Il dolore della storia nella storia di ognuno
One by One: il primo incontro a Roma

Quella che segue è la trascrizione integrale del primo incontro che si è tenuto a Roma il 20 marzo di quest'anno con quattro rappresentanti di One by One.
Il giorno successivo il lavoro è proseguito con una tavola rotonda sul tema "Guarire la memoria" a cui hanno partecipato anche Daniele Garrone, biblista valdese, e Pupa Garribba della redazione della rivista Confronti. Il dibattito che ne è scaturito è stato ricco di sollecitazioni e riflessioni che ci auguriamo di poter riprendere, sia pure in parte, nel prossimo numero del giornale.
La prima visita di One by One a Roma si è conclusa il 22 marzo con un concerto di Rosalie Gerut e Betty Silberman. Vogliamo infine ricordare l'incontro che con gli studenti del liceo Virgilio la mattina del 21 marzo. preceduto dalla proiezione del documentario "Portare testimonianza ad Auschwitz".
Ci auguriamo che in occasione della presenza a Roma della mostra di opere di membri di One by One, di cui al momento non siamo ancora in grado di indicare la data, sia possibile realizzare nuovi momenti di discussione e riflessione.
Un particolare ringraziamento va all'Assessorato alla Politiche Culturali del Comune di Roma che con pronta sollecitudine ha dato il suo indispensabile contributo alla realizzazione dell'intera manifestazione.





Roberto Mander
Ho incontrato Rosalie Gerut nel dicembre del 1994 ad Auschwitz, in Polonia. Per celebrare il 50° anniversario della fine della II guerra mondiale, dal più tristemente noto tra i campi di sterminio nazisti sarebbe partito un pellegrinaggio di pace che si sarebbe poi concluso il 5 agosto dell'anno successivo a Hiroshima, in Giappone.
Il tragitto avrebbe attraversato numerosi paesi ancora teatro di conflitti, o che lo erano stati ancora in tempi recenti.
Nei giorni di grande intensità che precedettero la partenza della marcia ebbi modo di ascoltare le testimonianze e le storie che i membri di One by One condivisero con gli oltre cento partecipanti provenienti da diverse parti del mondo.
Rimasi colpito dalla dimensione, nuova per me, che intravedevo emergere dal racconto dell'esperienza dei gruppi di dialogo creati da One by One, tra i figli dei sopravvissuti all'Olocausto e i figli di militari del Terzo Reich. In essi il processo di guarigione da ferite tanto profonde quanto mai più cancellabili fioriva proprio attraverso il pieno recupero della memoria e la capacità di saper camminare insieme fin dentro la parte più buia della storia e della vita di ciascuno dei partecipanti.
Oggi, finalmente, con profonda riconoscenza per il loro lavoro e con gioia do il benvenuto a Rosalie Gerut, Martina Emme, Deborah Shelkan-Remis e Ilona Kuphal.
Grazie di essere qui con noi oggi.

