Rabbi
Don Singer |
Il mio amico Peter Levitt è un poeta. Era venuto a sapere del ritiro
ad Auschwitz. Ma non da me. Non avrei voluto condurre nessuno, allora, in quell'oscurità.
Lui voleva partecipare, ma sua moglie aspettava un bambino che sarebbe nato
proprio quella settimana. Doveva essere un momento di gioia, non di dolore.
Diceva: "Lo sai, c'è da spezzarsi il cuore!". Allora mi sono
ricordato perché stavo andando in quel luogo della Polonia. C'è
un modo di dire yiddish: "Non c'è cuore più intero di un
cuore spezzato. Ma deve essere intero." Così io, Peter, la moglie
Shirley e il piccolo nascituro abbiamo tradotto il Kaddish per tutti i cuori
spezzati. La preghiera del lutto, la preghiera che va "oltre ogni consolazione"
e che termina con parole di pace: Shalom significa interezza e pace.
KADDISH
Possa il Nome
Supremo,
il cui Desiderio ha dato i natali all'universo,
risuonare attraverso la Creazione
adesso.
Possa questa Alta Presenza guidare la tua vita
e il tuo giorno e tutte le vite del nostro Mondo.
Diciamo sì. Amen.
Attraverso ogni
Spazio, Benedici, Benedici questo Nome Supremo,
attraverso ogni tempo.
Sebbene benediciamo,
preghiamo, magnifichiamo,
eleviamo il tuo Nome,
Nome che è Sacro, Benedetto,
tu rimani oltre il raggiungimento della nostra preghiera, del nostro canto,
di ogni consolazione. Al di là dell'al di là!
Diciamo sì. Amen.
Lascia che il
Nome di Dio dia alla luce la Pace Profonda e la Vita
per noi e per tutte le genti.
Diciamo sì. Amen.
Colui che ha
donato un universo di Pace,
ci doni la pace, a noi e a quel Tutto che è Israele.
Diciamo sì. Amen.
In questi anni Roshi Bernard Tetsugen Glassman, o semplicemente Bernie, ha diffuso
il suo operare per le strade d'Europa e d'America. Allestisce ricoveri per i
bisognosi, costruisce alloggi per i senzatetto e ospita madri e bambini malati
di AIDS. Il suo insegnamento interconfessionale si basa sull'intima e indivisibile
generosità che nasce dalla saggezza del cuore. Nel 1996 ha fondato lo
Zen Peacemaker Order e organizzato il ritiro ad Auschwitz-Birkenau "Portare
tesimonianza". Il nostro incontro in quel luogo terribile ha dato vita
a una profonda meditazione guaritiva sulla pace.
E' un lunedì
mattina di fine novembre, il nostro primo giorno intero ad Auschwitz-Birkenau.
Abbiamo appena assistito a un documentario terrificante girato al momento della
'liberazione' del campo. E' un sollievo uscire dalla sala e trovarsi all'aria
aperta. Dopo pranzo andremo a piedi a Birkenau, il più grande campo di
sterminio nazista. Ora seguiamo le guide nei pochi passi che ci separano da
Auschwitz, il meno esteso dei due campi confinanti. Cammino a fianco a Peter,
il nostro fotografo, verso il cancello tristemente famoso, l'arco in ferrobattuto
su cui si legge "Arbeit Macht Frei". Dinnanzi a noi si stagliano le
alte betulle. La neve cade. "E` bellissimo," dico. "Sì,"
dice lui, armeggiando con la macchina fotografica. "Questo è il
problema. Potrei fare un bel servizio, qui. Saprei come farlo, ma non voglio.
Non voglio separazioni."
All'interno degli edifici sono state allestite mostre di oggetti che i deportati,
armati di speranza, si erano portati al seguito per continuare la vita di ogni
giorno: pentolame, giocattoli, spazzole e pettini. C'è anche un' esposizione
di capelli femminili, quelli che i nazisti avevano tagliato alle donne prima
di inviarle alle camere a gas: quintali di capelli di ogni colore, ormai rinsecchiti
come fili di ragnatela. Alle pareti le foto dei primi condannati, prigionieri
politici polacchi. Osservo l'immagine di un uomo terrorizzato. E` tutto occhi.
