non voleva
parlarne e di nuovo ripeté la solita frase: "Sii contenta di non
aver vissuto durante la guerra".
Per me è difficile spiegare quanto sia duro convivere con queste sue
frasi perché si ha la sensazione che non solo la mia famiglia, ma tutta
la società tedesca preferisca ancora oggi vedersi come vittima piuttosto
che come responsabile dei crimini. Nello stesso tempo ho fatto delle ricerche,
anche di archivio, perché mi interessa moltissimo sapere la verità,
anche sulla mia famiglia.
Nella mia famiglia c'era un segreto che consisteva nelle lettere che mio nonno
aveva scritto dal fronte a sua moglie: dopo tanto tempo ero riuscita a entrare
in possesso di una di queste lettere e ne ho una qui. Come mi aspettavo molte
delle lettere erano lettere di un soldato dal fronte, ma c'è un punto
che quando lo letto è stato per me uno shock.
Ho amato molto mio nonno, ero la sua nipote preferita e qui ho una foto dove
ci sono io a due anni insieme a lui. Si vede come mi prendeva per mano, e questo
mi riporta alla poesia di Deborah. Avevo piena fiducia in mio nonno, lo amavo,
era il nonno che mi faceva giocare, che mi raccontava le storie, che mi faceva
gli scherzi, un nonno da favola. Ancora oggi per me è incredibile concepire
che questa persona che verso di me era così amorevole e così presente
potesse essere contemporaneamente la persona che ha scritto quello che adesso
vi leggerò: "Cara mamma, da ieri io sto qui al fronte e ci stiamo
riposando dalle fatiche della settimana scorsa". La mattina del 24 giugno
aveva preso parte all'invasione dell'Unione Sovietica e questo l'ho ricostruito
attraverso le date delle sue lettere. "Siamo entrati a in una delle maggiori
città della Lituania e c'erano poche case ancora in piedi e le altre
bruciavano oppure erano rase al suolo. Nella notte le nostre truppe sono entrate
e si sono misurate in un corpo a corpo violentissimo con i Russi.
I nostri camerati tedeschi furono sepolti dai tedeschi" E adesso viene
la parte più importante: "I Russi furono raccattati da ebrei. Da
qui ci siamo avviati verso Schaulen (ndr: oggi Siauliai) che sta a nord ovest,
attraverso delle strade molto malridotte. Dei covi di ebrei". Dopodiché
la lettera continua descrivendo come si mangia, eccetera.
Di colpo dovevo fare i conti con il fatto che il mio amatissimo nonno parlava
di 'covi ebraici'; attraverso delle ricerche storiche che ho fatto, oggi so
quello che succedeva in quei paraggi proprio in quei giorni ma a lui non sembra
nemmeno degno di essere menzionato nelle sue lettere.
Tra il 22 giugno e il 16 luglio del 1941 tremila ebrei furono massacrati in
quella zona.
Potrei anche capire che non avesse più scritto dalla guerra e che per
dieci anni non ne parlasse più, ma non ha mai avuto alcun tipo di rimorso.
Non credo che abbia sparato in prima persona, probabilmente no, però
lui era comunque lì, presente e lo ha ritenuto giusto.
Io e Rosalie a questo punto abbiamo una storia in comune perché la sua
famiglia venne internata a Schaulen. Ho la sensazione che siccome mio nonno
non è stato mai tormentato in alcun modo da questa storia, tutto il tormento
sia ricaduto su di me, come una forma di eredità e che io con esso debba
fare qualcosa di sensato. Ed è per questo che sono seduta qui.
Ilona Kuphal
Una cosa che ho omesso di dire prima, e cioè che mio padre era un ufficiale
delle SS.
(da "Buone Notizie", anno 2000 n°1)