Rosalie Gerut
Le parole che hai detto ci spingono ad andare ancora più a fondo nel nostro lavoro. Come ha già detto Roberto, nel 1994 partecipammo ad Auschwitz alla Convocazione del Pellegrinaggio per la Pace: eravamo da una parte un gruppo di discendenti di tedeschi che avevano partecipato al regime nazista e dall'altra discendenti di sopravvissuti all'Olocausto, la seconda generazione. La gente si chiedeva chi fossero queste persone che piangevano insieme davanti ai crematori di Auschwitz: eravamo uno strano gruppo di persone che si erano riunite la prima volta nel 1993.
In qualche modo sapevamo che dovevamo incontrarci e la gran parte di noi, quando venne a sapere che c'era questa occasione di incontro, sentì la necessità di parteciparvi. In una località della Foresta Nera, in Germania, ci ritrovammo in trenta dentro una stessa stanza. Tra noi c'era anche una donna che aveva appreso da pochissimo tempo che suo padre aveva preso parte direttamente ai massacri di massa. Nello stesso cerchio di persone, seduto dalla parte opposta, c'era un giovane la cui famiglia paterna era stata sterminata proprio da quell'uomo. Che cosa c'entravano l'uno con l'altro? La donna era colpevole per i crimini del padre? E contro chi l'uomo doveva rivolgere la sua rabbia e il suo dolore? Dovevamo affrontare dei grandi interrogativi.
Alla fine capirono di essere entrambi vittime, anche se non esattamente nello stesso modo: di essere figli tutti e due di un stesso tremendo evento che tutti quanti avevamo seppellito in noi. Ci rendevamo conto che dovevamo affrontare questa storia. Da una parte c'era una grande massa di interrogativi e dall'altra un grosso problema individuale. Iniziammo allora uno per volta, ciascuno dentro se stesso e in piccoli gruppi, a esplorare questo terreno.
L'espressione One by One, uno per volta, l'abbiamo ripresa da un libro di Judith Miller ("One by One by One") in cui scrive: "L'astrazione è il più forte nemico della memoria e uccide perché incoraggia la distanza e spesso l'indifferenza. Dobbiamo sempre ricordarci che l'Olocausto non ha riguardato sei milioni di persone, ma una persona, più un'altra, più un'altra ancora, più una... Solo comprendendo che per ritenersi civili si deve difendere ciascuna persona, una per una, solo così l'Olocausto, ossia ciò che non è comprensibile, può trovare un significato".
Continuando a incontrarci con questa intensità per due anni, raccontando ciascuno la propria storia e quella dei propr genitori, abbiamo cominciato a percepire una sorta di trasformazione dentro di noi. Ed è stato così che abbiamo sviluppato l'idea del Gruppo di Dialogo.
Per quanto riguarda la parte teorica facciamo riferimento a degli autori importanti . Uno di essi è Viktor Frankl, che è sopravvissuto a Dachau. Egli ha scritto: "Quando si porta sulle spalle una sofferenza insopportabile l'unico modo di reagire è di darle un significato. L'unica potenzialità umana è trasformare una tragedia personale in un trionfo, trasformare il proprio dolore in una conquista umana". Frankl è una delle figure a cui ci ispiriamo maggiormente.

Martina Emme
Sono nata in Germania nel 1959, potrei quindi affermare dopo tanto tempo dal nazismo e che quindi, in un certo senso, il problema non mi riguarda. Però oggi posso dire con certezza che non potrei vivere nel mio paese se non mi confrontassi con la sua storia. Ciò che è successo durante il nazismo, secondo me, ha distrutto la dignità della Germania. E per me c'è un solo modo di vivere con questa consapevolezza ed è quello di fare un passo alla volta per ristabilirla.