Non lo dimenticherò.
"E` come la strada dove sono cresciuta," dice una donna tedesca. Solo
che qui ci sono le forche, e c'è il muro delle esecuzioni, dove ora ci
stiamo radunando. Claude Thomas, veterano del Vietnam, ci dice come viene ammazzata
la gente, e grida: "Crack!". Lui ha visto, e lui deve raccontare.
Due alberi oltre il muro svettano verso il cielo, ed è davanti a questo
muro che si svolge la nostra prima cerimonia. Sentiamo di dover fare qualcosa
per esprimere il dolore e la compassione che proviamo. E` così che cominciamo
il nostro viaggio verso l'abisso, verso le tenebre. Ci disponiamo a semicerchio,
immobili, centocinquanta persone i cui volti sono come trasfigurati dalla bellezza
della compassione. Alcuni di noi si avvicinano al muro, si inchinano e posano
una candela, incenso, fiori. Alcuni recitano una poesia o una preghiera. Ognuna
di queste offerte è un eloquente gesto di partecipazione. Ed è
qui che capiamo il senso di quella iniziale immobilità: l'attenzione
e l'affetto per coloro che non ci sono più, sentimenti che tutti noi
proviamo senza alcuno sforzo ogni volta che ci riuniamo in loro memoria. In
quei momenti il tempo non ha misura. E` segno del divino?
Kaddish significa appunto divino, santo. Rabbi Ed legge il Kaddish originale
in ebraico aramaico, io leggo la nostra versione inglese, Heinz la traduzione
tedesca. Una donna francese si fa avanti. E` ebrea e ha tradotto il Kaddish
in francese. Le tremano le mani mentre legge, ma la voce è forte e chiara.
I polacchi e gli italiani non hanno ancora finito la loro versione della nostra
traduzione. Ero seduto vicino a Hanz mentre traduceva. "In tedesco questo
non si può dire," ha osservato. E io gli ho risposto, un po' scherzando:
"Neanche in inglese si può dire. '...quel Tutto che è Israele".
E` l'universale. Tutto è Israele, anche te." "Ma", ha
insistito, "in tedesco si usa la maiuscola in modo diverso". Poi ha
scritto: "alles, das heist Israel" ("Tutto, questo è quel
che significa Israele"). Alla fine del nostro Kaddish, Bryan suona il Shofar.
E` il momento dell'espiazione.
Siamo nel 1944, a tre anni dall'inizio del programma di sterminio. In vista
dell'arrivo di un convoglio di 350.000 ebrei ungheresi., un binario ferroviario
viene prolungato dal centro del campo di Birkenau fino ai due grandi crematori
dove da altissime ciminiere il fumo esce incessante. "Che cos'è
quel fumo?" chiede un nuovo arrivato a uno che gli sta accanto. "Quel
fumo siamo noi," è la risposta.
Il rituale delle nostre giornate comincia dopo la prima colazione e i due chilometri
a piedi da Auschwitz a Birkenau. Andiamo a prendere i nostri cuscini per la
meditazione in un magazzino all'ingresso del campo, e ci incamminiamo lungo
i binari. Lasciamo il nostro equipaggiamento nel punto dove svolgeremo la seduta,
continuiamo a camminare fino alla fine della strada ferrata e ci distribuiamo
in quattro gruppi di religione diversa nel piazzale monumentale ricavato in
mezzo alle rovine dei forni crematori. C'è solo da scegliere: funzione
ebraica, cristiana, musulmana o buddhista. Il mio collega, il rabbino Ed, ha
portato con sè da Los Angeles una piccola Torà. La lettura della
settimana è l'episodio della grande sfida di Giacobbe, quello che i cristiani
chiamano l'oscura notte dell'anima. E` notte e Giacobbe è solo. Improvvisamente
si ritrova a lottare nel buio con qualcosa che non ha nome, un uomo, un angelo,
l'ignoto. "Lasciami andare!" dice l'essere sconosciuto, ma Giacobbe
lo tiene stretto ed esclama: "Non ti lascerò finché non mi
avrai benedetto!".
