Ventotene: lungo il sentiero della reclusione

L'isola di Ventotene, e ancor più quella di S. Stefano, dal 29 al 31 maggio 1998 hanno ospitato un eterogeneo gruppo di amici spinti a riunirsi in quei luoghi di reclusione da motivazioni diverse, ma comunque desiderosi di esplorare gli effetti e le risposte possibili alla reclusione, nell'istituzione totale e nella forme che può assumere nella vita quotidiana.
L'isola di S. Stefano è disabitata e non vi sorge altro che la struttura dell'ex ergastolo e proprio lì abbiamo trascorso parte della giornata, alternando momenti di silenzio a momenti di discussione, cercando ognuno di toccare la sua storia di recluso e di reclusore, anche di se stesso. Prima di lasciare il cortile infocato dove per oltre due secoli i detenuti prendevano l'aria e dove si è svolto il nostro incontro, abbiamo praticato le 5 prosternazioni insegnate da Thich Nhat Hanh, toccando la Terra, in un gesto di profonda riconciliazione.
Avremmo voluto pubblicare alcune delle cose dette quel giorno, ma il vento non ha lasciato traccia delle nostre parole sul piccolo registratore che avevamo portato, quasi una metafora...
Fili invisibili, ma solidi e palpapibi uniscono le esperienze degli uomini a prima vista diversi, più o meno privilegiati, più o meno liberi. E quando ci si apre il risultato non può che essere una maggiore ricchezza e nuovi spunti per ulteriori passi.
La sera dopo cena c'è stato un ultimo momento di discussione collettiva a proposito del ciclo di incontri promossi dal Cipax sul tema della riconciliazione, ma di questo parliamo in altra parte del giornale.
Di grande interesse anche la visita alle altre strutture reclusive dell'isola, in particolare all'ex cisterna romana che venne utilizzata alla fine del '700 per rinchiudervi i forzati che dovevano costruire l'ergastolo sull'antistante isoletta di S. Stefano. Qui, a differenza dell'ex ergastolo, sono ancora visibili tracce e disegni dei prigionieri.
Un sogno: riuscire a fermare il degrado che sta distruggendo l'ex ergastolo - una struttura unica nel suo genere e relativamente ancora ben conservata - e adibirlo a museo e archivio sulla reclusione ricavando anche uno spazio per chi volesse, proprio lì, nel silenzio, andare incontro al suo 'recluso' e al suo 'reclusore'.




Ergastolo di S. Stefano, 30 maggio 1998
di Nicola Valentino

"... Non si può dire che tumulto di affetti sente il condannato prima di entrarvi: con che ansia dolorosa si sofferma a guardare i campi, il verde, le erbe e tutto il mare, e tutto il cielo e la natura che non dovrà più rivedere; con che frequenza respira e beve per l'ultima volta quell'aria pura ..."
L. Settembrini

Jeremy Bentham (filosofo e giurista inglese) nel 1786 caldeggiò in una specifica opera la realizzazione di un Panopticon: stabilimento per custodire i prigionieri con maggior sicurezza e per operare nello stesso tempo la loro "riforma morale" ottenendo il dominio della mente sopra un'altra mente. Ma circa dieci anni prima che Bentham formalizzasse questa sua proposta, per volontà dei Borboni l'architetto Carpi costruiva l'ergastolo di S. Stefano con celle disposte a ferro di cavallo, in modo che da ogni punto gli ergastolani potessero essere controllati. Questo controllo era possibile anche grazie al particolare gioco di luce, che filtrando dalla finestra a bocca di lupo posta alle loro spalle, li mettesse sempre in controluce. Al centro della struttura era posta una cappella esagonale definita "l'occhio di Dio che tutto vede".
I primi 200 reclusi arrivarono all'ergastolo di S. Stefano nel 1795. Questo edificio può essere definito il primo vero carcere costruito sul nostro territorio se si considera che in precedenza venivano riadattate a carcere le vecchie caserme o i conventi.
La possibilità di un controllo visivo permanente, dispositivo tuttora operante anche con l'ausilio dell'occhio elettronico, genera nel recluso una forma di interiorizzazione del controllo, si produce così una torsione dissociativa: ogni recluso diventa insieme carceriere di se stesso e carcerato.

