L'insegnamento
del buddhismo sulla morte |
di Corrado Pensa |
Il tema di questa sera è una riflessione sull'insegnamento del Buddha
sulla morte, che è stata stimolata dalla pubblicazione del libro 'Chi
muore?', di Stephen Levine, autore che si è occupato a lungo di meditazione
e che, da un certo momento in poi, si è dedicato all'assistenza a malati
terminali, con seminari molto apprezzati, rivolti sia a persone che stanno vicino
a malati terminali, sia ai malati stessi. Dal materiale proveniente da questi
seminari è nato questo libro 'Chi muore?' tradotto adesso anche in italiano.
Quindi, faremo questa chiacchierata facendo la spoletta tra il Buddha e Stephen
Levine, considerando entrambi i modi, quello antico e classico del Buddha e
quello contemporaneo di Stephen Levine.
Comincerei da una citazione di un autore più recente di Stephen Levine,
Rodney Smith, che è anche lui insegnante di meditazione e direttore di
una casa per malati terminali negli Stati Uniti. Il libro di Rodney si chiama
'Lezioni dai morenti'. In un capitolo di questo libro, leggiamo: "In una
delle aeree più violenta e degradata della città, viveva Roxane,
una donna simpaticissima. Anche lei si stava avvicinando alla morte. Ricordo
che nel bel mezzo del suo soggiorno, a casa sua, c'era un'apertura nel pavimento,
e da lì entravano e uscivano polli e galline che stavano sotto la casa
e Roxane, quando ancora ne aveva la forza, li scacciava con una scopa. Io andavo
molto volentieri a fare visita a Roxane, perché Roxane irraggiava fiducia,
umorismo e calore. La sua accettazione della morte era straordinaria. Ogni volta
che la salutavo, mi sentivo più fresco, come se lei mi avesse dato qualcosa
che andava al di là della visita. Roxane sapeva qualcosa sul morire che
io non sapevo, perciò mi sorprendevo a voler imparare da lei, anche se
ero io ad avere il ruolo di assistente professionista. Dopo parecchie settimane,
le chiesi come avesse risolto la sua morte, e come potesse starsene così
tranquilla e in pace. Roxane mi guardò con un'espressione serena e senza
tempo e mi disse: "Mio caro, la morte non mi spaventa più. Due dei
miei figli sono morti tra le mie braccia. Ho potuto guardare la morte negli
occhi e i suoi occhi sono gentili".
Dunque, siamo davanti a una dimensione di amicizia per la morte. E' quella stessa
amicizia che sentiamo risuonare in grandi autori spirituali, cito per esempio
la Maestra vivente Vimala Thakar: "Non c'è miglior amico della morte.
E' il grande, il supremo Amico. Il grande Amico ci aspetta alla porta. Ricorda
questo e tutto il resto sarà perfettamente semplice e facile". Anche
qui, allora, la morte vista in una luce del tutto diversa da quella luce sinistra
del cupo falciatore con la clessidra, che per tanti secoli è stata la
raffigurazione standard della morte.
L'amicizia per la morte come garanzia definitiva di nutrire amicizia per la
vita tutta intera, dunque garanzia di quell' amore incondizionato che è
l'altra faccia della sapienza. L'esempio di Roxane è bello e incoraggiante,
perché ci mostra al vivo, in un contesto molto domestico e lontano da
bagliori spirituali, come questo potenziale positivo malgrado tutto, lo possiamo
chiamare così, sta dentro di noi. In genere, occorre un lungo lavoro
interiore per farlo emergere, ma a volte ci sono o delle predisposizioni personali
particolarmente forti o degli incidenti, la morte di una persona cara, la morte
propria, che lo portano in superficie, con sorpresa della stessa persona. Inutile
dire che ben più spesso la morte è vissuta non come amica, bensì
come il nemico più grande e assoluto. Vediamo un paio di casi nelle scritture
buddhiste. In questi due casi che considereremo, il punto di partenza è
proprio un'avversione incondizionata nei confronti della morte. Sono due donne.
La prima si chiama Patachara e le scritture descrivono la sua storia drammaticissima.
In viaggio con il marito e due figli, il marito muore, perché morso da
un serpente. Lei rimane con i due figli, ma il più grande viene travolto
da un fiume in piena, il più piccolo viene portato via da un rapace.
Questo avviene durante un viaggio in cui Patachara va a trovare i genitori e
il fratello. Mentre, avendo perduto il marito e i figli, si dirige verso la
casa dei genitori, incontra delle persone che provengono dal villaggio della
sua famiglia, dal quale si leva un'enorme colonna di fumo, che le spiegano che
una terribile tempesta ha travolto il villaggio e quel fumo è il fumo
di una grande pira funeraria sulla quale giacciono anche i genitori e il fratello
di Patachara. Patachara sta per impazzire. Le consigliano di rivolgersi al Buddha
che si trova nelle vicinanze. Il Buddha, in questo occasione, tocca un tema
che per noi occidentali o è lontano o è vicino in maniera superficiale,
cioé il tema del karma, il tema delle vite passate. Il Buddha dice a
Patachara: "Pensi che sia la prima volta che piangi per la morte di qualcuno?
