MOTIVAZIONI PSICOLOGICHE NELL'ASSISTENZA AI MALATI TERMINALI

Intervento del prof. Franco Michelini Tocci in occasione della presentazione del libro di S. Levine "Chi muore?" (Mestre giugno 1998)




Per tentare di capire le motivazioni che spingono noi esseri mortali ad occuparci dell'assistenza ai malati terminali, possiamo provare a dividerle in due categorie principali.
La prima comprende coloro che di fronte a questo problema si sentono pronti, dicendo che si tratta di qualcosa di importante, che assolutamente va fatto, e che sono disposti a offrire il loro volontariato. C'è poi un secondo gruppo di persone che rappresenta un po' l'atteggiamento contrario, cioè quello di dire che si tratta di una cosa
difficile di fronte alla quale ci si sente inadeguati.
Si potrebbe poi pensare a un terzo gruppo di persone, apparentemente estranee al problema, le quali, a differenza delle altre, dicono che si tratta di un argomento al quale è meglio non pensare perché troppo triste e deprimente.
Questi tre atteggiamenti sono tutti molto umani e io li ho distinti per motivi di chiarezza, perché spesso, come sempre succede nelle cose che ci riguardano, sono intrecciati tra loro.
Ciascuno di noi può sentirsi a volte partecipe dell'una o dell'altra di queste modalità di reagire di fronte al problema della morte.

1) Torniamo al primo atteggiamento, che è quello di chi si sente pronto. Sarà bene fare alcune considerazioni sulle motivazioni psicologiche e quello che dirò, forse, non sarà molto piacevole perché riguarda strati molto profondi, e quindi poco conosciuti, della psiche'; è qualcosa di cui non parla esplicitamente nemmeno Levine nel suo libro, mi sembra. Diciamo che un contributo alla comprensione delle motivazioni profonde può venire, per esempio, dalla psicoanalisi che a volte ci può aiutare a capire meglio certi aspetti non immediatamente visibili dei nostri atteggiamenti.
Freud diceva che di fronte alla morte noi abbiamo un atteggiamento che non è sempre chiaro: una distinzione molto ovvia è quella che si può fare tra la morte delle persone care e la morte di persone che non hanno invece relazioni particolari con noi. Nel primo caso è una tragedia che molti non sono in grado di tollerare mentre nell'altro caso, viceversa, quando si tratta della morte di persone che ci sono indifferenti, molto spesso il nostro atteggiamento è di una sostanziale scarsità di interesse. Direi che in molti casi si ha una specie di tranquilla accettazione del fatto
che tra le varie cose che possono capitare agli altri c'è anche la morte.
Nel linguaggio corrente addirittura capita a tutti noi di usare espressioni
che auspicano la morte delle persone che in quel momento ci possono dare fastidio, come nel banale caso in cui diciamo "Accidenti a te..." o simili; quando poi succede che le persone sono nostre nemiche, allora il desiderio della loro morte è esplicito, spesso ne siamo perfettamente coscienti. Questa è già una prima distinzione nell'atteggiamento che noi abbiamo sulla morte altrui. Ma c'è di più. Forse una delle più grandi scoperte di Freud fu quella dell'ambivalenza dei sentimenti umani, per cui anche nel caso della morte delle persone care - e questo è un po' più duro da sopportare - noi possiamo provare sentimenti piu' complessi di quanto siamo disposti ad ammettere a noi stessi.
Coscientemente possiamo essere disperati, ma ci può essere una parte inconscia, una parte remota della nostra personalità che non è altrettanto disperata per la morte della persona cara. Ora questo è molto importante rispetto alle nostre motivazioni.
Molte attività di tipo assistenziale sono spesso una compensazione alla percezione della nostra aggressività inconscia che può determinare un forte senso di colpa. E le attività assistenziali possono nascere dal bisogno di sedare il senso di colpa, come avviene, in particolare, in tutte le personalita' a sfondo depressivo. Ma questo significa che, poiché le nostre motivazioni sono spesso inquinate dalle inclinazioni nevrotiche, non dobbiamo occuparci di malati terminali?
Evidentemente no; però significa che lo faremo meglio se consapevoli di quelle che possono essere anche le motivazioni meno belle, meno pure, meno chiare che pure albergano nella profondità nascosta della nostra psiche.
La meditazione permette molto spesso anche la consapevolezza delle proprie motivazioni e, allora, l'atteggiamento diventa più umile: siamo cioè consapevoli di non essere degli eroi che portano la parola giusta al capezzale del morente, ecc., ma siamo dei semplici uomini con una sensibilità molto spesso inquinata da tanti condizionamenti, che facciamo soltanto cio' che riusciamo a fare e non di piu'. Non ciò che è perfetto, ma ciò che è possibile, o necessario, con un atteggiamento di umiltà che è tanto più forte quanto più siamo consapevoli delle motivazioni reali.
Queste considerazioni ci introducono subito a parlare della seconda
categoria, ossia di coloro che si sentono esitanti.