Suor Anna e Suor Maria guidano una funzione cantata e voci bellissime intonano
un inno sacro. Imam Sadik conduce i canti Sufi d'amore, mentre i fedeli a occhi
socchiusi ondeggiano il capo a destra e a sinistra seguendo il ritmo. Dalla
parte opposta del piazzale sento i canti buddisti: "...karma stravolto".
Roshi ha aggiunto stravolto alla liturgia. Guardiamoci intorno... questo luogo
è davvero stravolto. Vicino a me Arnie legge una poesia scritta da un
uomo morto nel campo di concentramento di Lodz: "Dio, cambia!"
Alcuni seguono una diversa funzione religiosa ogni giorno, perché ognuna
delle nostre funzioni è rivolta a tutti. Eppure ogni universo ha la sua
propria lingua e questa va tradotta di volta in volta nel cuore, per se stessi
e per gli altri, come nel caso del Kaddish che ora noi tutti condividiamo. Ognuno
porta con sè la consapevolezza del proprio gruppo e della propria nazionalità.
Ognuno di noi rappresenta la coscienza di un popolo e di una religione. Ognuno
di noi è l'universo del bene e del male. E in questo luogo avvertiamo
che l'indifferenza è sinonimo del male. In questo scenario del male assoluto,
la bontà diventa non più una scelta ma un imperativo. Vi sono
molti episodi commoventi che ci ricordano quanto siano complessi i nostri punti
di vista e quanto ci si senta attratti l'uno all'altro. Un giorno Ken partecipa
alla funzione cristiana. "Sei ebreo?" chiede una delle sorelle. "Sì",
risponde lui, mentre a lei si riempiono gli occhi di lacrime. Una donna rimane
un po' in disparte durante la nostra funzione ebraica. E` tedesca. "Unisciti
a noi!" le diciamo. "Siete sicuri che vada bene?" chiede con
aria preoccupata.
Stiamo seduti lungo i binari dove venivano scaricati i prigionieri. Lo Shofar
suona per indicare l'inizio della seduta. C'è sempre qualcuno che da
uno dei quattro punti del cerchio recita i nomi di chi è salito in cielo
attraverso il fumo. Sento l'ultimo nome ripetuto: "Angel... Angel... Angel".
A volte rimango in ascolto aspettando il mio nome. Ognuno di noi a turno legge
i nomi della lista. Accanto a ogni nome c'è il luogo di nascita, l'anno
di nascita, l'anno di morte. Se ci si ferma a pensare, si può immaginare
una vita intera. Ma i nomi sono talmente tanti, e ognuno di essi deve essere
udito. E noi dobbiamo chiamarli tutti.
La mattina e il pomeriggio, quando il suono dello Shofar indica la fine di ogni
seduta, conduciamo il gruppo alle rovine dei crematori e scegliamo un posto
per recitare il Kaddish. Il primo giorno ci riuniamo intorno a un piccolo stagno
a pochi passi dai forni. La polvere e le ceneri della gente sono qui sepolte.
Al centro di questo terreno di polvere e cenere, la terra si è ritirata
e si è formato lo stagno. Ora un polacco fa un passo avanti e con tutto
il cuore recita il Kaddish nella sua bellissima lingua. Chi conosce il karma
dei polacchi e degli ebrei, saprà quanto ha significato questo momento
per alcuni di noi. Qualche giorno dopo, gli italiani recitano il loro Kaddish.
Lo recitano tutti insieme, quasi cantano. E il loro fervore ci incoraggia a
condividere la certezza espressa dal Kaddish che la Pace verrà.
E` giovedì. Recitiamo l'ultimo Kaddish del ritiro nello spogliatoio di
uno dei crematori. La stanza, lunga e stretta, era stata costruita sotto il
livello del suolo. I prigionieri passavano da una piccola entrata e scendevano
lungo gradini larghi poco più di un metro. Per motivi di praticità
i gradini erano bassi per agevolare la discesa di bambini, anziani e dei più
deboli. Quando le SS fecero saltare la costruzione, il soffitto era crollò
lasciando però intatte le mura del locale sotterraneo. Quel che le SS
intendevano occultare è lì a cielo aperto. Ci disponiamo intorno
ai lati della stanza e guardiamo in basso, all'interno del locale.