Ti è successo moltissime volte, talmente tante che per accogliere le
tue lacrime non basterebbero i quattro oceani". Un'immagine indubbiamente
forte che c'è spesso nelle scritture canoniche del buddhismo, quando
si parla del dolore che abbiamo accumulato in una serie infinta di esistenze
precedenti, le lacrime che vengono da questo dolore, si dice, non basterebbero
a colmare i quattro oceani della cosmologia dell'epoca.
In altri termini: qual è il succo di questo insegnamento? E' l'affermazione
del carattere universale, comune e continuo della morte. Ti è successo
tante volte e succede a tutti tante volte, succede in continuazione. Questo
insegnamento così apparentemente semplice circa l'universalità
e il carattere comune e continuo della morte, veicolato da un Maestro della
portata del Buddha, fa sì che qualcosa si sciolga nella disperatissima
Patachara e le scritture descrivono che proprio in quel momento lei compie un
salto, il primo stadio della liberazione. Dall'abisso di dolore, attraverso
questo insegnamento, impartito dalla persona giusta, al momento giusto, lei
ha questo ribaltamento e si trova in uno stato di prima liberazione, quello
che si chiama l'entrata nella corrente.
L'altro caso è quello di Kisagotami. Kisagotami ha perso il suo bambino,
ma non lo accetta assolutamente, per cui si aggira con il corpo del bambino
morto e chiede a tutti un rimedio per riportarlo in vita. Anche lei viene indirizzata
al Buddha. E il Buddha le dice: "Sì, io ho questo rimedio, ma perché
possa funzionare, tu mi devi portare un grano di senape bianca e questo grano
di senape bianca deve venire da una casa in cui non c'è stata nessuna
morte". E si trattava di case di una cultura tradizionale in cui si vive
per generazioni. Kisagotami comincia ad andare in giro e naturalmente si sente
rispondere regolarmente: "In questa casa contiamo un numero di morti maggiore
che il numero di vivi". Quindi, a poco a poco, sentendosi rispondere in
questo modo, Kisagotami è come se ritornasse in sé, si dà
pace e seppellisce il suo bambino. Di nuovo, parla col Buddha che le sottolinea
il carattere universale, naturale della morte. E anche qui le scritture dicono:
"Kisagotami, ascoltando il Buddha, ha un salto". Di nuovo dalla disperazione
al primo grado della liberazione.
Allora, di nuovo la realizzazione dell'universalità, della naturalezza,
dell'impersonalità della morte. Perché impersonalità? E'
diverso il vederla in questa prospettiva che non il viverla, come comprensibilmente
succede, ossessivamente, come un fatto unico. E' il contrario, l'insegnamento
dice: "Tutto è fuorché un fatto unico". Ma l'insegnamento
riesce a penetrare, non rimane a livello teorico, che non sortirebbe alcun effetto.
C'è, cioè, una realizzazione, in questi due casi, del carattere
assolutamente universale e naturale della morte. Cosa significa? Una radicale
accettazione della morte.
Ora, conviene rivolgerci ad alcuni insegnamenti del Buddha sulla meditazione
in relazione alla morte. La pratica in questione si chiama in lingua pali: "Marana
sati", marana significa morte, ha la stessa radice di morte e sati, oltre
al significato di consapevolezza, in questo caso conserva il significato di
ricordo e riflessione. Proprio come il "Memento mori" della tradizione
occidentale. Ricordarsi della morte. Tant'è vero che la pratica più
semplice della 'marana sati', consiste nel riportarsi alla mente la frase: "Marana
vavissati", che vuol dire "Ci sarà la morte", "Arriverà
la morte". Solo questa frase: "Marana vavissati", 'vavissati',
il futuro del verbo essere.
Ricordarsi della morte, riflettere sulla morte, essere consapevoli delle proprie
reazioni di fronte alla morte. Ci viene detto in diversi luoghi delle scritture,
con una certa enfasi, che, se la 'marana sati', la meditazione sulla morte è
ben sviluppata, è ben addestrata, ciò porterà molto frutto
e molto beneficio. E si va nei particolari di questi frutti e benefici, dicendo
che questa potente meditazione aiuta l'accesso al senza morte. Alla dimensione
che non nasce e che non muore, l'assoluto, l'incondizionato.