Il mio lavoro con One by One è un piccolo contributo in questa direzione. Quando andavo a scuola si studiava la storia solo fino al 1900. Naturalmente oggi la situazione è cambiata, ma voglio ricordare che che ai miei tempi c'era come un tabù intorno a questo argomento. Questa atmosfera è stata spesso descritta come un silenzio che penetrava attraverso l'intera società. La situazione è cambiata solo con il movimento studentesco, ma di questo vorrei parlare dopo.
Rompere questo silenzio, che è dominante soprattutto all'interno delle famiglie, è la prima delle finalità di One by One. Il contrario del silenzio è parlare gli uni con gli altri e per me i gruppi di dialogo di One by One sono come una forma di liberazione. Parlando gli uni con gli altri cerchiamo di capire quali sono le tracce che la storia ha lasciato dentro ognuno di noi.
Vorrei però ora accennare al secondo autore a cui si ispira il nostro lavoro. Accanto a Viktor Frankl abbiamo Primo Levi, l'autore di "Se questo è un uomo", che era nato a Torino ed è sopravvissuto ad Auschwitz. Questo suo libro è stato tradotto in tedesco molto tardi e non stupisce: la società non era ancora matura ed era forte la tendenza a rimuovere questi temi. Ciò che mi ha colpito personalmente nel libro è il modo in cui Primo Levi descrive con molta oggettività, e apparentemente senza accusare, ciò che lui ha sperimentato nel campo di Auschwitz.
Vorrei essere più precisa, mi sembra che ogni singola frase del suo libro sia contemporaneamente un grido verso la giustizia e una condanna della disumanità. Nella prefazione all'edizione tedesca ha scritto qualcosa che per noi di One by One è molto importante: Vorrei leggervelo: "Ho scritto questo libro per coloro che non sanno niente, per coloro che non vogliono sapere niente". Ma coloro a cui era veramente diretto il libro, e gli era diretto contro come un fucile, erano loro, i tedeschi. "E' arrivato il tempo di parlare chiaramente ed è anche arrivato il tempo di parlare gli uni con gli altri. Non sono interessato alla vendetta, il mio compito è di capire".
Come può un sopravvissuto a un campo di concentramento scrivere una frase come questa: io vorrei conoscervi per potervi capire? Cercare di comprendere senza accusare, ma contemporaneamente dice in modo univoco che voler capire non vuol dire assolutamente, neppure per un secondo, giustificare. Vuol dire che, mentre si rivolge a loro, vuole però nello stesso momento vedere se i tedeschi sanno cogliere questa occasione per un vero confronto.
Un altro filosofo per noi molto importante è Martin Buber, un ebreo tedesco morto nel 1965. Uno dei suoi testi principali è "Il principio dialogico". Egli vede il dialogo come il momento centrale e scrive che se due esseri umani si incontrano realmente, autenticamente, succede qualche cosa. Se si fanno toccare internamente da ciò che l'altra persona dice, se ciò li emoziona veramente, succede un qualcosa che li trasforma entrambi. Per Buber questo è un segno della presenza di Dio.
Nei gruppi di dialogo lo abbiamo sperimentato e abbiamo visto che questo succede quando i due dialoganti realmente entrano l'uno nel discorso dell'altro, in profondità. Succede quando raccontiamo le nostre storie e il vero lavoro è quello dell'ascolto. Ascoltare ciò che io nella mia vita non ho vissuto ma che è ad essa così strettamente connesso. E' come se due metà che fino a quel momento erano rimaste separate di colpo si riunissero. E' la storia delle vittime unita alla storia dei carnefici.
Voglio subito chiarire che non si tratta assolutamente di perdonarsi reciprocamente, si tratta di molto di più e forse a questo proposito Rosalie può dire qualcosa del concetto ebraico di perdono.