2) Questo è un atteggiamento più appropriato perché parte da una base di maggiore umiltà. Uno non si sente un eroe che sta compiendo un'operazione che gli altri non hanno il coraggio di fare, ma sente la sua inadeguatezza davanti a un compito così grande, così solenne come la morte. La persona si sente in dubbio e quando il dubbio prende la forma di cui parlavo prima, ossia del dire di non avere paura della morte ma della sofferenza, allora mette in risalto un aspetto su cui secondo me è molto importante riflettere, che è quello dell'identificazione. Forse è il rischio più grave che si può correre in tutte le professioni di aiuto, ma in particolare in questa dell'assistenza ai moribondi.
L'identificazione è qualcosa che ci rende apparentemente sensibili ed emozionati, ma non tanto per la sofferenza oggettiva che prova la persona che è davanti a noi, quanto invece perché ci sentiamo nei panni di quella persona. Ho paura perché potrebbe capitare anche a me. Anzi capiterà certamente anche a me. E poiche' non riesco a tollerare l'idea che possa capitare anche a me, cerco di esorcizzare questa paura dandomi da fare per l'altro, come se in realta' fossi io stesso al suo posto, con la segreta speranza che, quando saro' nelle stesse condizioni, una infallibile giustizia distributiva assegni anche a me qualcuno che sia capace di aiutarmi.
In realta', dunque, non riesco a tollerare l'idea che anche io mi possa trovare in questa situazione. Si tratta di una forma molto diffusa, molto umana di avvicinarsi alla sofferenza ma, dobbiamo ammettere, anche un po' primitiva. Prima o poi abbiamo provato tutti questo tipo di identificazione; spesso lo giustifichiamo dicendo: "Ah, io mi emoziono moltissimo, sono una persona sensibile". Si tratta, invece, spesso di un abbaglio perché in questi casi non c'è sensibilità verso la sofferenza dell'altro, quanto piuttosto una particolare paura per la nostra possibile sofferenza.
Dobbiamo dunque presupporre un lavoro di maturazione che dovrebbe portare dall'emotività selvaggia, chiamiamo così questa basata sull'identificazione, verso uno sviluppo del sentimento, nel senso inglese
di feeling cioè di sensibilità, ossia una funzione psichica di conoscenza.
Non è più soltanto un sentirsi impauriti e credere per questo di covibrare con l'altro, quanto piuttosto educare la propria sensibilità a percepire, ad ascoltare il bisogno dell'altro.
Molti psicologi giustamente dicono che lo sviluppo di questa capacità è la
base della maturazione psicologica in tutti i campi; io credo che sia importante in genere nelle professioni che si occupano dei malati. Per esempio, quando il malato non ha più la capacità di esprimersi verbalmente, e' essenziale avere la sensibilità e l'intuito per capire quelli che sono i suoi bisogni in quel dato momento, anche se non espressi, evitando cosi' di proiettare i nostri, con l'effetto di risultare, come spesso e' stato osservato, invasivi e inopportuni. Questa è la vera assistenza, basata sullo sviluppo e la maturazione del sentimento e non semplicemente sullo scatenamento dell'emozione selvaggia, identificatoria, che non serve a molto e che fa dire - giustamente - alle persone di questa seconda categoria: "Non me la sento, perché ho paura della sofferenza". Avendo paura per sé, non sono in grado di sentire qual'è il bisogno dell'altro.