Sentiamo su questo argomento, Stephen Levine, l'autore vivente del libro 'Chi
muore?". Vorrei aggiungere che uno dei pregi di Levine è che aiuta
a tradurre in un linguaggio e in una sensibilità contemporanea antichi
insegnamenti. Si rifà infatti a maestri di varie tradizioni, non tanto
nello scrivere il libro, quanto nello svolgere il suo lavoro di assistente a
processi di morte. "Il corpo muore, - dice Levine - la mente cambia di
continuo, ma in qualche modo, dietro tutto ciò vi è una presenza
che qualcuno chiama il 'senza morte', che è immutabile, che è
semplicemente ciò che è. Nascere pienamente significa entrare
in contatto con esso, sperimentare anche per un solo istante la vastità
che esiste al di là della nascita e della morte, emergere in un mondo
di paradosso e di mistero senza altri strumenti se non la consapevolezza e l'amore".
Vorrei ricordare il contributo di Krishnamurti. Riassumendo una serie di osservazioni
che Krishnamurti fa sulla morte, ecco che cosa emerge: "Noi non accettiamo
la morte, perché la mente è abituata e compulsivamente dedita
ad accumulare, sia sul versante esterno, sia sul versante interno, per esempio
accumulare esperienze spirituali. Questa accumulazione porta a pensare sempre
in termini di tempo, a essere schiavi del tempo. Solo la mente che è
libera da questo perseguire avidamente tutte le possibili forme di sicurezza
o pseudosicurezza, la mente che è libera dal desiderio di immortalità
personale, è la mente capace di conoscere che cos'è l'immortlità".
o il senza morte, lamata dhamma, per usare il linguaggio buddhista. Sono parole
profonde che vanno al cuore, sia della pratica spirituale in generale, sia della
pratica spirituale relativa alla morte. Perché in Krishnamurti, come
nel Buddha, dire pratica spirituale significa automaticamente dire pratica sulla
morte e, al contrario, dire pratica sulla morte significa dire pratica spirituale.
Prima di considerare più da vicino la meditazione sulla morte nel Buddha,
vorrei osservare che a volte il ricordo della morte la 'marana sati' è
deliberatamente evocato per suscitare un senso di urgenza spirituale. Andiamo
alle scritture e nel Samyutta Nykaia, adesso tradotto anche in italiano, leggiamo
che un giorno un re dell'epoca, il re Pasenadi, va a rendere visita al Buddha.
E il Buddha gli chiede: "Vostra Maestà, che cosa vi ha portato qui
a metà del pomeriggio e che cosa stavate facendo?". Pasenadi risponde:
"Oh, mi occupavo di quelle cose di cui si occupano i guerrieri e i re,
ossia l'intossicazione per il potere e l'avida ricerca di tutti i possibili
piaceri sensoriali". Evidentemente, a Pasenadi non mancava la sincerità.
Il Buddha gli dice: "Immagina, o re, che una persona molto affidabile arrivi
di corsa, annunciando che da est una montagna alta fino a toccare le nubi sta
avanzando, travolgendo e distruggendo tutto ciò che incontra sul suo
cammino. E immagina che questa persona ti dicesse: 'La situazione è questa,
fai tutto quello che pensi di dover fare'". E questo medesimo esempio è
ripetuto con altre tre persone, una che proviene da ovest, una che proviene
da nord, una che proviene da sud. Quindi, lo scenario è di quattro montagne
alte fino alle nubi che avanzano chiudendo. "Allora, Vostra Maestà,
- domanda il Buddha - che cosa risponderesti?" E Pasenadi rispone: "Se
questa è la situazione, se questo è il periolo, allora la cosa
da fare è vivere una vita secondo il Dharma, è perseguire subito
il bene". E il Buddha dice: "Bene, Maestà, ti assicuro che
la morte sta avanzando verso di te. Che cosa pensi che sia giusto fare?".
Pasenadi non può che rispondere: "Perseguire il Dharma, cercare
subito il bene".
A volte, mi è sembrato che questa potente immagine delle quattro montagne
che ci chiudono, a meno che non sia ansiogena, possa suscitarci un desiderio
di urgenza spirituale, di prendere rifugio nel lavoro interiore, cioé
di vedere l' importanza relativa di questo e quello e di vedere invece quello
che conta, perché le quattro montagne si stanno effettivamente avvicinando.
Allora, modalità della 'marana sati', della meditazione sulla morte:
a me sembra che possiamo parlare di pratiche specifiche e pratiche non specifiche,
vale a dire che ci sono delle pratiche che hanno la morte come oggetto, mentre
in altre situazioni ci troviamo davanti all'esortazione di praticare secondo
i modi comuni della pratica, in punto di morte, cioè non viene data una
pratica specifica, semplicemente si ricorda l'importanza di praticare, perché
moriamo, senza un riferimento specifico, affrontando la morte con i soliti strumenti
della pratica insegnata dal Buddha, dunque la consapevolezza, la comprenione,
la compassione. Quella più semplice e molto profonda tra le pratiche
specifiche è quella di ripetersi "ci sarà la morte",
"marana vavissati". Un testo importante, successivo ai discorsi del
Buddha, il 'Visuddhimagga', un commentario del V secolo dopo Cristo, aggiunge
che questa frase che siamo invitati a ripeterci mentalmente, è una frase
che va detta con attenzione, con comprensione e con un senso di urgenza, non
è una frase alla quale va imputato qualche magico valore per la semplice
ripetizione. A questo proposito, c'è un avvertimento da fare, se noi
siamo depressi, queste pratiche sono controindicate. Vale a dire, invece di
suscitare un sostanziale rasserenamento e accettazione, hanno un effetto contrario,
cioé quello di suscitare ulteriore depressione. Se siamo depressi, faremo
pratiche, per esempio, nel segno della benevolenza, dell'amore universale, di
quella che in lingua pali si chiama Metta, ad alte dosi, e questo ci farà
molto bene, a meno che la depressione non ci impedisca, con tipica modalità
autodistruttiva, di fare quello che ci fa bene. E quando siamo, in grosssa misura,
usciti dalla depressione, allora potremo avvicinarci al tema della morte.