Rosalie Gerut
Nell'ebraismo la persona che ha subito un torto deve avvicinarsi a colui che lo ha causato ma ciò che è richiesto per la guarigione di entrambe le parti è che la persona che ha commesso il torto deve capire ciò che ha fatto e sentire un sincero rimorso e quindi avvicinarsi alla persona a cui ha causato un male e dirgli: "Sono davvero dispiaciuto e prometto di non fare mai più una cosa simile. E le mie azioni proveranno quello che dico". Per quanto riguarda la mia esperienza non sono a conoscenza di un singolo caso in cui un tedesco responsabile di quei crimini abbia mai chiesto perdono a un sopravvissuto. Sono pronta comunque ad accettare e ascoltare una tale persona se esiste.
Dal punto di vista ebraico questa realtà causa grande sofferenza ai sopravvissuti che poi la trasmettono ai figli, come è successo nel mio caso, una pesante eredità di dolore. E dalla parte invece di coloro che hanno commesso i crimini viene trasmesso ai figli un senso di colpa e di vergogna.
Nei nostri gruppi di dialogo dove non siamo direttamente noi coloro che hanno subito o commesso il torto fa incredibilmente bene sentire qualcuno dalla parte dei responsabili dire: "Mi dispiace profondamente per quello che la mia gente ha fatto alla tua". E mi auguro che dall'altra parte, per i figli dei colpevoli, faccia altrettanto bene sentirsi dire che loro non hanno colpa.
Ora prima di raccontare ciascuna di noi la propria storia vorrei dire solo poche parole sui gruppi di dialogo. Si tratta di cinque giorni di intenso dialogo che si svolgono a Berlino. Ne abbiamo appena concluso uno. La maggior parte del tempo è dedicata al racconto che ognuno fa di come l'Olocausto o il regime nazista abbia segnato la propria vita. E i risultati sono sempre molto forti, molto importanti. Non è un esercizio intellettuale, ma una comunicazione che nasce dal cuore. La gente ne esce dicendo che la loro vita è profondamente cambiata e noi ci sentiamo onorati di poter lavorare in questa direzione.