Dopo il Kaddish rimango in piedi al mio posto. Gli altri scendono le scale per
sentirsi più vicini, più partecipi. Fanno i gradini a tentoni,
piano piano, come se fossero su una terra sacra, come se chiedessero: "Va
bene essere qui?". Si sfiorano le mani e si ritrovano lì dove infinite
anime si sono spogliate e hanno sostato davanti alle tenebre. Quel buio per
noi è diventato luce: la luminosità del buio. Sentiamo su di noi
una benedizione, che tuttavia non viene dalla consolazione. Le pietre e gli
spigoli ben costruiti delle mura di cemento sembra che parlino ai nostri occhi,
per ricordare ciò che non va dimenticato. Aspetto alla sommità
della scala in attesa che Bernie salga. Devo guardare il mio amico negli occhi.
A lui devo dire: "...oltre ogni consolazione. Oltre la consolazione. Al
di là dell'al di là!"
Alle riunioni della sera i partecipanti liberavano il cuore colmo. C'erano i
figli dei sopravvissuti, i figli della Wehrmacht e delle SS, e i polacchi dimenticati
per i quali gli ebrei provavano una straordinaria affinità. Gli omosessuali
distribuivano triangoli rosa, segno che anche loro erano stati condannati dai
nazisti. Cantavamo, una volta abbiamo perfino danzato mano nella mano, anche
se non tutti. Ma non era intrattenimento: sentivamo di doverlo fare.
La sera tardi si svolge un rituale. Bryan , il suonatore dello Shofar, ha trovato
un percorso per introdursi ad Auschwitz. Ogni notte alcuni di noi lo seguono
attraverso il filo spinato. Camminiamo lungo la strada fino a raggiungere il
muro delle esecuzioni, e lì lui suona lo Shofar. E` stato detto che "lo
Shofar è un suono semplice che nasce dal respiro del cuore ed è
più forte della ragione."
Una sera, nel nostro dormitorio, mi capita di sentire Bernie ricordare a qualcuno
che nel linguaggio Zen il simbolo dell'illuminazione è una luna velata.
Più tardi quella stessa sera accompagno Bryan nel suo giro notturno al
muro di Auschwitz. Chiunque fosse stato presente avrebbe capito. E` una notte
nuvolosa. Contro il muro vediamo le luci tremolanti delle candele votive dentro
i loro contenitori di vetro colorato. Una donna israeliana, che aveva cantato
una canzone di zingari sulle rovine, sta suonando un flauto di legno. Un uomo
e una donna del nostro gruppo si avvicinano tenendosi per mano. Al disopra del
muro due alberi fanno da cornice alla luna velata.
A Los Angeles un amico e collega mi aveva chiesto con gli occhi pieni di lacrime:
"Come si può pregare ad Auschwitz?". Ora lo so, ma prima del
ritiro non avrei mai potuto saperlo. Se pregare è qualcosa che viene
dal profondo, allora noi eravamo preghiera, perchè vivevamo nel profondo.
Ed è come se dividessimo una misteriosa saggezza. Ascoltavamo quel luogo.
Abitavamo quel luogo. E in quel luogo, senza per un solo istante dimenticare
la sofferenza, c'era la gioia. A volte qualcuno dava voce a considerazioni profonde
pronunciando sacre scritture senza citarle. A volte dicevamo cose strane, come:
"Come posso lasciare questo luogo?"
Don Singer è un rabbino riformato e maestro di ebraismo contemplativo.
Fa parte del Movimento Ebraico per la Pace ed è un autorevole interprete
dell'incontro tra saggezza ebraica e buddhismo . E' anche insegnante Zen (Sensei),
titolo trasmessogli da Roshi Glassman. E' autore della prefazione all'edizione
italiana curata dalla Rete di Indra del libro di Ka-tztnik 135633 SHIVITI,
pubblicato dalla casa editrice Sensibili alle foglie.
Traduzione
dall'inglese di Laura Bisogniero
(da un opuscolo della Rete di Indra, Roma 1997)