Un' altra pratica specifica importante è la pratica dei cinque ricordi
o cinque fatti: io sono soggetto all'invecchiamento, non sono al di là
dell'invecchiamento; io sono soggetto alla malattia, non sono al di là
della malattia; io sono soggetto alla morte, non sono al di là della
morte; io sarò inevitabilmente separato da tutto ciò che mi è
caro; io raccolgo gli effetti delle mie azioni. Questi sono i cinque fatti o
i cinque ricordi. Da notare che l'ultimo ricordo, io raccolgo gli effetti delle
mie azioni, non ha bisogno di essere pensato in un contesto di vite passate,
vite future, basta pensare alle azioni e agli effetti delle azioni compiute
in questi giorni, in questi mesi, in questi anni, in questa vita, azioni mentali,
azioni vocali, azioni fisiche. A cosa servono i cinque ricordi? A familiarizzarci
con la verità, mettendo l'accento sul familiarizzarci, più che
sulla verità. Perché siamo tutti d'accordo che questa sia la verità,
quanto a volercisi familiarizzare, è un altro discorso. Questo è
il contrario quindi dell'ignorare, negare, rimuovere questi cinque fatti. La
psicologia contemporanea ci insegna che, se noi neghiamo e rimuoviamo, questo
non diminuirà la sofferenza, ma la accrescerà, ci ritroveremo
per esempio, con un'ansia diffusa di cui non sappiamo l'origine, ci troveremo
a rispondere in maniera ansiosissima davanti a cose di piccola rilevanza, perché
abbiamo messo sotto. Il 'familiarizzarci con' è il contrario del mettere
sotto. Sono pratiche da fare in maniera periodica, ripetuta, cosciente, vigile.
Allora, come si lavora, una volta fatto il riconoscimento dei cinque fatti fondamentali?
Prendiamo il ricordo, o il fatto, 'io sono soggetto all'invecchiamento'. Il
testo ci dice che è facile essere ubriachi di giovinezza, anzi dice che
la tipica ubriacatura della giovinezza è quella di essere ubriachi di
giovinezza, e quindi essere completamente ciechi a questo fatto. Il testo continua
dicendo che io, riscontrando in me questa ubriacatura che mi porta ad agire
ciecamente, facendo come se non esistessero i cinque fatti, porto spesso la
consapevolezza e la comprensione su questo squilibrio, su questa ubriacatura,
su questo non voler vedere. Notate: porto spesso consapevolezza e comprensione,
cioé la punta di diamante della pratica insegnata dal Buddha: sati-panna,
consapevolezza e comprensione. Cioé sento questo movimento di squilibrio
e non accantono la consapevolezza, al contrario la risveglio ulteriormente e
ce la porto sopra, spesso. Molti abbandoni di queste pratiche vengono dalla
mancanza di quello 'spesso', cioé le persone provano qualche volta e
dopo di che dicono: "Non funziona, non è come me l'aspettavo":
la chiave è nello 'spesso'.
Succede, ci dice la tradizione, che questa ubriacatura di giovinezza, che accieca,
o scompare o diminuisce. Un grosso inquinante viene seriamente intaccato dalla
pratica spirituale, dal fatto di riconoscerlo, di non ignorarlo, negarlo, e
quindi riconoscerlo e riconoscerlo ancora con tersa consapevolezza. Osserviamo
che è un misto di pratica specifica e non, infatti i temi sono relativi
alla morte, ma la pratica usata non è quella del ripetersi: 'la morte
ci sarà', ma è la pratica standard di consapevolezza e di comprensione.
Questa medesima procedura che abbiamo nominato a proposito del primo fatto viene
ripetuta per ognuno degli altri. In ognuno, ci mettiamo davanti al nostro atteggiamento
corrente e ci portiamo sopra, dopo aver fatto quel riconoscimento, la consapevolezza.
Allora, rendiamoci conto che là dove si dice che questo atteggiamento
diminuisce o scompare, si parla di un risultato enorme. Perché è
una modificazione in profondità di qualcosa di profondamente abituale.
