La violenza e la guerra non sono mai la soluzione del conflitto |
Intervista a Radio Cooperativa di Padova di Don Albino Bizzotto dei "Beati i costruttori di pace" con Claude Anshin Thomas |
Puoi iniziare
parlandoci un po' della tua esperienza?
Vorrei iniziare da un punto basilare: la violenza e la guerra non sono mai la
soluzione del conflitto. Sono giunto a questa consapevolezza non per caso: come
sapete sono stato soldato in Vietnam, sono partito nel 1967, a diciassette anni,
e allora credevo totalmente in quello che stavo facendo. Non avevo dubbi. Ero
convinto che, come forza alleata - noi soldati americani, australiani, thailandesi
e altri - stessimo facendo la cosa giusta.
Ciò che ho imparato dalla mia pratica spirituale, e spero che mi capiate
quando parlo di buddhismo zen senza perderci nel dogma delle tradizioni, ciò
che ho scoperto è la santità della vita.
Sono cresciuto nella tradizione cristiana e anche lì c'era lo stesso
concetto; eppure quando si arriva all'ideologia, all'ideologia della democrazia
come viene applicata negli Stati Uniti, sento che la santità della vita
perde il suo valore. Sono stato educato con il concetto che uccidere è
sbagliato, ma fin dall'inizio della vita sono stato condizionato a uccidere:
attraverso attività sportive come la caccia o nelle altre discipline
in cui venivo condizionato a giocare al fine di sconfiggere il nemico. A me
è stato insegnato di non uccidere, tranne nel caso che sia il governo
a chiedertelo; era un paradosso che per me era difficile assimilare.
Che cosa ti
ha insegnato da subito l'esperienza della guerra quando avevi solo diciassette
anni? Come hai scoperto la contraddizione con la santità della vita?
Avevo fatto un errore, questa fu la prima cosa di cui divenni consapevole appena
arruolato. Ciò che mi avevano insegnato del mondo militare i film, i
racconti di mio padre e dei suoi amici, che avevano fatto la II guerra mondiale,
faceva apparire il mondo militare a un ragazzo come me come una grande avventura.
Nessuno mi aveva mai parlato della verità. L'altra circostanza che mi
ha permesso di guardare più profondamente questa contraddizione è
stata la spersonalizzazione assoluta dei nemici e degli altri che avviene nell'addestramento
militare. Per la forza dell'esperienza che ho vissuto, per lo shock emotivo
e psicologico che mi ha causato, ho impiegato molti anni per arrivare a una
sintesi di ciò che l'esperienza mi aveva dato.
Solo 15, 20 o 25 anni dopo ho iniziato ad avere una qualche comprensione di
ciò che era successo. E' d'altro canto vero che il governo, la società,
non volevano che arrivassi a questa comprensione. Il loro scopo era di non ascoltare
la verità dell'esperienza perché altrimenti tutti dovrebbero accettare
le loro responsabilità in azioni come la guerra.
Hai trascorso
il periodo in Vietnam senza creare nessuna difficoltà, come tutti gli
altri, senza disobbedire?
Sì, non ci ho mai pensato. Non mi è mai nemmeno passato per la
mente di creare dei problemi. Una delle cose che ho scoperto circa questo fenomeno
è che se non sappiamo di avere una scelta, è proprio come se non
l'avessimo. E a quell'epoca io non sapevo, sapevo solo che la situazione in
cui mi trovavo era molto difficile, ma non sapevo cosa fare dopo.
Secondo te è
per questo che esiste una sorta di obbedienza ingenua dei soldati ai propri
superiori con cui si potrebbe spiegare anche l'indifferenza della gente davanti
la guerra?
Io direi che la società è indifferente a ciò che succede
perché la gente pensa di non avere nessun potere per cambiare le cose.
Ecco perché seguo il mio sentiero: per dimostrare che c'è qualcosa
che possiamo fare. Ma c'è anche la realtà dei molti che hanno
sostenuto la guerra in Vietnam, dei tanti che credono che la violenza possa
risolvere gli abusi. Non riesco a capire come fanno a non vedere che la violenza
porta altra violenza. Forse, però, anche loro si trovano nella stessa
situazione in cui mi trovavo anch'io, semplicemente non conoscono un'altra via.
Mi sento addosso una grande responsabilità.
Durante la guerra,
conoscevi solo quello che accadeva a te o anche quale era la situazione degli
altri soldati?