Deborah Shelkan-Remis
Buonasera, vengo da Boston in Massachusetts e sono molto onorata di essere qui questa sera. Ma prima di raccontarvi la mia storia e il mio rapporto con One by One vorrei condividere un'importante festività ebraica che inizia proprio oggi, Purim. Si celebra un'occasione in cui il popolo ebraico fu vittorioso e non vittima. La storia è contenuta nel libro di Ester dove troviamo un monito a tutto il mondo della profonda verità che la sofferenza e la tribolazione sia per chi perseguita che per chi è perseguitato accompagnano la nascita del pregiudizio.
Vorrei chiedervi scusa fin da subito se mi emozionerò, ma pochi mesi fa mio padre che era un sopravvissuto è morto. Era nato a Riga, in Latvia, studiò come cantante lirico e divenne il tenore principale del Metropolitan di Riga e la sua voce è stata ascoltata in molti teatri dell'opera in Europa. Ritornò a Riga per svolgere il servizio militare e fu allora che venne preso e rinchiuso nel ghetto di Riga. Nei cinque anni che seguirono perse ventitré membri della sua famiglia, compresa la prima moglie, i genitori e tre fratelli. Fu liberato nel marzo del 1945 e pesava allora meno di quaranta chili. Trascorse i primi mesi in ospedale con il tifo dopodiché riuscì ad arrivare a Berlino. Fu sistemato in un campo profughi.
Mia madre che è americana fu inviata a Berlino nel 1946 come addetto stampa del generale L. Clay, presso il comando alleato. Sentì mio padre cantare e andò così. I miei genitori si sposarono nel 1947 e trascorsero la loro luna di miele andando da un campo profughi all'altro in tutta Europa per cercare le persone scomparse che mio padre conosceva.
Come figlia di un sopravvissuto all'Olocausto fin da piccola la mia vita né è stata segnata. Olocausto è una parola che si sentiva spesso a casa mia. Mio padre conservava la sua giacca del campo di concentramento con il suo numero: 96510. E quando eravamo piccole io e mia sorella giocavamo a nasconderci dalla Gestapo andando sotto il letto. Mio padre diceva che era importante conservare quella giacca perché era una prova che l'Olocausto c'era stato. Nel corso della sua vita raccontò spesso in varie occasioni la sua esperienza nei campi perché riteneva che fosse sua responsabilità farlo. Ed ora come sua figlia la mia responsabilità è che questa storia viva per sempre.
Il nostro coinvolgimento in One by One è molto individualizzato, veniamo tutti con motivazioni diverse, però sappiamo quello che dobbiamo fare. Alcuni di voi hanno visto il filmato nel pomeriggio (ndr: I mulini della morte: confessioni di un ex membro della Gioventù Hitleriana): io ho un caro amico nell'associazione che faceva parte della Gioventù Hitleriana e quando mio padre è morto e io ero a Berlino, appena lo ha saputo è venuto a trovarmi e ha passato tutto il pomeriggio con me.
Rosalie ha già detto come la partecipazione ai gruppi di dialogo sia un vento che cambia profondamente la vita. Vorrei leggervi ora una poesia che ho scritto nel 1996 dopo aver partecipato al mio primo gruppo di dialogo.

Nuvoloso, ma con possibilità di un po' di sole

Non so dove collocarti.
Anche tu ti senti così?
Volevo odiare te, la tua famiglia, il tuo paese, i tuoi chiari perfetti modi ariani.

Volevo che le nuvole restassero, spesse e stratificate
che aleggiano nell'atmosfera
come una tempesta che si avvicina.

I nostri occhi si sono incontrati
un filo che ha cominciato a svolgersi
e attraverso le nostre storie un nuovo filo ha cominciato a tessere tra di noi.

Si stava al sicuro dietro le nuvole,
Ora i venti della speranza sparpagliano le nubi
e uno spicchio di sole si affaccia all'orizzonte.

Per me partecipare a One by One è stato un segno che ha cambiato completamente lo scopo della mia vita, ma soprattutto ha cambiato qualcosa per i miei figli, ha dato loro la speranza per il futuro. Possiamo scegliere nella vita di star lì a guardare l'odio, il pregiudizio e lasciare le cose come stanno o possiamo scegliere di cambiare.
Martin Luther King diceva che quando al Buon Samaritano veniva chiesto: "Che cosa mi succederà se aiuto quella persona?" la risposta che dava era: "Non devi chiedere che cosa succederà a te, ma che cosa succederà a loro se tu non porti aiuto". Mio padre diceva sempre che se non fosse stato per un buon tedesco, per un buon cristiano, non sarebbe rimasto vivo.
Quest'altra poesia che ho scritto mi è stata invece ispirata dalla storia che Martina ha raccontato quando ci incontrammo la prima volta. Fu allora che compresi che pur venendo da storie del passato completamente diverse avevamo in comune molte cose.

Maneggiare con cura

Le mani di tuo padre grandi e forti
tenevano dritta la bicicletta quando imparavi ad andarci.

Le mani di tuo padre grandi e forti
hanno deciso il destino della mia famiglia con uno schioccare delle dita.

Le mani di tuo padre grandi e forti
ti facevano saltare sulle sue ginocchia tra gridolini di piacere.