Ventotene. Grotta dei carcerati. Sulla parete ancora si legge una scritta:
"Condannato a vita dal Borbone 7 - 3 - 1731"

Il recluso condannato a una pena temporale può scrivere sul muro della cella sia la data di inizio che di fine della pena. Può dire: "Quel giorno, qualunque cosa accada sarò libero". Per noi ergastolani è diverso. Come i vecchi ergastolani speravano nella grazia noi speriamo nella liberazione condizionale, trascorsi 26 anni di reclusione. Ma la libertà condizionale non è automatica, non è un diritto, è una concessione, una possibilità la cui attuazione dipende dalla discrezionalità dell'autorità giudiziaria. Noi ergastolani viviamo con la consapevolezza di non poter MAI decidere della nostra vita, dal momento che essa è, per sempre, nelle mani di un giudice. Siamo in rapporto con l'autorità proprio come gli schiavi.

"A chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa quanto la morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù lo sarà forse ancora di più, ma questi sono estesi sopra tutta la vita, e quella esercita tutta la sua forza in un momento, ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa più chi la vede che chi la soffre" C. Beccaria

Se con la pena di morte lo Stato toglie la vita a una persona, con l'ergastolo se la prende.

"Tre anni sono per me un giorno solo, e brevissimo e lunghissimo. Mi rivolgo con la mente a contemplare questo tempo non distinto da avvenimenti e mi pare breve: un giorno non è dissimile all'altro; si vede sempre lo stesso. Qui il tempo è come un mare senza sponde, senza sole, senza luna, senza stelle, immenso ed uno."
L. Settembrini

Il tempo di un condannato a pena definita viene gestito dall'autorità carceraria e giudiziaria solo per la parentesi della condanna. Il tempo dell'ergastolano invece sarà gestito dall'istituzione per tutta la vita.
Viene da chiedersi quale percezione del tempo sviluppi la persona all'ergastolo per non morire.
"C'è tra noi un vecchietto di sessantadue anni, arzillo e allegro, il signor Michele Alletta di S. Giacomo in provincia di Salerno, il quale da che venne all'ergastolo quattro anni fa ha detto e dice sempre, che egli sta qui provvisoriamente, che uscirà nel mese corrente.
- Io voglio uscire, debbo uscire, ed uscirò.
- Non usciremo, don Michele.
- Ed io vi dico che usciremo.
- Usciremo morti.
- No, dimani, oggi, più tardi può venire un vapore a prenderci. Il mondo cangia ogni momento.
Con questa accesa speranza che in lui non viene mai meno, anzi più contrastata più cresce: sicché egli non pensa ma spera.
Che disgrazia è pensare!" L. Settembrini

Il delitto è stato atroce. In un paese d'Italia un uomo violenta e poi uccide una bambina che era anche sua nipote.
Indagini: i primi sospetti e poi la certezza delle prove. Una notizia che appare sui giornali - un delitto già accaduto altre volte e non per questo meno mostruoso.
Passa un po' di tempo e l'assassino viene condannato all'ergastolo.
Passa ancora qualche giorno e i giornali raccontano che nel paese dove è accaduto il delitto c'è stata una festa proprio per celebrare l'ergastolo. La popolazione è uscita per le strade, ha brindato nei bar e nelle case.
Un festeggiamento catartico per quella comunità, che si è liberata per sempre del "mostro", rinchiudendolo a vita.

Mostro: creatura che ha qualcosa di inumano, di innaturale, che suscita orrore. E' talmente disumano il mostro, che l'origine latina della parola rimanda al divino.
Tutte le nominazioni che mostrificano, attribuendo alle persone responsabili di un reato i tratti stereotipi d'estraneità alla specie, favoriscono l'atmosfera culturale per sanzionare l'ergastolo.
Viene in mente l'operazione che originariamente nelle società schiaviste si compiva per ridurre in schiavitù i prigionieri di guerra, i quali venivano in primo luogo degradati al pari delle cose o degli animali, e quindi resi estranei al genere umano.
Ottocentosettantacinque sono le persone attualmente all'ergastolo in Italia. In quattro anni sono quasi raddoppiate.


Per favore chiamatemi con i miei veri nomi
. . .
Io sono una bambina dodicenne profuga su una barca,
che si getta in mare dopo essere stata violentata da un pirata.
Ed io sono il pirata, il mio cuore ancora incapace di vedere e di amare.
Io sono un membro del politburo, con tanto potere a disposizione.
Ed io sono l'uomo che deve pagare il debito di sangue alla sua gente
morendo lentamente in un campo di lavori forzati.
. . .
Per favore chiamatemi con i miei veri nomi, cosicché io possa udire tutti i miei pianti e tutte le mie risa insieme.
. . .
Thich Nhat Hanh