Non si può fare a meno di vedere ciò che succede agli altri; ma
uno dei condizionamenti era di non entrare in contatto con gli altri. In guerra,
quando ci si incontra, non si vuole sapere il nome dell'altro, non si vuole
sapere niente di lui perché se sarà ferito o ucciso, e io ti conosco,
questo potrebbe suscitarmi delle emozioni molto forti e rendermi titubante in
azione. E questo potrebbe costarmi la vita, la mia o di quelli che mi stanno
intorno. Non si possono avere delle relazioni, eppure esiste un grosso paradosso:
alcuni dei legami nati in guerra sono tra i più profondi che ho mai avuto,
ciascun momento è il momento della vita e della morte. Per certi versi
la vita è molto semplice, posso dare la mia vita per te senza nemmeno
sapere come ti chiami.
Nel vedere donne
e bambini colpiti, anche senza conoscerne il nome, è possibile non provare
un grande dolore e sentire una grande responsabilità?
Certamente, è proprio così se sei coinvolto in questo tipo di
processo. In Vietnam era così e a me risulta che sia lo stesso in tutte
le guerre. Le circostanze del Vietnam erano leggermente diverse da quelle della
II guerra mondiale, ma non più di tanto. Se mi succedeva di vedere un
bambino ucciso, non potevo permettermi di sentire dolore o rimorso, di sentirmi
connesso con lui. Da una parte era una cosa molto triste che donne e bambini
- ma perché solo donne e bambini? - venissero feriti, uccisi o mutilati,
però è anche vero che per noi i bambini erano il nemico. I vietcong
usavano dei neonati come bombe.
Uno dei problemi
nati in questa guerra in Serbia è stata la violenza che si è scatenata
con l'operazione "Ferro di cavallo" sugli albanesi del Kosovo. Le
immagini dei profughi ammassati come bestie alla frontiera in qualche modo hanno
reso inevitabile l'uso della violenza.
Chi sa dove è iniziato. Tu guidi la macchina? Quando sei andato a comprarla,
il venditore avrà cercato di convincerti che quella era la migliore di
tutte e così, nello stesso modo, coloro che sostengono la validità
di questa guerra ce la vogliono vendere. E' vero che ciò che succede
in Kosovo è terribile, la nozione di pulizia etnica è inaccettabile.
Ma succede anche qui a Padova, succede anche a me. Come vi sentite quando venite
obbligati a fare qualcosa che non volete, quando qualcosa vi viene imposto con
il potere o la violenza?
Io vivo in un piccolo cottage in America, è la mia casa da ormai diciannove
anni e quando è morta la proprietaria uno degli eredi mi ha detto: "Devi
andartene, lasciare la casa". E' qualcosa di simile. Dove si trovano dunque
le radici della violenza? Ma quello che ho capito osservandomi è stato
molto importante. Quando racconto questa storia dico che è pulizia etnica,
ma la gente del mio paese pensa che non abbia niente a che vedervi. C'è
una resistenza a vedere la connessione, la relazione tra queste situazioni e
per farlo bisogna aprire di più gli occhi. Per poter vedere meglio, ognuno
dovrebbe entrare in contatto con le proprie paure, insicurezze e la propria
impotenza.
Dove sono allora le radici della violenza? E' lì che bisogna andare a
cercare. Che cosa succede dentro ciascuna persona che porta al crescendo di
violenza? Dobbiamo guardare in profondità nella nostra natura, nelle
nostre guerre. Dobbiamo esaminare come prendiamo parte a questo ciclo senza
fine di guerra, in modo da iniziare a interromperlo.
I serbi credono di fare la cosa giusta, ne sono convinto, non sono illuminati.
Anche le truppe della NATO credono di fare la cosa giusta e lo pensano veramente;
non sono consapevoli del ciclo della violenza e della sofferenza. L'UCK, anche
loro credono di essere nel giusto, ma tutti contribuiscono ad alimentare il
ciclo di sofferenza.
Ho tratto un grande dono dal servizio militare che ho fatto in Vietnam, ho capito
che questa non è la via e mi sono reso conto che tutti quelli che sono
morti in guerra e quelli che ora stanno morendo, muoiono per un motivo molto
profondo: per mostrarci che non è questa la via. Non dobbiamo permettere
che la loro morte sia avvenuta in vano, che le loro vite siano sprecate. Dobbiamo
fare tutto il possibile per mettere fine in primo luogo alla guerra che è
in noi stessi e allo stesso tempo indicare quanto sia priva di senso la violenza.
Io non sono diverso dall'UCK, quando il nuovo proprietario della casa che vive
esattamente dall'altro lato della strada e che conosco ormai da diciannove anni
mi ha dato lo sfratto, avrei voluto fargli saltare la casa. Poi, la seconda
reazione che ho avuto è stata di ingaggiare un combattimento giuridico
perché volevo che pagasse per le sue azioni. Non sono diverso dalle truppe
della NATO. E alla fine ho pensato che se avessi vinto la causa, avrei avuto
tutte le sue case: non sono diverso dall'esercito o dal governo serbo. Che cosa
fare? Come farlo in modo diverso? Devo trascendere il mio condizionamento e
posso farcela.