Le mani di tuo padre grandi e forti
hanno strappato neonati dai seni delle madri.

Oggi, le nostre mani tenere e dolci
si raggiungono tremanti per toccarsi.

Insieme esploriamo le nostre eredità e apriamo le porte a un sentiero che mostra come i figli di nemici nella storia possano incontrarsi e dialogare.

Ilona Kuphal
Di mio padre sapevo solo che era stato in guerra, mi ricordo molto bene i grossi stivali da militare, era l'unico oggetto rimasto della sua uniforme. Mi ricordo di averci giocato con molto piacere. Sono anche cresciuta con molti racconti e immagini sulla guerra. Da quando ero piccola avevo sempre l'idea che non mi sarebbe mai piaciuto essere in una guerra. Avevo degli incubi con bombe che cadevano sulle case.
Nel 1961 ho vissuto il più grande shock della mia vita, era al tempo del processo ad Eichmann. Era la prima volta dopo tanto tempo che si riparlava di Olocausto e si vedevano anche delle immagini in televisione. Seguivo il processo giorno per giorno, non riuscivo a capire come degli esseri umani avessero potuto fare tutto ciò ad altri esseri umani. Mi ricordo in particolare di un'immagine che si è impressa nel profondo del mio cuore: quella di una bambina piccola con il fratellino su un carro bestiame e l'espressione che ha negli occhi.
Ma non era soltanto una storia, l'Olocausto non era così lontano, era successo da molto poco e proprio nel mio paese. Quindi sono andata dai miei genitori e ho chiesto loro: "Ma come è possibile che sia successa una cosa simile? Voi che cosa avete fatto per impedirlo? Come è potuto accadere?" L'unica risposta che ricevetti fu: "Noi non ne sappiamo niente. E poi, tu sei nata dopo la guerra perché ti occupi di queste cose?"
Sono andata allora dai miei insegnanti, dal sacerdote, dai miei nonni, da tutti gli adulti che conoscevo per trovare qualcuno che mi desse una risposta. Ma nessuno, proprio nessuno mi disse la verità: dovunque ricevetti sempre le stesse risposte. Soprattutto mio padre si agitava moltissimo e ripeteva: "Ma voi non potete capire, voi non avete nemmeno idea di come era tutto questo". Ma a me queste risposte non bastavano. Quindi lo misi sempre più alle corde, ma lui si arrabbiava sempre di più e così iniziai a odiarlo. Si stava creando tra noi un abisso sempre più profondo che non si riusciva più a colmare. Come facevo a parlare con mio padre di qualcosa di importante se non potevo parlare di questa che per me era ed è la cosa più importante di tutte?
Martina vi ha parlato del silenzio che regnava in Germania, anch'io l'ho vissuto, ma era opprimente. Finalmente nel 1968 andai negli Stati Uniti per studiare. La spinta che mi faceva andare avanti era capire come un simile avvenimento era potuto accadere e mi continua a sostenere ormai da tanti anni. Negli Stati Uniti ho incontrato molte persone ebree, ma mi avvicinavo a loro con un senso di colpa, molti della mia generazione hanno assunto su di sé questo senso di colpa che in realtà appartiene ai nostri genitori e ai nostri nonni. Sembrava come se una nuvola di colpa pendesse su tutta la Germania. Ma le generazioni prima della nostra non volevano accorgersi di questa nuvola ed è stata quindi la nostra generazione che l'ha presa completamente sulle proprie spalle.
Ci sono voluti alcuni anni prima che io riconoscessi che non si trattava di una mia colpa personale, ma che come tedesca ho una responsabilità. E' una storia, un'eredità che ci è stata trasmessa. Noi abbiamo la responsabilità insieme a questo anche di stendere la mano all'altra parte. Sono stata per diversi anni in un gruppo di dialogo ebraico tedesco, ma lì non parlavamo direttamente di questi temi. Ho letto però molti libri di figli di sopravvissuti e a quel punto mi è veramente stato chiaro che avevamo delle cose da dirci. Anche se le nostre esperienze sono così diverse è pero altrettanto vero che tutti siamo vissuti sotto la grande ombra dell'Olocausto.
Quando infine ci siamo trovati nel 1993 per me è stata un'esperienza incredibile. Era incredibile sentire le storie soprattutto dei figli dei sopravvissuti di parte ebraica, ma c'erano anche figli di vittime del nazismo che non erano ebrei, dei polacchi i cui genitori erano stati nei campi di concentramento e anche dei tedeschi figli di internati per ragioni politiche. Ma l'esperienza straordinaria non è stata solo che ascoltavo le storie dell'altra parte, ma che anche dall'altra parte erano interessati a sentire la mia e che il peso che sentivo da tanti anni sulle spalle di colpo diventava leggero. E' stata un'esperienza davvero incredibile.
Il mio lavoro da allora in avanti è stato anche quello di comprendere mio padre che nel frattempo era morto: non per scusare o giustificare ciò che ha fatto.