Stiamo parlando di un crescendo di libertà dalla paura e dall' attaccamento
di tutti i tipi. Come è stato detto da qualcuno: "Stiamo facendo
risplendere la luce della morte sulla vita".
Ma questi testi che ci parlano dei cinque fatti non si fermano qui, c'è
un sigillo e questo sigillo è la realizzazione della universalità
della morte. Infatti, la parte finale di questa meditazione sui cinque fatti
è che si ripassano i cinque fatti, dicendo su ognuno: "Io non sono
il solo a essere soggetto a vecchiaia, malattia e morte. Non capita solo a me
di essere soggetto a vecchiaia, malattia e morte". Qualcuno forse sarà
perplesso, pensa:"Lo sapevamo". Il fatto è che lo sappiamo
e non lo sappiamo. Lo sappiamo, ma non è in circolo questa incredibile
interconnessione, comunanza, universalità della morte. Quindi, di nuovo,
il disincapsulamento dall'io-mio e l'accesso a questa universalità, naturalezza,
impersonalità della morte. E' liberante, non è un fatto personale,
personalistico, unico; è un fatto universale, naturale, impersonale.
Certo questa prospettiva completamente diversa dalla prospettiva nella quale
ci troviamo in genere richiede un tirocinio, un lavoro; a meno che non si abbiano
quelle predisposizioni speciali che hanno persone come Roxane.
Vediamo ancora un esempio di esortazione alla pratica del Dharma in punto di
morte. C'è un laico molto famoso e molto generoso, Anatapindika, che
è molto malato. Allora, Sariputta, uno dei discepoli più importanti
del Buddha, considerato il più saggio, insieme con Ananda, che è
il fedele assistente del Buddha, gli chiedono: "Come stai, Anatapindika?".
"Male". risponde Anatapindika. "Ma i dolori diventano più
forti o meno forti?". "Più forti". risponde Anatapindika.
E ogni volta che gli rifanno la domanda, risponde: "Ancora più forti".
"Allora, - gli dicono Sariputta e Ananda - devi praticare il non-attaccamento
riguardo ai sensi, riguardo alla mente, riguardo alla percezione che i sensi
e la mente generano, riguardo alla sensazione, piacevole o spiacevole, che viene
dalla percezione, riguardo a emozioni, stati d'animo, che vengono in presenza
della percezione e della sensazione. Tu devi esercitare il non-attaccamento
nei confronti di tutto questo". Siamo di nuovo di fronte a un'ingiunzione
di pratica esattamente uguale all'ingiunzione di pratica di base, solo che viene
data in punto di morte: pervenire al non-attaccamento, cioé all'equanimità,
che è la fonte della saggezza e della compassione, che sono le due ali
della liberazione. Minutamente, dunque, lavorare sull'attaccamento che si genera
attraverso i sensi e la mente. Poco dopo, Anatapindika morirà e, come
ci viene detto, ottiene rinascita in un paradiso. E' interessante osservare
che Anatapindika piange quando riceve questa istruzione e dice: " Io questa
istruzione non l'avevo mai sentita". E Sariputta gli risponde: "Non
l'hai mai sentita perché questa istruzione noi, finora, l'abbiamo data
soltanto a monaci". Al che, Anatapindika dice: "La dovreste dare anche
ai laici, tra i quali ci sono persone con poca polvere sugli occhi": cioé
ricettive. Probabilmente, siamo davanti a una svolta della comunità originaria
buddhista, quando si decide di aprire anche la parte più profonda della
pratica al mondo dei laici praticanti.
Un'altra occasione: siamo sempre davanti a un insegnamento di tipo aspecifico.
C'è il laico Nakulapita, malato gravemente, e si teme che sia arrivata
la sua ora. La moglie gli ricorda che il Buddha giudica molto negativo coltivare
preoccupazioni in punto di morte e infatti Nakulapita è molto preoccupato.
E' preoccupato di cosa succederà alla moglie, di cosa succederà
al figlio, di questo, di quell'altro. La moglie viene presentata come una donna
molto calma e molto forte, che gli scioglie le preoccupazioni ad una ad una.
Questo ingenera nel marito un tale rilassamento che Nakulapita guarisce. L'insegnamento
è, anche qui, a tutto campo: la preoccupazione, ossia la proliferazione
mentale da paura è un inquinante mentale in qualsiasi momento, non soltanto
quando si muore. In generale, viene sottolineato nei testi come la paura e il
terrore di morire abitano là dove sono ancora forti gli attaccamenti,
mentre la paura di morire recede a mano a mano che avanza l'equanimità.
In questo tipo di letteratura, di cui Levine è un esempio, ci sono molte
storie di morti avvenute in grande pace. Possiamo scegliere un esempio forte
riportato dallo stesso Levine, la morte del grande santo indù Ramana
Maharshi. "Quando Ramana stava morendo di cancro, i suoi devoti gli chiesero
di operare una guarigione su se stesso". "Perché, fratelli?