Ci sono stati
degli fatti, delle situazioni che ti hanno aperto gli occhi e ti hanno fatto
capire l'errore che stavi facendo in Vietnam?
Non guardo alle azioni che ho compiuto in quel periodo in modo moralistico.
Quindi non considero ciò che ho fatto all'epoca come errore. Parlare
di errore dà l'idea che ci fosse un altro modo per fare le cose, non
so se c'era. Nell'addestramento militare avevo capito che c'era qualcosa che
non andava, ma non capivo cosa. Lo capii quando si spalancarono i portelli dell'aereo
che mi aveva portato in Vietnam e poi dopo la guerra, quando il rifiuto nei
miei confronti da parte della società, del governo e della cultura fu
totale. Sapevo solo che c'era qualcosa che non andava. Ma non c'era nessuno
che mi aiutasse a scoprire che cosa fosse. Nessuno disposto a entrare in profondità
nella mia sofferenza per aiutarmi a capire che cos'era che non andava. E' stato
solo nel 1983, cioè sedici anni dopo che avevo lasciato il Vietnam, che
qualcuno mi offrì una mano, dicendomi che se volevo che la mia vita fosse
diversa avrei dovuto iniziare a fare le cose in maniera diversa.
Il primo passo era smettere di prendere sostanze intossicanti, smettere di bere,
di prendere droghe e di guardare sul serio alla realtà spirituale della
vita. Solo in questo modo mi sarei aperto e avrei iniziato a guarire diventando
consapevole dell'illusione in cui stavo vivendo.
Sei uscito con
un grande disagio dalla guerra?
Sì, noi usiamo la parola disease, malattia che è composta da:
dis-agio. La guerra non inizia con una proclamazione e non termina con un armistizio.
La guerra non finisce mai. E quindi è vero che la guerra era costantemente
una parte della mia vita. Non potevo chiuderla in uno scatolone e metterla in
soffitta, che era invece proprio quello che tutti mi dicevano di fare. L'unico
modo per metterla in soffitta era trovare delle distrazioni, ma non funzionano
mai. Nei dieci anni della guerra in Vietnam, e qui mi riferisco solo al periodo
disegnato ufficialmente come guerra, sono stati uccisi 58.000 americani; dal
1973 al 1983, un periodo analogo, circa 100.000 soldati americani che avevano
combattuto in Vietnam si sono suicidati.
Prima parlavi
delle amicizie fortissime che possono nascere in guerra proprio perché
in ogni momento si è a contatto con la vita e la morte, la tua scelta
di oggi la condividi anche con altri ex soldati?
Non è amicizia quella che si forma in guerra, il legame non è
necessariamente un legame di amicizia reciproca. In base al modo in cui è
stato strutturato l'esercito, in noi non c'era un senso di unità, eravamo
piuttosto degli individui isolati. Arrivavamo da soli e ripartivamo da soli.
Anche se eravamo all'interno di un gruppo di persone, non ci conoscevamo. Quindi
non ho nessun legame duraturo nato negli anni del Vietnam. Però ho sempre
più contatti con soldati che hanno combattuto quella guerra. perché
insieme, attraverso il processo di guarigione, diventiamo come la luce sulla
punta della candela, possiamo illuminare con la nostra luce questa terribile
cultura della violenza, illuminare la natura profonda della sofferenza che nasce
dalla violenza. E man mano che guariamo possiamo mostrare attraverso le nostre
azioni alla società, alla cultura che anche loro possono guarire.
Pensi che l'esercito
in quanto struttura della società possa rappresentare un po' il luogo
dove la gente, la società stessa, proietta la possibilità di esorcizzare
la violenza? Alla fine il soldato non è soltanto il portatore della violenza,
ma è anche la vittima della violenza collettiva.
E' sempre così con la violenza, non solo nell'esercito. Ci sono azioni
di violenza orribile che avvengono nelle famiglie, padri che abusano delle figlie,
madri che sfruttano sessualmente i figli, la violenza dei genitori contro i
figli non è diversa da ciò che succede nell'esercito. Nella vita
di tutti i giorni la violenza si perpetua in molti modi diversi. E' importante
quindi riconoscerla, senza concentrarsi solo sull'esercito. Rendiamoci conto
che la realtà della violenza esiste in tutti i luoghi.