Davanti e dietro le sbarre
di Federica Facioni

"E se lo avessero fatto a te?" questa era la domanda che mia madre mi rivolgeva, quando da bambina facevo del male a una bambina o a un bambino, rapidamente allora mi immaginavo nei panni della mia 'vittima' e pensavo e ripensavo come potesse stare, come poteva sentirsi.
Negli anni, questo modo di pensare mi ha accompagnato e di fronte all'emarginazione, al razzismo, riproponevo a me stessa lo stesso identico meccanismo di immedesimazione nei panni della vittima. Così mi sono vista zingara sempre accusata di furto, cittadina del Marocco, alcoolista, deportata nei campi di concentramento, violentata durante la guerra in Jugoslavia.
Quando sono entrata nell'Ergastolo di Santo Stefano ho pensato subito ad una me carcerata e mi sono vista dietro a una porta o legata a un letto di contenzione. Poi tra tante porte, spioncini, serrature, in un mondo di cemento armato, mi è stato fatto notare un particolare che mi era sfuggito: le persone detenute non avevano la possibilità di gestire l'accensione della luce nelle celle poiché l'interruttore era fuori.
A quel punto è stato facile per me immaginare una me che non poteva leggere la sera perché qualcuno spegneva la luce o che per vedere in inverno la mattina presto doveva chiamare la guardia e aspettare che accendesse la luce.
Però per una volta ho voluto fare anche un altro gioco: mi sono voluta immedesimare anche col carceriere che chiude e che lega ed ho visto una me che quella luce la spegneva a proprio piacimento ad altri, una Federica non carcerata, ma carceriera.
Erano così diverse da noi le guardie che lavoravano all'Ergastolo? E davvero non ho niente a che vedere con le SS naziste? Ho conosciuto un ragazzo jugoslavo che mi raccontava che fino a poco prima della guerra lui non avrebbe mai immaginato quello che è poi successo, segno che dentro di noi, dentro ognuno di noi può esserci una persona pronta alla guerra.
Cercando nella mia vita ho trovato la Federica carceriera che ha giudicato e condannato e non una sola volta e a Santo Stefano ho provato a elencarle.
Ciò che sto imparando è questo: ogni volta che 'chiudo' una persona quindi non le permetto di venire a casa mia, non la invito, la evito, io, Federica, perdo una possibilità di incontro umano e quindi perdo una possibilità di comprendere modelli interpretativi più complessi del mondo che mi circonda, e quindi perdo una possibilità di diventare più libera.



A margine dell'esperienza di Ventotene
di Giorgio Piacentini

Le emozioni suscitate dall'esperienza sono state forti, qualcuno ha parlato di tempesta emotiva, allora le parole escono così come le leggete, smozzicate, con molto rumore di fondo.
Nell'ergastolo di S. Stefano di Ventotene le scritte di sangue sui muri, gli strumenti di tortura ancora si mostrano in modo doloroso e osceno e svelano l'aspetto oscuro e violento dell'umanità.
Ma anche il panottico illuminista, la costruzione tutta pensata per rinchiudere, sorvegliare e punire (da una torretta centrale si vedevano tutte le 99 celle su tre ordini danteschi e i carcerati come ombre tra le grate anteriori e posteriori, perché il filosofo inventore pensava che essere sempre osservati facilitasse la riforma morale), si sta disfacendo, sbriciolando. Forse così segnala che un'epoca sta passando.
Ma il percorso ha delle tappe inevitabili, noi lo abbiamo tentato sotto il sole a picco, con le parole cancellate dal vento: il ricordo dei fatti e degli atti, dargli il nome vero e, soprattutto, comprenderne le ragioni.
Recuperata così la memoria sorge la domanda: "qualsiasi cosa uno abbia fatto, è lecito espellerlo dalla comunità umana, farne un mostro?" Poi, compreso il modello di società, di ragionamento che stava e sta dietro a quel decreto di espulsione e di schiavitù, compresa la corresponsabilità di tutti nel permanere di questo modello, forse è possibile ascoltare e accogliere la verità, forse è possibile pensare qualche cosa di nuovo.
E l'altro amico, non capito e non amato e perciò espulso, rinchiuso nell'istituzione psichiatrica, accusato di non saper parlare, racconta con un linguaggio perfetto, senza accusare nessuno, una storia da brivido, cinquanta anni di vita. Il senso di essere anche qui corresponsabili si confonde con il desiderio di abbracciarlo.
Poi, tornati a casa, ricordare queste cose nei nostri luoghi, nella famiglia, nella comunità di lavoro, nell'associazione, nella chiesa, scuote le persone. Aprono gli occhi su una realtà dimenticata, rimossa e ti fanno tante domande. Tutti facciamo un piccolo passo avanti.

(da "Buone Notizie", anno 1998 n°2)