Questo corpo è sfatto, perché aggrapparcisi? Perché costringerlo
a durare?" risponde Ramana. Al che, loro implorarono: "Maestro, ti
preghiamo, non lasciarci". Guardandoli come si guardano dei figli, Ramana
rispose: "Lasciarvi? E dove sarebbe il luogo dove vado?". Giovedì
13 aprile, un medico portò a Ramana un sedativo, per alleviargli la congestione
ai polmoni, ma lui lo rifiutò. "Non è necessario, tutto accadrà
come deve entro due giorni". Al tramonto del giorno successivo, Ramana
chiese a quelli che lo assistevano di aiutarlo a mettersi seduto. Sapevano che
ogni movimento, anche solo toccarlo, era per lui doloroso, ma egli disse loro
di non preoccuparsi e rimase seduto con uno degli assistenti che gli reggeva
la testa. Un dottore fece per somministrargli l'ossigeno, ma Ramana con un gesto
lo allontanò. D'un tratto, un gruppo di devoti seduti fuori nella veranda
cominciò a cantare 'Arunachala Shiva'. All'udire il suo canto preferito,
Ramana aprì gli occhi che brillarono, sorrise con indescrivibile dolcezza,
lacrime di benedizione gli scesero lungo le guance. Ancora un respiro profondo
e poi niente più. Non ci fu lotta, non ci fu spasimo, nessun altro segno
di morte, solo, il respiro successivo non venne."
Ora, addentriamoci più in particolare nel libro di Levine, poi ritorniamo
al buddhismo. Anche nel libro di Levine troviamo tanta pratica generale, non
specifica, (secondo me è un buon libro di Dharma), e pratica specificatamente
rivolta alla morte. Allora, dall'insegnamento di Levine, riassumendo, possiamo
estrarre un assioma fondamentale, che suona così: "Tutto ciò
che ci prepara alla morte accresce la vita. E, d'altra parte, tutto ciò
che rende difficile morire, accettare la morte, aprirsi alla morte, è
esattamente ciò che rende difficile vivere e aprirsi alla vita. Allora,
in questa pratica di preparazione alla morte, che è anche dare vita alla
vita, sarà fondamentale entrare in contatto consapevole con ciò
che è spiacevole, invece di ignorarlo, o agirlo, o alimentarlo ciecamente.
La pratica più utile è coltivare l'apertura verso ciò che
è spiacevole, riconoscere in noi la resistenza e la paura nei confronti
dello spiacevole. E invece fare in modo di rilassarci e di aprirci davanti allo
spiacevole. Lasciarlo fluttuare libero, lasciarlo andare. Tenete presente che
se scrivete un elenco delle vostre resistenze e delle vostre opinioni, questa
sarebbe una descrizione quasi completa della vostra personalità. Se vi
identificate con questa personalità, voi non fate altro che amplificare
la paura della morte, vale a dire la perdita immaginaria di una individualità
immaginaria." Levine non sta dicendo che non esiste nulla, sta dicendo
che c'è una fabbricazione, un attaccamento a questa fabbricazione, che,
se noi ne facciamo a meno, è molto meglio per tutti, a cominciare da
noi. "Allora, l'apertura a ciò che è spiacevole, in luogo
dell'assidua resistenza a ciò che è spiacevole. Questo è
facile da enunciare, ma, di nuovo, come molti sanno, è meno facile da
capire, applicare e realizzare. Che preparativi avete fatto per aprirvi a una
vita interiore talmente piena che qualsiasi cosa accade può essere usata
come mezzo per arricchire la vostra attenzione? ". Se qualsiasi cosa accade
diventa mezzo per arricchire la consapevlezza e i suoi frutti, in noi e fuori
di noi, allora tutto è grazia, o, con Madre Teresa di Calcutta, possiamo
dire: "Ogni cosa è migliore". Perché tutto sollecita
questo valore di fondo che è la pratica interiore e tra l'altro ciò
che è spiacevole, se si impara a farlo, è più potente nel
creare questa apertura di quello che è piacevole. Questa è una
rivoluzione copernicana, perché noi seguiamo il piacevole e cerchiamo
di evitare lo spiacevole. Non si parla di cercare lo spiacevole, ma si tratta
di cambiare la nostra relazione con lo spiacevole. Preferiremo sempre il piacevole,
ma cambiare la relazione con lo spiacevole cambia la vita e cambia anche la
relazione col piacevole, non più in chiave di attaccamento, ma di apprezzamento.
Dice ancora Stephen Levine: "Tanto più vi aprite alla vita, tanto
meno la morte vi diventa nemica". E la vita è fatta di parecchie
cose spiacevoli, ma siamo chiusi davanti ad esse. "Quando cominciate ad
usare la morte come mezzo per focalizzarvi sulla vita, tutto diventa semplicemente
così com'è, un'occasione straordinaria per essere davvero vivi.