La tradizione soto zen in cui sono stato ordinato ha le sue radici in Giappone
e in un libro molto forte che ho appena finito di leggere, "Lo zen in guerra",
si parla di come l'istituzione del buddhismo zen abbia usato gli insegnamenti
per giustificare l'aggressione imperialista del Giappone e per sostenerla. La
violenza dunque esiste anche nelle istituzioni religiose, è un virus
che contagia tutti gli aspetti della società e della cultura.
Io sono la luce in cima alla candela e questo è il dono potente della
guerra: ti strappa la pelle non si può più nascondersi dalla realtà
della violenza.
Tu dici che
la violenza pervade tutta la società ma anche che è possibile
fare luce, trovare la causa della violenza. Dov'è la causa della violenza?
Non credo esista una sola causa perché la violenza ha diecimila facce,
ma ciò che capisco è che la violenza è il risulto della
nostra indisponibilità a esaminare la nostra propria sofferenza. Le possibilità
di interrompere il ciclo della violenza, la possibilità di porre fine
alla realtà della guerra quale la conosciamo, è la responsabilità
di ciascun essere umano. Dobbiamo diventare consapevoli della guerra che è
dentro di noi e impegnarci nel processo di guarigione. Questo non può
avvenire se non abbracciando la realtà spirituale della vita. In qualsiasi
modo, ma dobbiamo farlo.
A me pare che
ci sono dei fenomeni come la guerra, ma anche come i sistemi economici, come
l'ingiustizia nei confronti di coloro che non possono avere né lavoro
né casa né niente, che non dipendono solo dalla singola persona
ma da strutture. Il debito estero, ad esempio, è una realtà che
non dipende da una singola persona, ma va a incidere sulla vita di molti.
Qual'è l'essenza di ciascuna di queste strutture? L'individuo. Non discuto
su quello che hai detto perché hai ragione, sono d'accordo con te su
tutto. Si tratta di altre manifestazioni di guerra. Ma, almeno che non cominci
a cambiare il modo di pensare di ogni individuo, le strutture non cambieranno.
Ognuno deve assumersi questa responsabilità; non penso che dovremo agire
in modo individualistico. La guarigione non è un fatto solo personale
ma anche comunitario. Nella famiglia se io guarisco anche gli altri ne trarranno
beneficio e verranno a loro volta incoraggiati a guarire.
Come quando si butta un sasso nello stagno, le onde riempiono tutto lo spazio.
Queste istituzioni devono cambiare ma il processo inizia dentro ciascuno di
noi.
Per questo prima
dicevi che esistono tante strade diverse e che quello che conta è iniziare
a percorrerle?
Certamente; c'è un insegnamento che ho ricevuto molto tempo fa e che
mi ha molto incoraggiato sul cammino. Si trova in un piccolo libro di alcuni
secoli fa, scritto da un mistico cristiano, La nube della non conoscenza (ed.
Ancora, Milano, ndr). E' scrito che non esiste un unico percorso a Dio, che
ciascuno deve trovare la propria strada e che Dio è in tutte le cose.
Quando ho letto queste cose ho sentito che combaciavano perfettamente con la
mia pratica zen e ciò che io so essere la verità, non il capire
intellettuale di una verità ideologica, è che tutte le cose sono
interconnesse. Se agisco contro di te in modo violento, sto agendo contro di
me. Allora, cosa posso fare? E' mia la responsabilità di cambiare. Anche
negli insegnamenti buddhisti, o meglio in ciò che è stato attribuito
al Buddha, si dice che non esiste un solo sentiero verso il risveglio. Siamo
noi a dover trovare la nostra via e la via passa sempre attraverso la sofferenza.
Dobbiamo risvegliarci alla natura della sofferenza perché solo così
potremo interrompere il perpetuarsi del ciclo della violenza.
Secondo te in
questa situazione, tra Clinton e Milosevic, chi si fermerà per primo?
Non ne ho la minima idea.
Io mi fermerò e se mi fermerò, fermerò anche il Clinton
che è dentro di me. Fermerò anche il Milosevic che è dentro
di me. Perché io non sono diverso da loro, tutti e due esistono dentro
di me. E' anche vero, però, che io non sono né Clinton né
Milosevic. Non aspetto che uno di loro due si fermi; per addossare su qualcun
altro la responsabilità. Perciò mi fermo io. Immagina, se tutto
a un tratto tra i soldati serbi ci fosse un grande risveglio e tutti dicessero:
"Sono stanco di combattere, basta". La guerra finirebbe; e se ci fosse
un altro grande risveglio e i piloti dei bombardieri realizzassero che i soldati
che stanno uccidendo sono veramente loro fratelli, che tutti apparteniamo a
una sola famiglia, forse finirebbero i combattimenti. Questa è la linea
di azione che mi impegno a perseguire.
(da "Buone Notizie", anno 1999 n°2)