3) Infine c'è una terza categoria, costituita da coloro che dicono che è meglio non occuparsi di queste cose, che è meglio non pensarci. In base a questa mentalità molto diffusa la morte viene ritenuta un fatto eccezionale, che si verifica a un certo punto della vita ma che è estraneo alla vita stessa.
Freud, invece, ci insegna, con la seconda teoria delle pulsioni, che in realtà ci sono due istinti fondamentali: l'amore e la morte. Dunque la morte è un istinto che muove tutto il nostro essere non meno dell'amore. La morte come estinzione è una cosa naturale alla quale il nostro essere, anche se non se ne accorge consapevolmente, pensa nel corso di tutta la vita; si prepara a questo. Ma da che cosa lo deduciamo? Perché - dice giustamente Freud - tutte le forme di aspirazione al riposo, alla quiete finale, per esempio anche negli stati mistici, il riposare in Dio, la pace interiore, sono modalita' in cui esprimiamo il nostro desiderio di pace originaria, della vita pre-organica in cui c'è zero di energia vitale e quindi la pace assoluta.
L'uomo ha l'istinto di ritornare alla quiete primordiale e questo è l'istinto di morte che molti, poi, travisano vedendone solo l'aspetto aggressivo. La pulsione di morte è invece una cosa sacra, piena di solennità e importanza e ce la portiamo dietro per tutta la vita. Allora, come diranno dopo Freud alcuni psicologi, non solo la vita mistica - il riposo in Dio, l'unità con Dio - deriva dalla pulsione di morte, ma anche tutte le forme di ritiro dal mondo, di ritorno a se stessi, di andare verso
l'essenziale, verso l'interiorità.
Ne consegue che la vita e la morte, l'amore e la morte, sono due stati continuamente intrecciati e non si può pensare all'uno senza pensare anche all'altro. Può sembrare un'affermazione retorica, ma ci sono, oltre a quanto esiste nella letteratura sulla connessione tra l'amore e la morte, delle considerazioni pratiche che ci permettono di vedere come esse siano effettivamente intrecciate.
E Drewermann osserva giustamente che solo chi ha fatto l'esperienza dell'amore e' in grado di sopportare la morte. Amando, egli ha sentito che la persona amata viene dall'eternita' e va verso l'eternita', superando cosi' l'idea della morte come semplice cessazione. La conclusione e' che si dovrebbe richiedere, come prova di idoneita' a tutti coloro che vogliono assistere i morenti, se hanno amato almeno una volta nella vita.
Pochi giorni fa, nel gruppo di meditazione di cui faccio parte, una meditante ha letto una pagina bellissima dal libro di De Mello Chiamati all'amore, in cui vengono commentati dei passi del Vangelo in modo più profondo e intelligente di quanto non capiti normalmente nelle chiese. A un certo punto De Mello commenta il passo del Vangelo in cui Gesù dice: "Chi terrà da conto la sua vita la perderà e chi avrà perduto la sua vita, la troverà". La sua vita o la sua anima. De Mello commenta dicendo che questa frase di Gesù, una frase impressionante, allude a un fatto molto preciso e cioè che chi ha paura della morte e la esclude dal suo orizzonte esistenziale, in realtà ha paura della vita. Come si può dimostrare questa che sembra un'affermazione assurda? De Mello fa un
esempio molto efficace: è un po' come uno che sta in una soffitta, tra le cose che conosce, ben protetto perché sa che lì nessuno lo raggiunge. Non
ha disturbi, nessuno lo verrà a trovare; non esce perché ha paura delle scale ripide dove potrebbe inciampare e allora resta chiuso nella sua soffitta dove ha certamente dei vantaggi perché sta fra le cose conosciute, tra le sue abitudini ben note. In realtà però vive in quel buco
e non affronta la pienezza della vita.
Krishnamurti fa degli esempi simili: noi tutti - dice - preferiamo vivere in una pozzanghera piuttosto che nel grande fiume della vita perché la pozzanghera la conosciamo, non ci sono pericoli, non ci sono pesci o serpenti che possano minacciarci. Però la vita consiste nel nuotare nel fiume, non nel restare nella pozzanghera. Soltanto se si ha il coraggio di affrontare l'ignoto, allora la vita sarà vissuta pienamente. Ma l'ignoto è la morte; quindi, soltanto tenendo continuamente presente che esiste una continua possibilità di morire, in tutte le forme possibili, abbandonando il conosciuto, passando dal conosciuto allo sconosciuto, vivremo pienamente. Passare dall'abitudine alla novità non è soltanto vivere, ma è conoscenza, è liberazione. Krishnamurti ha insistito molto su questo: la liberazione, l'illuminazione, la pace che tutti gli uomini cercano è la libertà dal conosciuto. E la libertà dal conosciuto significa affrontare quell'ignoto assoluto che sono la morte e l'amore. Né l'amore né la morte hanno a che fare con le abitudini e rappresentano insieme l'essenza della vita. Quindi, si potrebbe dire per concludere, chi sfugge la morte sfugge anche la vita.

(da "Buone Notizie", anno 1999 n°1)