Perché aspettare che il dolore sia troppo intenso, per lavorare a unificare
e raccogliere la mente? Perché non usare ogni momento di malattia, ogni
influenza, ogni raffreddore, ogni lieve ferita, come momento per lasciare andare,
per aprirsi all'intensità che si manifesta? In ogni dolore o malattia
vedo che c'è la libertà, se pratico, per aprirsi ad essa. Allorché
mi apro a questi eventi, così come ci si apre a un Maestro, allora essi
non contribuiscono più a rafforzare in me l'identificazione con il ruolo
di colui, colei che soffre, con la vittima delle circostanze, ma, se faccio
questo, io sono semplicemente ciò che sono e l'evento è semplicemente
ciò che è". Sono parole semplici, per descrivere qualcosa
di molto grosso, cioè l'essere andati al di là dell'autocommiserazione.
Torniamo al buddhismo e soffermiamoci brevemente sulla legge del karma. Perché,
se parliamo dell'insegnamento del Buddha sulla morte, fare come se non ci fosse
l'insegnamento relativo al karma, sarebbe strano. Io personalmente mi sentirei
in imbarazzo se andassi in giro assicurando le persone dell'esistenza del karma
di vite passate o future. Però, non mi viene nemmeno in mente di assicurare
le persone che la faccenda del karma è una credenza folcloristica. A
me la questione sembra profondamente interessante, ma mi sento più a
mio agio se parlo di ipotesi del karma. Allora, se l'ipotesi del karma, così
come è formulata negli insegnamenti buddhisti, è vera, questo
implica che i miei nodi interiori, per esempio la mia rabbia, non si estinguono
con l'estinguersi del mio corpo, alla morte, ma in qualche modo restano in circolo
e ricompaiono da qualche altra parte. Ci sarà un essere vivente che ne
sarà il portatore. Un esempio usato è quello di un ramo che brucia.
Il fuoco, a un certo punto, lascia il ramo bruciato e si appicca a un altro
ramo, così il karma passerebbe da un individuo che muore a un individuo
che nasce. Questa è la concezione buddhista della scuola antica, che
si esprime sinteticamente, come avviene nel Visuddhimagga, affermando che il
nuovo individuo nato è lo stesso e non è lo stesso. C'è
la trasmissione di forza karmica dall'uno all'altro e questo è un elemento
di continuità, ma c'è anche discontinuità, di qui l'affermazione:
'E' lo stesso e non è lo stesso'.
Naturalmente, la cosa che colpisce è la continuità, perché
da un'ottica non di questo genere nessuno si sogna di dire che è lo stesso
anche al venti per cento. Allora, se l'ipotesi del karma è vera, noi
ci troviamo davanti a una prospettiva vertiginosa, perché si dilata enormemente
il nostro concetto di responsabilità, la nostra responsabilità
diventa cosmica. Se è vero che noi trasmettiamo i nodi che ci affliggono,
allora ci sarà un essere che prenderà in carico questi nodi, questa
riverberazione tossica e dolorosa. Quindi, dobbiamo immaginare una successione
di individui, che sono lo stesso inividuo, e non sono lo stesso inividuo, che
si portano appresso questi nodi, magari complicandoli ulteriormente. Inoltre,
ciascun individuo di questa serie, entra in contatto con altre persone e perciò
alla riverberazione verticale, di vita in vita, si aggiunge, in qualche misura,
anche una riverberazione orizzontale, cioé la mia avversione sarà
causa di sofferenza per me, ma anche per altre persone che incontro nella mia
vita. Insomma, indubbiamente, una responsabilità molto vasta. D'altra
parte, la fecondità karmica funziona anche nella direzione opposta, positiva.
E dunque, se noi lavoriamo a sciogliere questi nodi, in virtù di un cammino
interiore, la riverberazione attraverso serie di individui, da tossica, diventa
sempre più salutare. E questo sia a livello verticale che orizzontale:
una prospettiva grandiosa di interconnessione e responsabilità comune.
A me sembra che riflettere su questa ipotesi di grandiosa responsabilità
possa essere un aiuto efficace per disincapsularci dalla visione di fissità
egoica, alienata, separata, non interconnessa, nella quale è facile che
noi viviamo.
Levine presenta una concezione evolutivo provvidenziale del karma, dice: "Il
karma non è una punizione, bensì un aspetto della natura misericordiosa
dell'universo che ci offre gli insegnamenti che in passato abbiamo frainteso,
per permetterci di apprendere dalle esperienze alle quali, in precedenza, non
abbiamo prestato sufficiente attenzione." Ossia, tutto quello che non è
risolto ritorna affinché noi, prima o poi, lo risolviamo. Allora, non
so se possiamo leggere in questa chiave, che è evidente in altri sistemi
soteriologici, la dottrina del buddhismo antico. Quello che mi sembra comunque
rilevante è che questa modalità, del prendere tutto quello che
ci viene come un invito a risolvere e a lavorare, è inevitabile per chi
pratica. Ossia, prendere tutto quello che ci capita, tutto il nostro karma,
come sfida, stimolo, insegnamento, tutto quello che ci arriva come invito a
crescere. Tutto, bene e male, come fermento di bene. Mi viene in mente San Paolo
quando dice: "Tutto concorre al bene per coloro che amano Dio".