Rosalie Gerut
Mia madre è sopravvissuta al ghetto di Lodz e al campo di concentramento di Auschwitz. Era una ragazza giovane e ripeteva di non sapere perché avesse meritato l'inferno. Quando i tedeschi occuparono la Polonia fu quello, credo, il primo paese in cui crearono i ghetti. Lei finì in uno dei più grandi, la popolazione veniva sistematicamente affamata. Alla fine il padre che era un rabbino si lasciò morire di fame per dare ai figli qualcosa da mangiare e prima di morire disse a mia madre che lei doveva sopravvivere per poter raccontare un giorno quello che era successo. Mia madre aveva sei fratelli e sorelle e un giorno, mentre era in giro per cercare bucce di patate, ci fu una retata e la madre insieme a tutti i fratelli, tranne una delle sorella, venne portata in un posto chiamato Chelmno dove vennero uccisi con il gas. Non li ha più rivisti. Riuscì a nascondersi con la sorellina più piccola, ma non avevano più nulla da mangiare e così quando ci fu una successiva deportazione non si nascosero e salirono sul carro bestiame che le portò ad Auschwitz.
Lì fu una delle cosiddette fortunate perché venne prescelta per lavorare all'esterno del campo. Prese la febbre tifoidea, la tubercolosi e perse quattro dita alla macchina dove lavorava. Lei, una sorella e un cugino furono i soli a sopravvivere di una famiglia benestante e molto ampia di Varsavia e Lodz.
Mio padre invece veniva dalla Lituania e fu rinchiuso nel ghetto di Vilna, un altro di quei posti dove si moriva di fame e per i maltrattamenti. Si unì ai partigiani, ma raccontava che bisognava stare attenti perché perfino tra i partigiani con cui combatteva alcuni erano antisemiti. Fu colpito a una gamba e catturato. Lo mandarono a Dachau. Era comunista e lavorò insieme ad altri per salvare quanta più gente possibile nei campi. Mi ha sempre insegnato a lavorare per il bene del gruppo, ma dopo Stalin non fu più attratto dal comunismo.
Riuscì a sopravvivere alla marcia della morte da Dachau verso le montagne nella neve e nel freddo, senza scarpe o vestiti. Mentre gli alleati bombardavano dal cielo sapeva che alla fine sarebbe stato liberato. Pesava poco più di trentacinque chili. Dopo la guerra i miei genitori vennero negli Stati Uniti e come è successo ai genitori di Deborah, mia madre si innamorò di mio padre per il suo modo di cantare e suonare.
Ai sopravvissuti non venne offerto nessun aiuto per riprendersi: dopo aver sofferto le situazioni più estreme, le tortura, la fame: nessuno ascoltava le loro storie. Ma noi, i figli, invece, abbiamo ascoltato queste storie fin da quando eravamo piccoli, abbiamo imparato che gli ebrei erano odiati e questo ancora non riesco a capirlo, non credo che la gente ci conosca, ma comunque ci odia. Ho imparato che qualsiasi cosa ti può essere portata via in qualsiasi istante, sentire bussare alla porta voleva dire la Gestapo che veniva a prenderti. Sono cresciuta in una casa che rifletteva il terrore dell'Olocausto; mio padre aveva spesso degli incubi e lo sentivo urlare la notte, mia madre piangeva spesso per tutti i suoi parenti uccisi. E a volte la sua rabbia e il suo dolore erano incontrollabili. Non avevo altra scelta che cercare di uscire da questa situazione perché era stato introdotto in me un dolore con il quale in realtà non avevo nulla a che vedere. Ed è stata questa la fiamma che mi ha spinto a cercare la mia liberazione. Se non avessi avuto questa storia alle spalle probabilmente sarei stata una musicista molto felice. Invece ho studiato per diventare psicologa, per capire la natura umana e per riuscire a trovare una via di uscita a questo dolore e per aiutare gli altri a liberarsi dal loro e trovare una strada diversa per vivere nel mondo. Per trovare una speranzadiversa, che non avevo avuto a casa.
Ho lavorato per circa venticinque anni con l'Olocausto da un punto di vista professionale: ho ascoltato i figli dei sopravvissuti raccontarmi le loro storie, ho ascoltato i sopravvissuti raccontarmi le loro. Ma il lavoro più profondo che abbia mai trovato per aiutare ad alleviare il dolore di questo passato è quello che io chiamo l'atmosfera, l'ambiente spirituale, che abbiamo creato in One by One.
Vorrei dirvi qualcosa anche di quello che facciamo nel mondo, non parliamo solo. Seguiamo il concetto ebraico del tikkun olam, cioè la guarigione del mondo. E' compito di ogni ebreo contribuire a portare la luce divina il più possibile nel mondo. E' questo un tema comune anche ad altre religioni.
Vorrei raccontarvi alcune attività che svolgono i membri della nostra associazione. Dopo aver parlato insieme nei piccoli gruppi che sono diventati sempre più numerosi, parliamo anche nelle scuole, ai ragazzi e a quelli più anziani, nelle chiese, nelle sinagoghe, nelle università, stiamo anche scrivendo un libro sulla nostra storia che però non è ancora ultimato. Martina sta lavorando con delle donne della Bosnia che sono rifugiate a Berlino. Altri membri stanno aiutando i rifugiati del Kosovo e della Bosnia. Uno dei nostri membri dell'ex Yugoslavia sta lavorando come arte terapeuta con dei bambini della Bosnia. Io sto lavorando in America con gruppi in cui ci sono anche dei nativi, dei sopravvissuti ai campi della morte in Cambogia, indigeni del Sud America e tibetani e armeni. Uno dei nostri membri ha fatto la proposto alle Nazioni Unite di istituire una Giornata mondiale dell'Espiazione ed è stata accettata.
Ci sono anche molti artisti nella nostra associazione e abbiamo allestito una mostra che viaggia nei diversi paesi per finalità educative. Ma continuiamo a cercare sempre nuove possibilità e speriamo di continuare a lavorare anche con la Rete di Indra. Credo che se dobbiamo chiamarci esseri umani dobbiamo imparare a vivere con le lezioni che l'Olocausto ci impone di imparare e se noi che siamo i discendenti dei sopravvissuti e dei carnefici siamo arrivati a un dialogo forse riusciremo a dimostrare che questo è possibile anche per altre persone.