Se abbiamo una pratica interiore, meditazione, preghiera, tutto quello che ci
succede diventa un richiamo all'esercizio della consapevolezza, della comprensione,
della compassione. Allora, quando questo comincia a succedere, comincia a finire
quella scissione, quella separazione dolorosa tra il piacevole, a cui siamo
avidamente attaccati, di tutti i tipi, mentale, sensoriale, e la fuga senza
fine dallo spiacevole, perché tutto quello che accade è fermento
di pratica. E, piano piano, il baricentro dei valori si sposta, dai contenuti,
dagli oggetti, dalle esperienze, dall'esterno, all'interno. Cioè il valore
per eccellenza diventa questa capacità di aprirsi che significa consapevolezza,
comprensione, compassione. Tutto quello che accade è combustibile per
questo fuoco, e allora siamo sempre meno interessati al combustibile e siamo
sempre più interessati al fuoco, che è alimentabile da tutto quello
che ci succede. Se la compassione, la comprensione, ci unifica dentro, ci unifica
altrettanto con l'esterno, inducendoci a vedere sempre meno la differenza fra
la sofferenza nostra e la sofferenza altrui. Questo progressivo diminuire della
differenza tra la sofferenza propria e quella altrui significa il fiorire della
compassione.
Oggi, in occidente, chi segue un cammino spirituale, che provenga da vicino
o che sia venuto da lontano, sempre meno tende ad appoggiarsi a credenze, a
dottrine, concetti, per cui, nel caso per esempio della morte, si ricorre non
tanto a dottrine quanto alla categoria del mistero. A me sembra che ci siano
due modi di metterci davanti al mistero: uno è un onesto non so; ma,
se consideriamo quello che mi sembra più specifico dell'approccio spirituale
allora, oltre al non so, c'è qualche altra cosa, e questa altra cosa
io lo chiamerei il fattore F, cioé fede-fiducia, distinto da fede-credenza.
Perché questa fiducia? Se io perseguo un cammino di purificazione mentale
buddhista o non-buddhista, a un certo momento comincio a vedere, con sorpresa
e con interesse, che la mia capacità di fiducia diventa più calda
e più spaziosa. Questo ha a che vedere con la scoperta e l'applicazione
feconda dell'attenzione, della consapevolezza, che non è un contenuto
mentale, ma qualcosa che è capace di vedere i contenuti mentali come
uno specchio terso. In pratica, col tempo e col lavoro interiore, noi sempre
di più ci troviamo davanti "qualcosa", la consapevolezza, che
da un lato ora c'è ora non c'è come qualsiai altro contenuto mentale,
ma, dall'altro, in radicale diversità dagli altri contenuti mentali,
la consapevolezza si rivela come qualcosa di assolutamente uguale, assolutamente
terso, assolutamente aperto. Sono proprio queste caratteristiche a darci un
senso di sconfinatezza che genera fiducia. Una pratica di consapevolezza, prima
o poi, deve far sorgere nella persona la fiducia nella consapevolezza. Ma la
fiducia nella consapevoezza non è la fiducia in questo, quello, quest'altro,
è una fiducia più vasta, come più vasta è la consapevolezza.
Non i contenuti della consapevolezza, il contenente. Naturalmente, nel momento
in cui riprendono il sopravvento i nostri modi, noi avremo soltanto paura della
morte, laddove, nell'attimo in cui è presente la consapevolezza, con
questo suo sentore di sconfinatezza, noi avremo meno paura della morte, anzi
potremo perfino avere fiducia nella morte. Perché no? Che ne sappiamo?
E ci accorgeremo che l'idea di amicizia per la morte è una vera possibilità.
Vorrei finire con le parole di Marie de Hennezel, che si occupa di assistenza
ai malati terminali: "Questa impotenza, ossia la situazione di una casa
per l'assistenza ai malati terminali, accettata ancora una volta, è la
nostra forza, lo sappiamo. Cioé continure a fare il possibile in un contesto
di impotenza generale ha paradossalmente un impatto dirompente". E le persone
che vanno in questa casa lo sentono e sono enormemente aiutate nel trapasso.
E questo impatto dirompente si chiama fiducia, si chiama amore. La stessa de
Hennezel racconta di una persona che le dice: "Ho paura di morire, non
so come si muore, ti prego aiutami". "Sul momento rimango interdetta,
neanch'io so come si muore, però rispondo: "Credo che sia più
facile di quello che ci si immagina. Sembra in realtà che sia molto semplice,
forse c'è qualcosa in noi che sa".
(da "Buone Notizie", anno 2000 n°1)