Martina Emme
Mentre stavo ascoltando pensavo dentro di me a cosa direbbero i miei genitori e alcuni dei miei parenti se sapessero che cosa sto facendo in questo momento.
Mio padre non vive più mentre mia madre è ancora viva e se guardo nell'ambito di tutti i miei parenti posso pensare che forse il 95% penserebbe molto male di quello che sto per raccontare adesso e solo il 5% lo riterrebbe una cosa buona. Sento una voce dentro di me che mi dice: come puoi raccontare queste cose in pubblico, ma non mi dà fastidio. Nella mia famiglia c'è una tradizione secondo la quale una volta l'anno ci incontriamo e mangiamo tutti insieme, ci si racconta quello che è successo e si scambiano le fotografie. Da un po' di tempo anch'io ho cominciato a fare delle domande sul passato e, come Ilona, mi sono sentita rispondere la stessa cosa: "Tu devi solo essere felice di non essere vissuta durante la guerra". Naturalmente ne sono felice, ma in questo contesto è interessante come viene usata la parola guerra: la parola Olocausto tra i miei parenti non esiste.
Stando ai racconti potrei costruire la storia della mia famiglia solo dopo il 1945. Potrei raccontarvi - perché è ciò che mi è stato raccontato - la fuga dai paesi dei Sudeti, i tempi della fame e come lentamente tutta la famiglia uno dopo l'altro si sono trovati e sono riusciti a riunirsi. Resta nel buio più totale tutto il periodo che va dal 1933 al 1945 e non si parla di ciò che la mia famiglia ha fatto durante il nazismo.
Quando avevo sedici anni ero molto arrabbiata e sia a scuola che a casa ho accusato tutta la generazione che mi ha preceduto dell'Olocausto. Oggi capisco che questo non è un buon metodo per parlare con loro perché in realtà stavo facendo delle accuse. Però devo ammettere che ancora oggi mi arrabbio moltissimo quando sento questo tabù per cui di alcune cose proprio non si parla. Non vorrei che a questo punto voi aveste un'impressione sbagliata di me perché nonostante tutto amo la mia famiglia.
Vi racconterò un piccolo episodio di mio padre e poi vorrei parlarvi di mio nonno. Quando ho iniziato a lavorare con One by One avevo ancora questo impellente desiderio di svelare finalmente le storie della mia famiglia, volevo sentire dei fatti concreti. Una volta che eravamo insieme con mia madre, mio padre e mio fratello per cercare di spiegargli, raccontai loro che nei gruppi di One by One si incontravano anche dei sopravvissuti dell'Olocausto. Mio padre che era già molto malato sentendo pronunciare la parola Olocausto scattò in piedi e cominciò a urlare: "Ma loro hanno bombardato Dresda!" Vidi che si stava agitando e gli dissi: "Va bene, va bene, raccontami di quel periodo". Però la mia esca non funzionò e lui non voleva parlarne e di nuovo ripeté la solita frase: "Sii contenta di non aver vissuto durante la guerra".
Per me è difficile spiegare quanto sia duro convivere con queste sue frasi perché si ha la sensazione che non solo la mia famiglia, ma tutta la società tedesca preferisca ancora oggi vedersi come vittima piuttosto che come responsabile dei crimini. Nello stesso tempo ho fatto delle ricerche, anche di archivio, perché mi interessa moltissimo sapere la verità, anche sulla mia famiglia.
Nella mia famiglia c'era un segreto che consisteva nelle lettere che mio nonno aveva scritto dal fronte a sua moglie: dopo tanto tempo ero riuscita a entrare in possesso di una di queste lettere e ne ho una qui. Come mi aspettavo molte delle lettere erano lettere di un soldato dal fronte, ma c'è un punto che quando lo letto è stato per me uno shock.
Ho amato molto mio nonno, ero la sua nipote preferita e qui ho una foto dove ci sono io a due anni insieme a lui. Si vede come mi prendeva per mano, e questo mi riporta alla poesia di Deborah. Avevo piena fiducia in mio nonno, lo amavo, era il nonno che mi faceva giocare, che mi raccontava le storie, che mi faceva gli scherzi, un nonno da favola. Ancora oggi per me è incredibile concepire che questa persona che verso di me era così amorevole e così presente potesse essere contemporaneamente la persona che ha scritto quello che adesso vi leggerò: "Cara mamma, da ieri io sto qui al fronte e ci stiamo riposando dalle fatiche della settimana scorsa". La mattina del 24 giugno aveva preso parte all'invasione dell'Unione Sovietica e questo l'ho ricostruito attraverso le date delle sue lettere. "Siamo entrati a in una delle maggiori città della Lituania e c'erano poche case ancora in piedi e le altre bruciavano oppure erano rase al suolo. Nella notte le nostre truppe sono entrate e si sono misurate in un corpo a corpo violentissimo con i Russi.
I nostri camerati tedeschi furono sepolti dai tedeschi" E adesso viene la parte più importante: "I Russi furono raccattati da ebrei. Da qui ci siamo avviati verso Schaulen (ndr: oggi Siauliai) che sta a nord ovest, attraverso delle strade molto malridotte. Dei covi di ebrei". Dopodiché la lettera continua descrivendo come si mangia, eccetera.
Di colpo dovevo fare i conti con il fatto che il mio amatissimo nonno parlava di 'covi ebraici'; attraverso delle ricerche storiche che ho fatto, oggi so quello che succedeva in quei paraggi proprio in quei giorni ma a lui non sembra nemmeno degno di essere menzionato nelle sue lettere.
Tra il 22 giugno e il 16 luglio del 1941 tremila ebrei furono massacrati in quella zona.
Potrei anche capire che non avesse più scritto dalla guerra e che per dieci anni non ne parlasse più, ma non ha mai avuto alcun tipo di rimorso. Non credo che abbia sparato in prima persona, probabilmente no, però lui era comunque lì, presente e lo ha ritenuto giusto.
Io e Rosalie a questo punto abbiamo una storia in comune perché la sua famiglia venne internata a Schaulen. Ho la sensazione che siccome mio nonno non è stato mai tormentato in alcun modo da questa storia, tutto il tormento sia ricaduto su di me, come una forma di eredità e che io con esso debba fare qualcosa di sensato. Ed è per questo che sono seduta qui.

Ilona Kuphal
Una cosa che ho omesso di dire prima, e cioè che mio padre era un ufficiale delle SS.

(da "Buone Notizie", anno 2000 n°1)